Festival Venezia

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Matteo Marelli

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Tanya è morta. Miron e Aist, rispettivamente marito e amante, decidono di congedarsi dalla donna celebrando il rituale d’addio come previsto dalla tradizione della cultura Merja, antica etnia ugro-finnica. Sanno che così facendo possono scongiurare la minaccia della distruzione del mondo da cui provengono e soddisfare, di conseguenza, il bisogno di salvezza ad essa congiunto.

Matteo Marelli

forgottenspaceIl container come unità fisica di misura attorno a cui si organizza l’economia mondiale. I percorsi di transito lungo cui questo si sposta ridisegnano la mappatura terrestre. Tracciati aventi un’unica coordinata geografica, il profitto mosso da logiche di sfruttamento consumistico. Il mondo non è più pensato come «una casa per tutti, ma un mercato per ciascuno»1.

Matteo Marelli

venus_noireÈ un percorso esistenziale in caduta libera quello di Saartjie Baartman, più conosciuta come Venere ottentotta. Quello che compie è un inarrestabile inabissamento che dai sobborghi londinesi, dove interpreta la parte dell’osceno fenomeno da baraccone, la porta prima ai salotti libertini parigini, a soddisfare le pruriginose voglie della buona società borghese, e poi giù, sino ai più squallidi gironi postribolari. Una progressiva distruzione che non si arresta neppure una volta morta. Il suo corpo, venduto all’Accademia reale della medicina di Parigi, è sezionato per dare legittimità scientifica alle più estreme teorie del “darwinismo sociale”.

Diego Mondella


cirkuscolumbia«Qualche volta sento che nel 1992, quando cadde il comunismo, ci siamo ritrovati sul bordo di un abisso. Il resto del mondo guardava in silenzio dall’altra parte. Siamo stati costretti a saltare, ma non siamo arrivati dall’altra parte. Stiamo ancora cadendo» (Denis Tanović).

«Mentre i mezzibusti non trovano accordo, versione di Caino,
la macchina della storia fa dei cadaveri il suo carburante» (Joseph Brodskij, Tema della Bosnia).

No Man’s Land, Triage, Cirkus Columbia. Durante, dopo, prima. La trilogia sul conflitto nei Balcani di Tanović è un viaggio di ricognizione nel “buco nero” della storia recente dell’Est Europa, che, a distanza di vent’anni dal suo tragico inizio, grava ancora sulla coscienza di chi non fece abbastanza per evitarlo (l’Onu, la Nato e l’intera comunità internazionale). La scelta temporale compiuta dall’autore non è cronologica. In quanto gli stadi della memoria, che sfuggono ad ogni criterio di ordine e razionalità, sono dettati invece dall’emozione e, a volte, dalla casualità.

Lorenzo Esposito


road-to-nowhere-hellmanArticolo tratto da "Filmcritica", n. 608, ottobre 2010.


1.


Ci sono delle linee di forza che tramano le immagini, che le spostano e le disorientano, testandone la disponibilità e la resistenza a flussi incongrui, a iniezioni eclettiche, a energie anomale. Assomigliano a delle volumetrie, i cui setacci, in altro senso, tramano alle spalle delle immagini stesse, magari facendo appello a una esplosiva fisica erotica, oppure diluendo nella miscela una pura chimica spettrale: Machete di Robert Rodriguez e Ethan Maniquis e Jianyu (Reign of Assassins) di Su Chao-Pin e John Woo, rispettivamente e tanto per cominciare (il sistema delle coppie, col raddoppio dei nomi alla regia, benché poi sia inesorabilmente chiaro chi fa da spalla a chi, non spiega del tutto la trama né il complotto produttivo, ma fa parte della medesima geometria cubica. E chissà che, di tale laborioso duettante laboratorio, non stia passando qualcosa in certo cinema italiano, su cui torneremo prossimamente, che a Venezia quest’anno è parso radiografarsi nell’ombra: Maderna/Pozzoli, De Angelis/Di Trapani, Zamagni/Ranocchi e, ovviamente, Gaudino/Sandri).

Matteo Marelli

the_nine_muses«Ha da passa’ ‘a nuttata»
(Eduardo De Filippo, Napoli milionaria!)

Che cos’è il cinema? È sempre utile partire da buone domande per poter elaborare delle risposte adeguate. Questo interrogativo, così carico di echi baziniani, torna a riproporsi con urgenza, perché il cinema, da “occhio del Novecento”, mezzo espressivo primario, serbatoio di tensioni storiche e mitologie popolari, di ossessioni morali e grovigli sociali, si trova oggi ad occupare una posizione marginale in un paesaggio che privilegia altri media. «Ciò che caratterizza il cinema dell’epoca postmoderna è il fatto di non essere più il medium trainante, ma il tassello di un sistema più vasto» (Buccheri 2010, p. 124). È quindi il contesto mediale che impone di porci il dubbio ontologico sul senso attuale del cinema: quale spazio rimane alla settima arte in un’epoca in cui «ogni immagine scivola nelle altre», per dirla con Deleuze? Che cos’è successo al cinema come fenomeno artistico, culturale, sociale?

Luigi Abiusi

Cold_Fish_Coldfish1-512x341Versione riveduta e ampliata dell’articolo Corporale, pubblicato su “Filmcritica”, n. 608, ottobre 2010.


Cold Fish

Una delle tracce meglio rinvenibili da sotto la concrezione di film accuratamente eteromorfa, dell’ultima mostra veneziana, rivela numerose declinazioni corporali (apodittiche, stupefacenti, spesso vischiose) e di conseguenza le differenti, o addirittura antagoniste, concezioni del corpo-cinema, da quello laconico e fibroso nella misura di morto carname di Larrain, fino a quello più patinato, delle scenografie sessuali e muscolari di De La Iglesia (che non va oltre lo spettacolo “epidermico”, a dispetto di un inizio straniante) e di Rodriguez (impegnato, pur nei consueti giochi corrivi, ad alludere a una qualche eversione degli ultimi, dei marginali), passando per l’autentico pastiche di Sion Sono, che in Cold Fish (sezione “Orizzonti”)  genera una dinamica schizofrenica in cui corpo (squartato e ridotto a manichino monco) e sesso (negato o istericamente profuso) sono i termini di un'alienazione raggelata.

Matteo Marelli

DELBONO«Non ho altro modo di conoscere
il corpo umano che viverlo,
cioè assumere sul mio conto
il dramma che mi attraversa
e confondermi con esso».
(Maurice Marleau-Ponty)



È il dolore ad esigere che venga lasciata una traccia di sé. Solo salvandola dall’oblio del silenzio è possibile dare alla sofferenza un’occasione di riscatto, facendo di questa testimonianza.

Luigi Abiusi


faust_4-4Già la barca sballa sulle onde nell'ultimo tramonto che, come sempre, tacita la marina vastità verso Murano: strisce di terra annerita e spoglia, su cui razzolano stormi di chissà cosa dal collo oblungo, e poi, la calma acquea dove galleggia una piccola barca a pesca e una darsena di travi e piattaforme. Mentre le banchine di Murano bisbigliano per non svegliare i fantasmi sprangati nelle case, ripenso alle ultime cose viste.

Gemma Adesso


4.44-last-day-on-earth_low_1-300x168E' Dio che limita le cose del mondo, ma non conosciamo quali sono i limiti dell’inferno e
soprattutto: dov’è la frontiera dell’uomo?” (Sokurov)

L’11 settembre è il giorno ideale per le conclusioni...
Questa 68esima mostra è stata una collezione di capolavori, inevitabilmente qualche grande film (penso a quelli di Ferrara, Friedkin, Naderi…) è rimasto fuori dalla premiazione, riflettiamo sulla fine e consoliamoci.

Michele Sardone


Kotoko_2«Il cinema finisce con Kotoko. D’ora in avanti vedere film sarà come assistere a una retrospettiva» (Luca “Quasimodo”). Un giudizio estremo per il capolavoro di Tsukamoto: cinema portato allo stremo, un cinema della crudeltà che suscita violente reazioni emotive nello spettatore, i cui nervi angosciati vibrano a lungo usciti dalla sala.

Luigi Abiusi


andrea_arnold-wuthering_heightsSe proprio devo tenere in vita il diario - questa farragine in preda ai mutamenti atmosferici (oggi è scesa una cappa d’afa, una diarrea di luce attraverso i palazzi), agli spazi cosparsi di aghi di pino e di gambe cinesi, all’impressione, l’orrore del ritorno - quando magari mi piacerebbe riposarmi almeno un’ora, immergermi nella pace del nostro monolocale di via Zara, che odora di silenzio di là dai muri, nel giardino frusciante di natura morta, di rampicante, di cancello cigolante, e poi dimenticandomi nel sonno), allora devo iniziare dalla fine (o quasi), da Wuthering Heights di Andrea Arnold, non perché sia una storia di infanzia e di perdite (dell’infanzia, e dell’amore), ma perché ciò è espresso da blocchi di esperienza rigogliosa e ruvida, eterea e terragna.

Michele Sardone


THE_INVADER_STILL_01-thumb-600x337-25492Un biondo pettignone femminile, lasco in favore di camera, squarcia per cinque metri lo schermo: un cretto pantagruelico, pronto a fagocitare l'invasore, lo straniero alla conquista del Vecchiomondo, e il suo desiderio di dominazione e sottomissione.

 

 

Matteo Marelli


darkhorse_300Per quanto si sia portati a pensare ai personaggi solondzani come a delle propaggini dello stesso autore, in realtà il regista, a differenza di Abe, protagonista del suo ultimo lavoro, con Dark Horse ha dimostrato di riuscire finalmente a lasciare andare personaggi, temi e situazioni così a lungo "coccolati" nel corso del suo percorso filmografico e cominciare un nuovo discorso.
Per Solondz era diventata quasi una sorta di cifra stilistica quella di far cortocircuitare tasselli della propria filmografia creando continui rimandi tra l’ultima regia e i lavori precedentemente realizzati.

Michele Sardone


HimizuUn film compresso fra due catastrofi, quella di Fukushima e una seconda ancora a venire, ma presagita, forse agognata, più temibile perché il suo rombo già incomincia a farsi sentire nella disgregazione delle coscienze. Himizu è la talpa che erode dall’interno i corpi, per svuotarli delle loro forze e rendere più soffocante l’oppressione del dover credere nella ricostruzione dopo lo tsunami, sperare nel futuro del proprio paese, sognare una nuova vita per i giovani.

Gemma Adesso


terraferma“Venite adoremus. Dominum”

È così, avanti a destra c’è più cinema. Provate a vederlo Terraferma di Crialese da questa prospettiva, provate a fermarvi in questo lento annegare: dall’isola si vede tutto un mondo nuovo: la vertigine del viaggio che consuma le speranze, le aspettative alimentate dall’attesa di arrivare e vedere se quello che si dice è vero, se perdersi in questo frammento è possibile, se si può sopravvivere alla realtà invece che tuffarsi a occhi chiusi da una barchetta stipata di turisti sculettanti sulle note di Maracaibo.

Simona Tell e Matteo Marelli (a cura)


2439109_height370_width560C'è sembrato che in quest'ultimo lavoro presti ancor più attenzione al dettaglio, a tutti quei brand, e  a quegli oggetti, diventati nell'immaginario collettivo dei veri e propri status symbol. Quella che prende forma è una società dominata  totalmente dalle merci, dalle etichette, quasi fossero rimasti gli unici contrassegni ancora capaci di funzionare come dispensatori di identità.

Michele Sardone


pelesjan

Siamo abituati a considerare il montaggio cinematografico come un esercizio di associazione fra le  diverse sequenze che compongono il film: il regista armeno Pelešjan invece ingaggia la sua lotta col tempo nella distanza che si viene a creare fra le inquadrature, nello spazio che le separa, per misurarne la durata nella linea di sutura che c’è fra loro o intrappolarlo nel fermo di un’immagine.

Matteo Marelli


poulet-aux-prunes-2011-20190-858507840Cucinandogli il "pollo alle prugne" Faranguisse riesce a conquistarsi fuggevoli parole d'affetto da suo marito Nasser-Ali, il miglior violinista della sua generazione. Sa che ciò che ha permesso al proprio sposo di diventare un vero e proprio artista e non rimanere soltanto un virtuoso dello strumento è stato l'amore. Ma non verso di lei.

Luigi Abiusi


shame-gb-2011-di-steve-mcqueen-L-tKXIZVLa morte a Venezia è questo muto grondare delle cose, la loro assenza bagnata che ti pone in lontananza, ti dilaga, ti polverizza. Anche le immagini che ha filmato Saverio (operatore di Uzak, artefice di immagini, ecc.) al suo primo giorno al Lido, il montaggio che ne ha fatto, dice questo sbiadirsi dei passi, come un annuvolarsi, uno smarrimento letto in fondo a una pupilla.
Alle 9 entro nella Sala Darsena per Shame, di Steve McQueen che ho amato al tempo del suo Hunger, fenomenologia dell’autodistruzione nel presente per poter ritrovare l’infanzia. Ma qui non è la stessa cosa, perché a fronte di un inizio folgorante che lascerebbe presagire lo svolgersi di una variazione (video)artistica sul melò (del resto McQueen viene dalla videoarte), il film pur mantenendo un livello sufficiente di espressività sembra sfilacciarsi in alcuni punti del finale.

Gemma Adesso


04-1589928_0x410“Che sarà di Dio se dovessi morire?” (Schreber)

Dicevo: un festival di nevrastenici, e aggiungo: compiaciuti cultori della patologia.
Dopo un considerevole numero di film, in questo quarto giorno di permanenza al Lido, mi sembra di poter dire con una certa sicurezza che il corpo è soggetto privilegiato della 68esima mostra del cinema.

Luigi Abiusi


louis-garrel-monica-bellucci-un-ete-brulant-00In questo cabotaggio circuitale, andirivieni di un chilometro a passo sostenuto, che sono le giornate alla Mostra, mentre le biciclette vanno a passo d'uomo su uno sfondo di capanne da spiaggia, non mi ero mai accorto che alla finestra della sala stampa (sempre lei: luogo di osservazione/riflessione) non si vede solo un qualche gabbiano puntuto, a volteggiare in mezzo ai filamenti delle nuvole e fino al bordo delle inferriate, come scrutando questi omini (inutilmente) formicolanti, chini sulle tastiere; ma anche le cime degli alberi, già un po' gialli, ondeggianti, che adornano e intristiscono le aiuole della cappella in cui si celebra il funerale di Frédéric (Louis Garrel) in Une été  brûlant.

Michele Sardone


louise_wimmerUn fantasma s’aggira per l’Occidente, lo spirito del capitalismo. Louise Wimmer potrebbe essere un eponimo contemporaneo, un revenant del modernismo decadente, la tipica parabola pseudoamericaneggiante dell’eroe che contando sulla sola sua virtù riesce nell’impresa.



Michele Sardone


poucetMangia o verrai mangiato: è la legge di natura che regola i rapporti di potere (che sono sempre rapporti di forza) fra gli uomini, bestie fra le bestie, a seconda dei casi prede o carnefici. Lo capisce bene Pollicino, protagonista  della fiaba in costume riadattata da Marina de Van, e a proprie spese: anche i legami familiari vengono meno dinanzi al dittato della natura, in base al quale i suoi genitori, morenti di fame, decidono di abbandonare lui e i suoi fratelli.

Matteo Marelli


dangerousSi era certi che nessuno, meglio del Profeta della "nuova carne", si potesse confrontare con la dovuta dimestichezza e senza eccessivi timori reverenziali con la vicenda che ha per protagonisti  Gustav Jung, Sabina Spielrein (sua paziente, amante e collega) e Sigmund Freud.
Chi meglio di Cronenberg, sempre attento nell'osseravre l'uomo nei suoi tentativi di manipolazione dell'esistente, avrebbe potuto gestire il cortocircuito umano e professionale tra il padre della psicanalisi e il suo più brillante, ma allo stesso tempo "indisciplinato" discepolo?

Michele Sardone

Michele Sardone

alpisLa vertigine di Alpis si sente una volta fuori dalla sala, tornati al livello del Lido: si insinua surrettizio il dubbio che ciò cui assistiamo sia solo una recita, il mondo sia un teatro, il nostro apparire una posa sedimentatasi in anni di convenzioni,  i rapporti umani siano ascrivibili a un tacito canovaccio.


Luigi Abiusi


alpsMAIN11Nel sopravvenuto sentore del sonno, specie di apocatastasi della giornata, mi accorgo che quando sono qua, tendo a non guardare mai in alto, quando mi sveglio, per sapere se c’è o no quel sole appiccicoso, che ti scotta la schiena, mentre stai a scrivere di copertine celesti nella sala stampa e di cinema e scrittura che parlano di sé, parlano da sé nella demiurgia di ciò che sfugge miracolosamente all’egida del vuoto, poi uno sguardo dietro, mentre un cinese fantastica sullo schermo del suo computer (le luci elettriche della sua città dove la sua ragazza balla specchiandosi in una vetrina), e alla finestra, il mare.

Michele Sardone


cut_3Il terzo pezzo su Cut, il terzo uomo che entra in scena di sbieco (pensando più a Totò che a Carol Reed) come il terzo elemento che nell'inquadratura ha ragion d'essere solo in rapporto agli altri due, e che pure ha la sua funzione prospettica. Sebbene in Cut il terzo elemento nell'immagine abbia valore fortemente simbolico: il pacco regalo con i resti del fratello morto; il sacco da box, indolente e ipnotico come un impiccato, presagio del massacro di là da venire; la poltrona vuota, segno del potere impersonale e ancor più invincibile grazie alla sua assenza.

Gemma Adesso


Birmingham-Ornament-still"In sostanza, l'idea è di fare in modo che le etnie, la politica, le razze e le nazioni si trasformino tutte in oggetti non esistenti... - simili a ovali, scatole, grumi, armadi!
- Potreste pensare che sia vero "qualcuno", un vero "rappresentante del popolo", ma in realtà è solo un rappresentante di battiscopa, di macchie di caffè e nient'altro.
- In sostanza invettive politiche che bisognerebbe percepire solo come invettive poetiche. - In sostanza, spalmare la geopolitica dalla geologia alla poetica.
- Potete farvi venire in mente qualsiasi altra cosa!"

Luigi Abiusi


5964652930_5453509f6fAll’improvviso il temporale scarica sul lido la sua congerie di pozzanghere, di foglie fredde, mentre compare a vista il nodo dei palazzi del cinema, ingessati tra i recinti e i cantieri. Un senso di provvisorietà - in attesa della stabilità che darebbe il nuovo palazzo del cinema - che è tutt’uno con la sorpresa di avere una proiezione in meno a disposizione della stampa. E allora le file sono assembramenti selvaggi di giornalisti (quelli col lasciapassare rosso interessati a quel tale tacco della diva o a quel tale pacco del divo) e critici vari a vedere Polanski e, a sera, Garrel, quando cominciano a venire fuori, come le zanzare, le femmine sui tacchi e i ragazzoni coi pacchi, per una movida stagionale che si pavoneggia qui, prima di tornare alla desolazione autunnale.

Matteo Marelli


un-ete-brulant-2011-21245-1365208259Garrel sembra voler portare alle estreme conseguenze l'immagine-tempo, svincolando questa da qualsiasi subordinazione di tipo narrativo. Compone le inquadrature come se fossero delle nature morte, facendone un'unità a sé stante, letteralmente indipendenti, autosufficienti dal contesto. Muove la sua macchina da presa per una Roma volutamente fotografata al di fuori degli abituali tracciati turistici, dal luccichio ingessato delle immagini da cartolina.

Gemma Adesso


Ruggine-05

Un film giocato tutto sull’ostentazione di contrasti visivo-sonori e su un eccesso di semplificazione dei caratteri e dei ruoli dei protagonisti: la distanza dei genitori dai figli si riflette sulla incommensurabile differenza dei due mondi; la luce accecante del primo fa sempre da contrappunto con la claustrofobica oscurità del secondo; i grandi giocano a mascherare l’ipocrisia che si addice ai loro ruoli di sorveglianti, educatori, dottori mentre i bambini sono impossibilitati a uscire dall’interpretazione di una rigida violenta gerarchia che li vorrebbe adulti.

Gemma Adesso


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Cut (A. Naderi) – Orizzonti
«Maestro Kurosawa, il cinema sta morendo. Io voglio sopravvivere».

Incolonnati in una smilza fila per la Sala Grande con i nostri fieri accrediti legati al collo e le poche ore di sonno ad appesantirci le palpebre. L’aspettazione sconsolata che ci faceva affermare con una certa sicurezza che le due di pomeriggio “volgono già il giorno verso sera!” (QuasiModo) si declina in un’attesa di sogno (che fa stringere la mano di Ghezzi e lascia teorizzare tattiche sulla disposizione dei posti a sedere - in prima fila a destra c’è più cinema -; la corsa per i posti centrali, quelli dietro la nuca di Naderi; e Müller nel suo impeccabile abito che sa di mondi lontani…) prima della visione.

Michele Sardone


mcelwee20-20photographic20memory295Un regista non riesce a comunicare con il figlio adolescente. Per segnare un campo in comune, tenta allora di cercare nel ragazzo un riflesso del ricordo che aveva di sé da giovane: ciò che otterrà non sarà uno specchiarsi, ma una sovrimpressione straniante. Photographic memory prende come pretesto il naturale fraintendimento che intercorre fra le generazioni per riflettere su quel legame capriccioso fra tempo e immagine che è il ricordo.

Matteo Marelli

Carnage-Polanski-film-2011Il dio della carneficina non arma solo il braccio delle schiere degli eserciti. S'annida ovunque, pronto a scatenare il gioco al massacro appena l'occasione lo consente. Nessuno può credersi escluso, anche se appartiene alla schiera della cosidetta gente per bene, quella che i problemi li risolve dialogando. Persone boriose, che sotto la scorza dell'ostentata superiorità morale, covano, come tutti, meschini desideri di ripicca. E proprio questo sforzo di celare le loro reali pulsioni li rende il ventre molle della "civile" coscienza borghese.

La redazione


berlinguertivogliobene1UZAK è in partenza. Direzione Venezia.
L’organizzazione della 68° Mostra del Cinema, ritenendo la nostra rivista «molto bella e congruente» (queste le parole dell’Ufficio Stampa), ci dà modo di essere presenti come testata durante la manifestazione lidense. Siamo pronti a ricambiare l’onore concessoci facendoci carico dell’onere della partecipazione. Stiamo tracciando traiettorie che non ci facciano inabissare nel mare magnum del programma festivaliero, mai stato, in questi ultimi anni, tanto ricco e succulento.

Comunicato stampa


mostra-internazionale-cinematograficaIl premio della critica online torna alla
68^ Mostra Internazionale del Cinema di Venezia
Il riconoscimento verrà attribuito dai collaboratori di 49 tra le migliori webzine italiane

Venezia, 31 agosto 2010. Il Mouse d'Oro torna alla 68^ Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.

Il premio, istituito nell'agosto 2009 su iniziativa di Hideout.it, è assegnato da una speciale giuria formata dai collaboratori di 49 tra le migliori  webzine italiane di cinema, e viene assegnato ai due migliori film scelti dalla critica online: Mouse d’oro per il primo classificato del Concorso e Mouse d’argento al primo classificato tra le sezioni collaterali.

Michele Sardone

gebo_1

È possibile girare un film davvero ribelle al fascismo estetico e formale del cosiddetto postmoderno, magari risalendo nel tempo a ciò che vi era prima del cinema, al teatro delle ombre. In O Gebo e a Sombra la finzione è subito palese: dal caos buio antecedente ad ogni creazione vengono fuori mani gigantesche, rapaci, pronte a muovere sulla scena i destini delle figurine, delle quali vediamo, come se al posto dello schermo fosse stato montato sulla quarta parete un telo proto-cinematografico, le loro silhouette, proiettate dalla luce irreale di una lampada ad olio.

Gemma Adesso

Venezia-2012-The-Millennial-Rapture-video-della-conferenza-stampa-di-Sennen-no-Yuraku

«O amore che tutto crei
sublime eterna carità,
la tua fiamma è più forte d'ogni cosa,
più forte della morte.»

(Giovanni della Croce)

La sensazione di trovarsi di fronte a un’opera epica sull’esistenza è evidente già dall’inizio di Millennial Rapture; il mito entra prepotentemente nelle vicende individuali e le stravolge seguendo la magnifica prevedibilità del ritornello “si vive. Si muore.”: in una grotta arroccata nell’oltre mondo, Izanami brucia dando alla luce Ho-Masubi, il dio del fuoco, origine di ogni distruzione.

Luigi Abiusi

PHMzhB0uu8EBPT_1_mSpesso non si sente la stanchezza, una volta entrati in Darsena (dove ronza, rimugina all’improvviso, addirittura accenna un goffo passo di danza, la stampa, in coda a Korine), e si resta lo stesso a occhi spalancati (nonostante il poco sonno, il pasto frugale, la cappa di umidità che forma sul volto un sudario di occhiaie), di fronte allo schermo, come vivificati, nutriti, dalla farandola di immagini brulicanti, nostro malgrado.

Matteo Marelli

imagesSu tutto, lo straodinario impiego del contrappunto musicale. E in particolare la sequenza, già conquistatasi uno spazio di diritto nelle future antologie di manualistica cinematografica, che fotografa con lucida spietatezza l'inabissarsi delle protagoniste oltre i limiti del decoro morale causticamente commentato da Everytime di Britney Spears.
L'opera di Harmony Korine mostra il lato ferino, orgiastico, brutale, che cova al di sotto del superficialmente innocuo e patinato immaginario pop-giovanilistico.

Michele Sardone

Venezia-2012-Linhas-de-Wellington-clip-poster-e-immagini-del-film-di-Valeria-Sarmiento-12La Storia avanza intruppata e trascina dietro di sé una carovana di straccioni, esuli, nobili decaduti, ognuno portatore di un frammento di vissuto, o dell’immagine di un volto (magari dell’amore perduto) su cui la camera indugia come a voler ricomporre un quadro cui manca sempre un dettaglio per essere compiuto. Dalla Storia si fugge andando oltre le Linee di Wellington, fortificazioni tanto imponenti da essere leggendarie, descritte come appartenenti a un mito, quasi irreali quindi insuperabili: dinanzi a loro la storiografia si ferma e lascia il posto al fantasmatico.

Matteo Marelli

Dennis-Quaid-in-At-Any-Price-di-Ramin-BahraniChe senso ha realizzare un film che ripropone gli scricchiolii, i primi segnali di cedimento interno, di un sistema, quello neoliberista, di cui stiamo già assistendo al collasso? Che poi questo sistema, nonostante l'evidente sfacelo, stia attraversando la crisi, da lui stesso generata, senza perderne l'egemonia, è un altro discorso.
Ramin Bahrani con At any price firma un'opera anacronistica, fuori tempo massimo, sia per il discorso affrontato che per l'iconografia utilizzata.

Luigi Abiusi

intervallo

Sognare i termini della disgiunzione, e del soffocamento (si dovrebbe sognare solo a occhi spalancati, di fronte a una sinfonia tarkovskiana), equivale allo svegliarsi in una stanza ravviata dal temporale, oramai rappreso dentro uno scuro riverbero d’alba, da cui parte la striscia di sangue sull’asfalto. Kim Ki-duk fa ancora della poesia sangue, Pietà, sulla strada di quel rigore “digitale” che era già di Arirang e confermando lo spostamento della sua ricerca etica, dai rapporti amorosi (governati, come si sa, dalla coercizione, dalla violenza, da un senso di carcerazione e di perdita spesso irrevocabile) a quelli che si instaurano all’interno della società, in nome della profittazione e del sopruso.

Gemma Adesso

pieLa straziante e lucida confessione di Arirang era il preludio al soffocamento di Pieta: Kim Ki-duk non smette di elaborare questo discorso disperante sulla lacerazione attraverso l’incisione dei corpi, il senso di colpa che si abbatte sulle generazioni e scarnifica l’umano.
La mancanza di pietà travestita da solidale partecipazione alla sofferenza degli altri è l’aspetto più efficace per descrivere l’attuale sistema sociale fondato sulla violenza del debito. Sopravvivere al bisogno significa rinunciare necessariamente a qualcosa; l’umanità subalterna nascosta in bui e metallici sotterranei cede ciò che le avanza, la parte di corpo ancora funzionante, utile al sistema.
La descrizione dell’uomo indebitato non può quindi che eccedere nella esibizione del dolore, nello spargimento del sangue che massacra gli affetti più cari e condanna a una sopravvivenza insostenibile.
È una visione che precipita progressivamente sottoterra, costringendo a spalancare gli occhi mentre il nodo stringe la gola, taglia il respiro, abbandona l’aria. Il denaro è il gancio che tiene insieme la solitudine e l’assenza degli affetti, la mancanza e la paura della perdita, il senso di colpa e la vendetta, la condanna e la morte.

Michele Sardone

outrage-beyond-894487_0x410Kitano non è morto, sebbene ci sia qualcuno che dica il contrario da cinque anni, da quando è uscito Kantoku banzai!, il film con il quale ha provato a suicidare la propria immagine gloriosa, già sezionata e frammentata (forse per sopportarne il peso un po’ alla volta) in Takeshis’.
Outrage beyond
è oltre il semplice vilipendio alla gloria del filmaker, è la contraddizione di non voler fare un film attraverso la sua messa in opera.

Luigi Abiusi


somethingintheair.top_Fuori, l’arco delle giornate, dello stanco via vai, ruminare, ritornare, l’odore di pioggia, è per lo più sentimento di privazione, mancanza delle immagini, del loro spessore diafano, danzato, ridondante, che gronda spazio, passaggi di luce tra foglie e una sinfonica, solitaria erranza; fuori si passa il tempo cercando di dare senso all’assenza (di immagini), a un’attesa come infantile che misura da sola il sé, e il se. L’erranza apre To The Wonder, capolavoro di Terence Malick, e già dall’inizio non se ne vorrebbe più uscire; lirico incedere d’esseri (tre api perse su un soffitto) nel freddo atmosferico, sempre minacciato dalla dispersione, disaffezione, da una sedimentazione di lontananze.

Michele Sardone

apres-mai-14-11-2012-1-gDopo il Maggio francese arriva un été brûlant, la stagione in cui vengono bruciati i sogni rivoluzionari di ogni giovane generazione. Come fosse uno scorcio impressionista, il sogno appare: una ragazza vestita di bianco passeggia in un bosco e fa entrare in quadro il suo giovane pittore. Egli prova a farla sua, ma la visione gli sfugge via. Il ragazzo tenta allora di inseguire la bellezza attraverso la lotta contro il potere che deturpa il volto di ciò che gli si oppone: fa di un quadro un manifesto politico mentre un graffito propagandistico lo compone come fosse un collage performativo.

Matteo Marelli

to-the-wonderPrima di tutto e soprattutto è l’enorme talento. Un talento capace di coniugare la magniloquenza mainstream hollywoodiana con una complessità di scrittura propria del cinema d'autore più radicale. E il risultato più portentoso di questo difficilissimo equilibrio espressivo continua a rimanere The tree of life. Impresa prometeica, vera e propria cosmogonia universale, afflato di trascendenza che aveva scaturigine dall'immediata contingenza; film generoso, sovrabbondante. Manierista, ma di un maniersimo denso e dolente. To the wonder è la sterile ripetizione di questa maniera, affascinante ma pur sempre ripetitiva, in cui compaiono tutti gli elementi della poetica del regista, forse, ancor più elevati a potenza (su tutti il totale azzeramento della costruzione narrativa, della progressione drammaturgica, per lasciare completo spazio alla riflessione spirituale).

Grazia Paganelli

focaSfuggire i cliché e capovolgere il senso comune delle convenzioni. Questi i talenti della regista Solveig Anspach, islandese trapiantata in Francia che sa descrivere le piccole cose con lo sguardo incontaminato di chi sa osservare le linee del reale. Così, l’incrocio di due gru nel cielo di Montreuil ha posto le basi per Queen of Montreuil (presentato nel programma delle Giornate degli Autori), storia stralunata e imprevedibile di Agathe e della sua famiglia improvvisa e improvvisata, che le si stringe attorno al ritorno dal Vietnam, dove il marito è morto lasciandola sola. Ma la solitudine va cercata in questa casa piena di oggetti e di fiori, con le finestre che si aprono ad accogliere tutti e dove, pare, confluiscano strade verso luoghi immaginari di pura poesia.

Gemma Adesso

e-stato-il-figlio.jpg_t1344276887823Il film di Ciprì è un’interrogazione intelligente sull’obbedienza arcaica che trascende in sacrificio della carne. La società italiana attuale si riflette in una famiglia siciliana preistorica attraverso la tragedia di un conflitto generazionale che non può trovare una soluzione differente dal martirio del giovane corpo inetto disadattato dislocato del figlio.Occupare lo spazio non basta a essere corpo, la materia deve trovare una giustificazione attraverso il dispendio di se stessa, l’esibizione di una dolorosa confessione indotta dallo spettatore della tragedia: che si tratti della bambina uccisa in un attentato mafioso, o del fratello - interpretato prima dal giovane Fabrizio Falco e poi del maturo Alfredo Castro -, la presenza del figlio scompare in funzione di una storia incombente che lo vuole strumento sottomesso a delle regole incomprensibili, inchiodato a delle sovrastrutture alienanti (Famiglia, Stato, Chiesa) rese attraverso rappresentazioni oniriche e ironiche che ricordano gli sketch stranianti di cinica memoria.

Michele Sardone

fill_the_voidCome in ogni film in cui viene descritta una comunità chiusa e integralista, il gioco combinatorio fra i personaggi segue l’avvilupparsi del reticolo dei codici e delle meccaniche intorno a una predestinata vittima sacrificale. Appare quindi una vergine 18enne, circonfusa di una luce aurorale che polverosa le accarezza il bianco del vestito, del collo e delle guance, come in un quadro di Monet.

Gemma Adesso

Superstar_Recensione_film«La sfera pubblica si privatizza nella coscienza del pubblico che consuma; la sfera pubblica diventa la sfera di pubblicazione di biografie private, sia che essa porti alla luce le casuali vicende del cosiddetto “uomo della strada” o quelle di stars deliberatamente costruite, sia che si travestano con una maschera di privatezza e si rendano incomprensibili per eccesso di personalizzazione sviluppi e decisioni di pubblica rilevanza. Il sentimentalismo verso le persone e il corrispondente cinismo verso le istituzioni che ne derivano con socio-psicologica ineluttabilità, limitano poi naturalmente la capacità di un dibattito critico nei confronti del pubblico potere, quand’anche fosse ancora possibile.»
(J. Habermas)
 

Michele Sardone

the-master70 mm sono forse anche pochi per contenere, in una sola inquadratura, tutta la possanza epica del film di Anderson: eppure grazie a questo formato la nitidezza dell’immagine è tale che nessun particolare può sfuggire, tutto è sempre a fuoco, lampante, chiaro. È chiaro che non c’è uomo che non possa vivere senza padrone, che ognuno aspetti il proprio messia che gli dia un posto dove stare, un indirizzo al suo agire, in una parola, un senso, uno purché sia. 

Matteo Marelli

loadgallery322049631.jpegw640Il furore iconoclasta di Ulrich Seidl tocca, in questo film, una durezza e una spietatezza adamantina. E, così come non concede attenuanti ai suoi personaggi, non permette fraintendimenti agli spettattori. L'esasperazione dei toni e delle situazioni è da leggersi in questa prospettiva; i sui film sondano i punti deboli di una comunità, il dramma sociale, l'endemica irrequietezza evolutiva che porta gli antagonismi a venire allo scoperto. Come una peste, il cinema di Seidl è un’alterazione, un’esagerazione, un’ipertrofia; crudele, tutt’altro che consolante, esorta a guardare con onestà e coraggio ciò che sta al di sotto della sovrastruttura civile, dentro il collasso morale. È un contraccolpo che annienta la falsità, rappresentata, in questo caso, da una fede completamente svuotata di senso, reificata a feticcio, ridotta a suppellettile.

Vito Santoro

monicelliSono passati quasi due anni da quando Mario Monicelli decise di porre fine alle sue sofferenze e farla finita con la vita. Oggi nel film documentario Monicelli. La versione di Mario – presentato a Venezia 69 nella sezione "Classici" – lo ricordano con affetto, ma senza alcuna retorica, cinque registi, Mario Canale, Annarosa Morri, Felice Farina, Wilma Labate e Mario Gianni. Il racconto è affidato alla voce inconfondibile dello stesso Monicelli, cui fanno pendant foto, immagini di repertorio e le testimonianze di quanti hanno avuto di frequentarlo, frutto di un lungo e accuratissimo lavoro di ricerca (del resto, a Canale e Morri si devono alcuni tra i più importanti documentari sul Cinema realizzati negli ultimi anni, tra cui ci piace ricordare almeno Marcello una vita dolce, Marco Ferreri, il regista che venne dal futuro, Vittorio D.).

 

Luigi Abiusi



heavensgate2
Lido, rado via vai da primo giorno, e sole a picco sulle teste, alle due del pomeriggio, a rischio di insolazione. Squali a parte, iperbole di catastrofi, tutte insieme: una rapina (con morto), un maremoto, squali appunto, famelici, vaganti tra i reparti di un supermercato allagato; cavo ad alta tensione che sfrigola a pochi millimetri dal pelo dell’acqua; assassini appollaiati sugli scaffali, tra le merci in macerie, pronti ad accoltellare, sparare (con ghigno); e cavalcata improvvisa di ragni pazzi dai condotti di areazione; insomma, tutta una casistica e un bestiario (in cui non mancano serpenti d’acqua) nell’acquario di sagome animate, pupazzi straripanti, che è Bait 3D di Kimble Rendall; a parte questo (rozzo) baraccone di divertimento, la cosa migliore vista finora in questa Mostra è il capolavoro di Michael Cimino, I cancelli del cielo, nella versione integrale di quasi quattro ore, che ridà sostanza a quell’epica dell’America violenta e sentimentale, come inscatolata invece (ma in qualche modo affiorante ancora) nella versione passata nel 1980 nelle sale. Dissertazione straordinaria non già limitata al contesto storico di riferimento (il versante nord-orientale degli Stati Uniti, proiettato verso l’ovest, tra il 1875 e il 1903), bensì pienamente calzante con il contemporaneo, con l’appannaggio, come si sa, delle borghesie abbienti (senza meriti, se non quello dell’appropriazione indebita) a discapito di maggioranze affamate (senza demeriti, che non siano quelli relativi al biologico germinare, come sempre).

Matteo Marelli

lcaterra-quattrini-impenetrable-295In sottotraccia scorre il tema misteriosissimo di tanto teatro tragico greco, quello della predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri. Un tema che investe tanto la dimensione intima, personale, quanto quella collettiva, generazionale. E «non importa», come scriveva Pasolini, «se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti. È il coro che si dichiara depositario di tale verità». E la colpa è stata di credere che la storia neocolonialista, liberista fosse l'unica storia possibile; che la povertà fosse un male assoluto. È stato il trionfo dell'assolutismo consumista, dei meccanismi di mercificazione attraverso i quali il modello capitalista è diventato l'unico riferimento possibile.
Un dato di fatto; un dato perverso. Quello contro cui è costretto a scontrarsi Daniele Incalaterra, che ritrovatosi in eredità 5.000 ettari di foresta vergine in Paraguay, acquistati dal padre sotto la dittatura di Alfredo Stroessner, decide di restituirli al popolo originario, i Guarnì.

Michele Sardone

izmena_2.jpg-500-480x319Un uomo e una donna raccattano indizi, frammenti, situazioni per comporre un’immagine che per metà film è solo suggestionata, suggerita: l’immagine del tradimento, degli oggetti del desiderio che poi si compongono tra loro, s’incastrano e la cui visione è insostenibile, persino per il balcone che dovrebbe reggerli in scena. Una sodomia alla finestra, come quella in Crash, o (solo suggerita, suggestionata) in Tokyo decadence e immancabile qui a Venezia (l’anno scorso con Shame e The invader), con i corpi che si consumano, cercano l’annullamento del peso di sé fino a precipitare nel vuoto orgasmico.

 

La redazione

stray-dogs

Vengono dai ruderi abbandonati. Girano come pazzi, come cani senza padrone. Guardano sul mondo, come i primi atti del Dopostoria, dall’orlo estremo di qualche età sepolta.

 

 

 

 

La redazione

jalousie

La Jalousie è una carezza dataci da Philippe per mezzo delle lunghe mani di Louis, cesellate, intonse, preservate alle volgarità della fatica. Fuori dalla Storia, i personaggi si appartengono non essendo di nessun tempo. Ancora una volta deux Amants Réguliers, che ripercorrono puntualmente tutte le tappe del disinnamoramento in una vera e propria liturgia dei corpi, una cerimonia che li erge a centro e punto di partenza di ogni processo figurativo.

Luigi Abiusi


tsai1. Verso la fine. Me la prendo comoda, e me la prendo con me stesso, che sono rimasto steso stamattina, e offeso (anche solo dalla luce dalla tenda blu, nonostante Nicola ieri l’abbia chiusa con premura, prevedendo l’invasione di quello stesso stridulo grido di sempre che è la mattina), steso a penetrare il mistero del soffitto bianco, su cui appaiono fantasmi ferrigni, esoscheletri su cui si innestano pulsioni e proiezioni, che non si sa più cos’è reale cosa no, che si vorrebbe vivere sempre in questa dimensione falsa (il cinema, la poesia) liberata dalla verità, e invece si deve tornare, per ritrovarsi in una casa vuota, per strada mentre la polvere e stracci di foglie fanno il loro solito ballo autunnale, le ragazze parlano al telefono, nei negozi imperano le cineserie, e la fontana semplicemente scroscia.

Vincenzo Martino


Moebius 2E sono ancora silenzi, in quel coacervo di emozioni che il festival comporta; silenzi assordanti; e d'altronde, quando a (dis)perdersi è il significato (concettoso, narratologico), a che servono le parole? A che servono i discorsi quando  l’immagine impera, comunica?


Michele Sardone


feng-aiA Wang Bing riesce quello che i matematici hanno dimostrato essere impossibile, ovvero far quadrare un cerchio. La circolarità temporale della ripetizione, il loop della coazione alla quotidianità di giorni sempre uguali cui sono costretti i reclusi di un manicomio dello Yunnan (stessa regione cinese del suo precedente Three sisters) trova la sua perfetta spazializzazione, coincidente nel camminamento quadrato che viene percorso in continuazione, notte e giorno, dalle figure evanescenti dei condannati all’inferno.

Matteo Marelli


tom at the farm poster-620x350«Each man kills the thing he loves». Ogni uomo uccide la cosa che ama.
Così cantava Lysiane in Querelle de Brest. Così potrebbe cantare Tom, deciso a salutare, un’ultima volta, il proprio compagno, pur sapendo di doversi calare in un ruolo che lo costringerà a mascherare la reale natura dei suoi affetti.
Perché non esiste democrazia nei sentimenti, ma solo un'applicazione più o meno drammatica del sadomasochismo.

Gemma Adesso


Moebius 1Il taglio, voluto e subito, è il soggetto principale dell’ultimo film di Kim Ki Duk che, si vocifera, potrebbe uscire amputato nelle sale (sicuramente in Corea molte parti verranno censurate). Un’operazione non meno dolorosa della visione integrale e per molti insostenibile di una storia di perverse santificazioni.

Luigi Abiusi


Moebius 4Tsai Ming Liang lo vedrò tra poco in Sala Grande, ma ho già sentito di piani sequenza e randagi, e silenzi: è il film che più aspetto (almeno da maggio), quello da cui potrebbero arrivare le soluzioni (plastiche, coreografie, corrispondenze) più nuove ed emozionanti, ancora ricordando il materasso galleggiante alla fine di I don’t want to sleep alone,  che reinventava l’amore, e l’acqua, gli stomaci macerati dei palazzi.

Nicola Curzio


NightMovesIl cinema di Kelly Reichardt riparte da una diga, un muro di cemento armato che separa le certezze del sogno americano dalla reale presa di coscienza dello stato delle cose, secondo l’idea dei giovani protagonisti del film.

 

 

Michele Sardone


Medeas 8I primi istanti del film di Pallaoro sembrano rubati al cinema degli spazi aperti contemplati da Malick, Cimino, Rafelson: simile atmosfera diafana, luce incantata, con una famiglia in riva a uno specchio d’acqua; e si potrebbe essere nell’Ottocento, se non fosse per l’apparizione di una macchinetta fotografica a molla: click, ed ecco il primo sussulto temporale.

Vincenzo Martino


Miss-ViolenceTorte, candeline; sorrisi, come quello che Angeliki ha ancora sul viso avvolto dal sangue, denso e purpureo, dopo essersi lasciata cadere nel vuoto: gesto estremo di fuga, evasione silente. E quindi, mentre scorrono i titoli di testa, silenzio.



Gemma Adesso - Lorenzo Esposito


andereNon è solamente l’Heimat - luogo fisico connotato senza incertezza -  ma soprattutto l’aggettivo indefinito “altra” ad aggiungere e segnare uno scarto concettuale nel tema del ritorno ribaltando la questione e invertendo l’ordine della ricerca.
Il movimento avviene da fermi ed è un viaggio che porta lontano. Colui che più di tutti sogna di partire, colui che informa il territorio natio di parola e utopia (quelle degli indiani, che l’immaginazione situa nella giungla amazzonica) non intraprenderà mai il viaggio, ma sarà l’unico a restare aggrappato alla visione, la cui cronaca è ciò che definisce l’immagine in gioco.

Gianfranco Costantiello

ruin

Dopo una settimana di festival, i film cominciano a definirsi come un unico grande film, con le storie e le immagini che scivolano l’una dentro l’altra, secondo una muta corrispondenza che sembra passare attraverso l’acqua e, in particolare, attraverso un fiume. Fiume che, in Ruin, Memphis e La belle vie, sembra assumere una valenza metafisica. A comporre altre magnifiche visioni ci sono il bianco e nero di Die andere Heimat e il fiammeggiare di Medeas.

Luigi Abiusi


Medeas 3Il vento si è alzato stamattina e ora spazza i capelli, le gonne a pieghe, le ramure lungo i viali e le ferrovie, e gli aerei di carta. “Il vento si è alzato. Bisogna tentare di vivere”: su un treno in corsa, inseguendo un cappello sbalzato da una folata, Jiro e Nahoko si scambiano (con voce tenue dissolta nel vento) i versi di Valery, che dicono la necessità di assecondare quell’accensione di tempo e di spazio che è il nascere e il crescere, il creare (animare), aprendosi al dolore, al tempo, alla morte, all’esorcizzazione della morte dentro la spianata cerulea dell’immaginazione. È il capolavoro (in concorso) di Miyazaki (The Wind Rises), rastremato, asciugato da quelle strabilianti invenzioni anamorfiche che erano già nel Castello nel cielo, pieno di immagini di una storia ancora più vera se è il sogno a superarne gli abomini (gli aerei da guerra), e la poesia, “Le vent se lève! . . . il faut tenter de vivre!” vero centro pulsante e volatile di tutto il cinema di Miyazaki.

Luca Romano


avranasTutto si apre con una caduta, il film stesso è la caduta. Lei, l’undicenne sorridente, cade. Si sporge e va al di là della sua possibilità di corpo, subisce la gravità e affonda. Un po’ come andare al di là delle proprie possibilità, guardare fuori e credere di poter far qualcosa di simile al volare. Scavalca e subisce il peso del suo stesso corpo giovane e destinato alla morte.

Giovanni Festa

friedkinIl salario della paura è il film dell’ultra-amplificazione sensoriale, dove lo sguardo si trascina fuori da se stesso diventando altro, scoprendosi  orecchio che ascolta: ma di orecchio inverosimile si tratta, ingrandito fino a negare se stesso e divenire una specie di sonda, capace cioè di fare ciò che il microscopio fa con lo sguardo: estrarre una singolarità da un evento complesso ingrandendola fino alla grana setosa e nascosta.

Michele Sardone

Michele Sardone

miyazakiI sogni fanno male: non tanto al sognatore che persegue tenacemente il sogno, quanto ai suoi affetti, che si vedono logorare i legami e che, a loro volta, non possono che bilanciare tanta incuria nei loro confronti se non con superiore attaccamento, fino a distruggere se stessi. Le forme carnali e imperfette dei corpi infatti non possono sostenere l’eterea natura dei sogni se non diventando a loro volta evanescenti come fantasmi, ricordi o rimpianti, nebulosi come i respiri di una malata nel gelo di una montagna.

Matteo Marelli

Matteo Marelli

die-andere-heimat-04-Die aSi presenta Die Andere Heimat di Edgar Reitz. «Ne sono grandemente impressionato e turbato, poiché, sebbene nella mia visione tutto ‘corrisponda’ esattamente alle riproduzioni del quadro da me conosciute, essa ‘mi appare’ nondimeno assolutamente modificata e carica di una tale intenzionalità latente che […] diventa ‘d'improvviso’ per me l'opera […] più densa, più ricca di pensieri inconsci» di questa 70° Mostra del Cinema.

Michele Sardone

Michele Sardone

redemption--3Miguel Gomes  recupera immagini di repertorio delle epoche più svariate (dal cinegiornale al filmino familiare fino a una sequenza di Miracolo a Milano) e le fa entrare in collisione con i ricordi personali di quattro personaggi di altrettanti paesi europei: una lettera di un bambino portoghese all’epoca della caduta dell’impero coloniale, il primo amore di un vecchio milanese (bambina evocata come fosse una “Rosebud”), la confessione di un francese della propria inettitudine ad essere padre, lo sforzo di una sposa tedesca di togliersi dalla testa il motivo del Parsifal di Wagner.

Lorenzo Esposito

Lorenzo Esposito

CanyonsPaul Schrader infrange la passeggiata newyorchese di Manhattan con uno slittamento letteralmente octopus, agitando braccia-microcamere che sfidano e in qualche modo desertificano la propria stessa ansia di controllo.



Nicola Curzio

Nicola Curzio

curran tracksAnni prima che Christopher McCandless decidesse di intraprendere il suo cammino verso l’Alaska, un’altra adolescente, Robyn Davidson, in un’altra parte del mondo, affrontò un lungo viaggio nel deserto australiano. Se il paragone tra queste due persone è, perlomeno qui, di scarso interesse, non lo è invece quello tra i loro personaggi al centro, rispettivamente, del film di Sean Penn (Into the Wild, 2007) e di John Curran (Tracks, 2013).

Gianfranco Costantiello

Gianfranco Costantiello

gravity articleLa tecnica non fa altro che esporre l’uomo dinanzi alla sua fine. Fine imminente che pare dominare l’immaginario americano e, soprattutto, hollywoodiano, degli ultimi anni. Così in Gravity, primo film di Cuarón dal respiro mainstream, in un 3D quanto mai calzante, ci si trova a un passo dalla tanto sussurrata fine, quando detriti sfreccianti minacciano, d’improvviso, nella quiete sospesa del vasto nero spaziale, il viaggio dello Space Shuttle e la vita dell’astronauta Matt Kowalsky e quella della dottoressa Ryan Stone (rispettivamente George Clooney e Sandra Bullock in scafandro).

Vincenzo Martino

Vincenzo Martino

gravityTrambusto. Poi silenzio, pace, sensazione di assenza, di gravità e quantità; spazio e spazi, blu tenebra e azzurro cielo a confronto: ė dipinto in questa cornice l'incipit di Gravity, presentato fuori concorso a Venezia, ultima fatica di Alfonso Cuarón che ancora una volta si (re)inventa, abbracciando nuovamente una produzione milionaria e scegliendo l'alta quota, quella siderale, come strada/mezzo per esorcizzare un lutto - quello della dottoressa Rayan Stone, nome e fisionomie mascoline che tanto sembrano rievocare la Ripley di Alien -  tramite una (ri)nascita che parrebbe (nella dovuta misura) anche riproposizione (genuflessa) del 2001 archetipo kubrickiano; e difatti proprio laddove si interrompevano (se così si può dire) le avventure del discovery one e del suo equipaggio - e dunque l'orbita terrestre - prende piede la breve odissea di Rayan e del pilota Matt, per poi concludersi tra le terre rosse di un'Africa deserta (evidentemente attraverso un percorso inverso ma disseminato di citazioni: e penso a penne sospese e corpi fluttuanti in posizione fetale).

Matteo Marelli

Matteo Marelli

danteIl percorso spettacolare di Emma Dante ha da sempre una forza centripeta, una chiusura, un ripiegamento ombelicale che ambisce a contenere in sé il mondo. Una costruzione sineddotica che attraverso iperboli grottesche della rappresentazione lascia trapelare significati metaforici. Senza rinunciare al racconto, sebbene asciugandolo, riducendolo all’essenziale, presentando e indagando situazioni già date più che svolgimenti di conflitti e azioni.

Luigi Abiusi

Luigi Abiusi

sono hell teaser-thumb-630xauto-38159Quest’anno s’è arrivati in motoscafo di radica e di poltroncine filigranate a leoni rossi e gialli: vento nei capelli, occhiali da sole a intorbidire screzi cirrosi; i canali di Murano, con uno o due artigiani che cianciavano di reti e di legni, e poi la cosa imprevista, da gelarti il sangue nelle bluastre incrinature del polso chiamate vene: lo scafista ci scarica all’attracco della Darsena, che più in là ci sarebbe un supplemento da pagare, che se volevate scendere a Santa Elisabetta… ma me lo dovevate dire prima; ora se volete vi porto all’attracco dell’Excelsior, ma sono venti euro in più. E allora scendiamo alla Darsena dove c’era un serraglio di fotografi e video-operatori (con alle spalle delle fantesche adorne con cura e classe, che si mettevano in punta di piedi per poter guardare i feticci arrivati dal mare e potersi bagnare così nelle mutande odorose di mughetto) i quali, visto lo scafo lustro, battente bandiera veneziana con polena leonina a prua, e sonante dai Boose della vociona di Michael Bolton, hanno cominciato tutta una farandola di scatti e di riprese, e lampi ed epifonemi tutt’intorno, credendoci attori famosi o chissà magnaccia e mignotte della televisione o del parlamento; e un eunuco in giacca rossa e guanti di raso bianco lì a stappare una bottiglia e a fare tinnire i bicchieri di Swarovski.

Luca Romano

Luca Romano

movie-die-frau-des-polizsten-s2-mask9La fragilità è la capacità dell'uomo di salvarsi dai frantumi, ma non quella di rimanere intatto. La pelle mantiene gli organi vicini, intatti, li tiene uniti ed evita che il corpo si frantumi. Il film è frantumato in milioni di pezzi, forse meno, forse 59 capitoli, forse ogni fotogramma. Ogni capitolo inizia e non cede al secondo il suo spazio, ma finisce, si conclude. In ogni capitolo c'è il frammento di una storia inenarrabile in un insieme, incomprensibile insieme. La fragilità è in ogni spazio della narrazione, è nei canti con gli occhi negli occhi degli spettatori, nella memoria che non concede il ricordo di tutte le parole. La fragilità è nel passo degli animali, nella loro morte, negli incidenti che lui fotografa, nei corpi morti a bordo strada, negli steli d'erba dell'orto improvvisato, nei lombrichi che affondano nell'acqua nell'innaffiatoio; in tutto c'è una fragilità che frantuma e salva dai frantumi.

Michele Sardone

Michele Sardone

labruceLa gerontofilia del titolo sembra rivolta, più che ai corpi decadenti e azzimati, a un certo cinema vecchio, il cosiddetto “classico”: sceneggiatura ammiccante , inquadrature da incorniciare, montaggio al servizio della narrazione, fotografia patinata. Bruce LaBruce tenta di sovvertire il concetto di bellezza, ma si arrende comunque alla gerarchizzazione: non contesta la bellezza in sé, ma prova solo a invertire di posto quel che viene definito attraente con ciò che è disgustoso, lasciando invariato il sistema formale.

Serge Daney

Serge Daney

daneySe il film è per me, io sono per lui: di fronte a lui e dentro di lui. Ripenso […] a proposito del “posto dello spettatore” davanti a un film, sul fatto che c’è una doppia scena, un doppio modo di esistere davanti al film: come corpo inerte tra gli altri, e come sguardo vivo tra le inquadrature. L’amore dell’inquadratura è quello degli interstizi in cui infilarsi, di nascosto o ben nascosti dallo svolgimento del film.

Matteo Marelli

Matteo Marelli

altDa Nine Lives of a Wet Pussy Abel Ferrara ha sempre messo al centro del proprio cinema la narrazione della corporeità del personaggio. Gli uomini e le donne protagonisti della filmografia ferrariana sono materia tragica, un coagulo esperienziale e carnale per mezzo del quale l’autore ha potuto affrontare con furia profanatoria l’esperienza registica.
Una profanazione che deve essere intesa nel significato etimologico del termine, ovvero d’incursione, da profano, nello spazio sacro (quello cinematografico), aggredito sensibilmente, fino all’invasività, alla violenza, alla riflessività.

Luigi Abiusi

Luigi Abiusi

leopardi2Dice come si permette quello di toccare il più importante e amato (amato? paradosso scolastico, adolescenziale, o pura mistificazione) poeta italiano e di ridurlo a macchietta? E per giunta di rappresentarlo mentre va a puttane (e certo, sempre per quella mistificazione scolastica, Leopardi non potrebbe che essere corifeo di una sorta di platonismo romantico, privo di carnalità, desiderio, ecc.: appunto, ora sì macchietta; ma cos'è quel piacere su cui disquisisce con tanta veemenza se non piacere erotico?).

Gemma Adesso

Gemma Adesso

altLa camera di Delaporte è lo strumento musicale che accompagna le rincorse di Victor in una fuga tragica verso la meraviglia sgomenta del suono. Più che da vicende particolari (l'allontanamento dalla madre malata, l'avvicinamento a un padre estraneo ma famoso direttore d'orchestra, il gioco del calcio, l'innamoramento) Victor è percorso da una dimensione periferica, ventosa, di spazi aperti ricomposti in passaggi di sguardi e gesti interrotti, in riprese e rincorse che hanno il privilegio della penombra.

Vanna Carlucci

Vanna Carlucci

altTsili accenna passi di danza dentro il buco della storia: qualcosa è stato cancellato, dimenticato, qualcosa le è stato strappato e lei resta così, senza sfondo, senza direzione. È tutto qui, racchiuso in quella "danza sul nero" dei  titoli di testa: non si tratta nemmeno di un ballo ma di un inquieto "tarantolare" alla ricerca dello spazio su un piano senza piano alcuno. È un movimento verticale come un eterno scivolare, che è metafora della eterna condizione del popolo giudeo assegnato a una perpetua diaspora.

Gianfranco Costantiello

Gianfranco Costantiello

altTra le cose più belle – col Pasolini di Ferrara, of course – viste a questa mostra di Venezia, brutta e noiosa, c’è senza dubbio Zerrumplet herz (The council of birds) di Timm Kroger. Ed è sorprendente scoprire che, dopo Dancing with Maria di Ivan Gorgelet – documentario sulla figura carismatica di Maria Fux, una danzaterapeuta argentina che ci parla del ritmo, del movimento, del suono, dell’energia, dell’invisibile, e dunque, indirettamente, del cinema – anche quest’altro debutto folgorante arrivi da La settimana della critica.

Luca Romano, Michele Sardone

Luca Romano, Michele Sardone

Alla domanda di Max Brod se ci fosse speranza nel mondo, Kafka rispose che “sì, c’è speranza, infinita speranza. Ma non per noi”. Per chi c’è speranza quindi?





Matteo Marelli

Matteo Marelli

altSi può pensare di rappresentare la crudeltà sfuggendo il dottrinale massacro visivo (per cui, volendo mostrarsi, si cancella riducendosi a esibizione predeterminata di immagini violente)?
Sì.



Gemma Adesso

Gemma Adesso

Il cinema di Costanzo è connotato da un rigore raro a formare un’idea di spazio decomposto ed esatto nel quale i personaggi si muovono (o non si muovono) assorbendolo, diventando parte integrante di un sistema di forze che si diramano da un “quadro” centrale e invisibile.
Più che un punto di vista interno che incide e modifica il senso della composizione generale e ne orienta la morale, è nell’irruenza del contrasto tra interno ed esterno, nell’assenza cioè di un punto di vista specifico che possa dare un indirizzo alle opinioni; è nel disorientamento che segue al passaggio da una scena all’altra che progressivamente si (spro)fonda la visione.

Michele Sardone

Michele Sardone

Il cinema di Tsukamoto è stato sin dall’inizio un cinema di fusione: se in Tetsuo a fondersi erano uomo e macchina, in un grigiore metallico e umbratile, in Fires on the plain (remake dell’omonimo film in bianco e nero di Ichikawa) la fusione è tra la carne e giungla (resa non solo come opprimente groviglio di vegetazione pullulante, ma soprattutto sotto forma di intrico di forze, di pulsioni energetiche e decadimenti purulenti), nella fosforescenza del più spinto cromatismo.

Vanna Carlucci

Vanna Carlucci

«Così ho pensato di andare in fondo alla grotta, in fondo alla quale, in un paese di luce, dorme da cento anni il giovane favoloso» (Anna Maria Ortese, 2001.)
Le luci sono spente, gli occhi in attesa e, d'un tratto, la nebbia avvolge i corpi, qui, tra le sedute rosse della sala, li sullo schermo, dentro il viale che porta a Recanati. Una melodia da carillon segue i passi di un bambino, il sogno di un'infanzia trascorsa fatta di giochi di spade tra fratelli. La musica continua sospesa in un tempo dove gli occhi di un poeta aprivano lo sguardo, li, al di là del colle, al di là di ogni limite fisico a rimirar “l'eterno”, a “naufragar” col pensiero.

Nicola Curzio

Nicola Curzio

altRicucire lo strappo, o meglio la ferita, il taglio, colmare, cioè, quella distanza che tiene lontani, che separa: ricongiungersi. È il sogno utopico di un popolo fantasma, disperso, quello armeno, vittima di uno dei più gravi massacri che la Storia ricordi, anzi che non ricordi, considerato che ancor oggi sono poche le nazioni che riconoscono ufficialmente questo terribile genocidio perpetrato tra il 1915 e il 1916 dal governo dei «Giovani Turchi».

Michele Sardone

Michele Sardone

Maresco ha girato probabilmente il suo F for fake: come nel film di Welles, ad essere messa in questione è la supposta distinzione fra verità e finzione, fino alla conseguente trasvalutazione di valore tra ciò che è originale e la sua copia. Un fake è sicuramente Belluscone, un suono emesso dalla voce del popolo che lo idolatra, che lo ha fatto divenire immagine e simbolo di un sogno, divenuto poi sogno berlusconiano, a sua volta copia italiana dell’originale americano; un simbolo che diviene autonomo dal suo calco originario, un suo doppio, tanto che del Berlusconi vero, originale, poco ci interessa e ancor meno resta da dire, dato che di lui ormai tutto è già dato sapere.

Luigi Abiusi


altNella sezione Orizzonti, Heaven Knows What, dei fratelli Safdie, all’inizio fluttua lattescente, in amenza d’eroina, o forse steso in mezzo a un nevaio; e l’amplesso è vibrare d’elettronica, ipnotica, come oboi sintetici a scandire spirali che inghiottano, e minimog lanciati ad alta velocità dagli altoparlanti della Darsena, che ti tengono attaccato allo schermo, con gli occhi spalancati, tanto che penso vuoi vedere che vediamo il primo capolavoro della mostra? continuasse così, come un enorme, inquietante videoclip, sarebbe una pacchia: una specie di film di fantascienza, straniato, proprio dalla musica e dal dominio del bianco, fatto di cose elementari, realistiche; povere cose di un futuro, o di una realtà alternativa in cui regnano solo le gote bianche di Harley e gli occhi blu di Ilya. Ma col passare del tempo il film svela la sua natura (più) realistica, perdendo molto di quella estraniazione che straziava ed esaltava (così come quella musica così provvidenzialmente invasiva), ma mantenendo comunque un livello di rappresentazione degno, mentre la mdp dei Safdie sta addosso ai personaggi e ai loro deliri, vaniloqui, consunzioni di randagi (che sembrano richiamare il Van Sant di My Own Private Idaho), con picchi emotivi improvvisi, coincidenti con smarrimenti, perdite, vuoto vagare dentro la ruvidità degli spazi metropolitani.

Nicola Curzio

Nicola Curzio

altUna grande scatola nera, una bara, si muove tra le strade di un piccolo villaggio cinese ai piedi di una montagna, trasportata in lungo e in largo da un pugno di uomini che progressivamente, nel corso del film, dovranno ricredersi sull’identità del defunto. A chi appartiene il corpo carbonizzato all’interno dello scuro sarcofago? Si tratta della giovane Huan Huang, scomparsa ormai da quasi un giorno? O forse è di Chen Zili, che pure manca e il cui documento di riconoscimento è stato ritrovato a pochi passi dai resti del cadavere? Ma vi è davvero un cadavere in questa bara che a qualcuno sembra essere troppo leggera?

Gianfranco Costantiello

Gianfranco Costantiello

altAdam, figlio di immigrati irlandesi, si sarebbe dovuto stabilire, una volta cresciuto, nel mondo sicuro della fattoria di famiglia. Ma l’epidemia di afta epizootica del 2001 ha distrutto tutto. Dopo la catastrofe, la famiglia di Adam è implosa e il ragazzo è andato via di casa, trascorrendo gli anni successivi ai margini nomadi della società britannica, passando da un lavoro temporaneo all’altro e da un rapporto transitorio all’altro e andando alla deriva lontano dalla sua famiglia e dal suo passato. Quando il fratello minore Aiden lo contatta per annunciargli la nascita del suo primo figlio (Adam sta per diventare zio), oltre al messaggio gli dà un ultimatum: torna a casa ora o non tornare mai più. (dal sito della biennale)

Vanna Carlucci

Vanna Carlucci

altIl cortometraggio del 1961 L’amour existe di Maurice Pialat (presentato alla mostra del cinema in versione restaurata nella sezione "Venezia classici") scava nel paesaggio periferico francese, attracca sui margini delle ferrovie, dei borghi lontani, sui cappotti stanchi degli uomini che passano indistinti, come fiumi nella ruggine dei tram confondendosi nei giorni. Uno sguardo che si perde in un viaggio continuo, senza centro: dai palazzi alle villette fin dentro gli angoli del salotto.

Gemma Adesso

Gemma Adesso

La ricerca di “un posto” nel mondo nuovo è solo nel titolo del film del regista iraniano Nima Javidi: un posto, non importa dove, nel quale si resta o dal quale si fugge, in assenza di spazi aperti in cui respirare.
L’assenza d’aria che compone le prime scene di abiti liquefatti in un sottovuoto definitivo, si riempie di una colonna sonora fatta di squilli suonerie assillanti di cellulari mai spenti fastidiose videochiamate allarmanti citofoni. L’appartamento (quasi speculare ai corridoi labirintici del teatro mentale di Iñárritu, dove la necessità della ricerca diventava però volo immaginifico), sempre troppo affollato e dal quale sembra impossibile riuscire ad allontanarsi, diventa il luogo di un inesorabile e progressivo svuotamento di aspettative e di speranze generazionali soffocate in un sonno neonato (forse mai-nato); è allora che la partenza diventa fuga, i sogni sensi di colpa, le parole dovute confessioni impossibili.

Matteo Marelli

Matteo Marelli

Che Ulrich Seidl fosse pittore d’agonie lo si era capito da tempo. E non tanto per la scelta dei soggetti coinvolti nella messinscena (comunque non per questo ininfluente) quanto per la loro messa in quadro. La componente figurativa del suo percorso filmografico raggiunge in Im Keller uno splendido fulgore che ci porta a leggere quest’ultimo lavoro più in termini pittorici che cinematografici.

Michele Sardone

Michele Sardone

altSe ogni favola ha in sé una prova da superare, She’s funny that way di Bogdanovich la pone all’inizio chiedendo di fingere di credere in se stessa; superata questa condizione preliminare, ci si lascia prendere dal gioco di classici meccanismi cinematografici, che trovano nella coincidenza il dispositivo capace di far funzionare tutto il congegno filmico a meraviglia, sempre più freneticamente, fino a dare l'impressione di farlo girare a vuoto.

Luigi Abiusi

Luigi Abiusi

Nell’aria sonnolenta del primo giorno di mostra, in mostra già nella moquette rossa, a tratti ancora in allestimento sulle passerelle, gli scalini; nei tabernacoli che raccolgono la polvere del tempo, i fasti di vecchio velluto (drappi, saloni lucidi legati misteriosamente alla parola casinò e a uno scorcio di mare sciroccale, con anatre), anche le facezie di trina delle dive svolazzanti sugli attracchi, e, tra i cartelloni, le locandine, che raccolgono l’immagine di un festival che era ringiovanito grazie a Muller, tanto da diventare bambinesco, schizofrenico caleidoscopio di visioni, e ora sembra rattrappirsi, invecchiare nella carne purulenta della narrazione (ma neppure una bella narrazione, sfaccettata, inventiva: piuttosto una congerie di storie stanche, banali, come uno di quei ritornelli di Allievi in cui non si vede prospettiva, invenzione di spazi, se non quella di uno smottamento intestinale, improvviso); e in aria di deontologica detrazione di Iñárritu, artificioso, spesso tronfio si sa, Birdman delinea gli spazi tortuosi della mente (deteriore) di un attore di cinema passato a fare teatro dopo i successi del personaggio che interpretava, il supereroe Birdman, attraverso (l’illusione di) un unico piano-sequenza, niente affatto tendenzioso, e invece giustificato dalla conformazione stessa delle quinte di un teatro di Broadway, serraglio di cunicoli, camerini, depositi di vario teatrale ciarpame, con improvvise e fumide aperture sulle strade di New York. La cosa più interessante del film, oltre all’interpretazione di un beffardo (eppure tenero) Edward Norton, è il discorso metacinematografico (pure condotto icasticamente) e, come dire, di economia del cinema, perché a intellettualismi, elitarismi premessi da certa critica e certa cultura “alta”, Riggan Thomson risponde con la gioia, la libertà, la “volatile” follia del suo istinto (anche per plot carveriani) che celebrano film di puro, “ignorante” dinamismo, come Transformers e Godzilla.

Luca Romano

Luca Romano

alt«Se le lacrime vengono agli occhi, se possono anche velare la vista, forse rivelano, nel corso stesso di questa esperienza, un’essenza dell’occhio, in ogni caso dell’occhio degli uomini... Nel momento stesso in cui velano la vista, le lacrime svelerebbero il proprio dell’occhio. Ciò che fanno uscir fuori dall’oblio in cui lo sguardo le tiene in riserva sarebbe niente meno che la verità degli occhi di cui le lacrime rivelerebbero così la destinazione suprema: avere in vista l’implorazione piuttosto che la visione, indirizzare la preghiera, l’amore, la gioia, la tristezza piuttosto che lo sguardo»

Michele Sardone

Michele Sardone

altIl quasi ininterrotto piano sequenza di Birdman sembra ricalcare la più classica delle tradizionali regole teatrali, l’unità di azione, tempo e spazio nella tragedia. Ma già Angelopoulos e Tarkovskij avevano mostrato come in un unico piano sequenza potessero confluire e convivere tempi ed epoche diverse, accomunati dall’aver avuto lo stesso luogo d’azione, in riva al mare o in una dacia: il cinema scandisce i tempi e declina gli spazi in base al movimento (dello sguardo, nel caso del piano sequenza, anche quando resta immobile, basta attendere una variazione di luce per percepire il trascorrere di una notte in pochi secondi di visione) non secondo l’ordinaria cronologia diegetica.

Matteo Marelli

Matteo Marelli

altDa Pietà Kim Ki-duk cerca di emendare il proprio gesto registico dall’artificio cifratorio non privo di derive estetizzanti che ha segnato il secondo corso della sua parabola cinematografica, quella, per intenderci, dei grandi riconoscimenti internazionali, cominciata con Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, una lunga stagione non priva di un certo compiaciuto calligrafismo.

Vanna Carlucci, Nicola Curzio

altÈ nel continuo palesarsi di un’ombra, nel suo espandersi attraverso gli spazi vuoti eppure quasi claustrofobici delle stanze e dei locali, della notte riversa sul cemento dei palazzi, dei corridoi deserti di un ospedale, che David cerca, con tenera inconsapevolezza, di uscire dal bozzolo buio della sua adolescenza.


Luigi Abiusi


altMontanha (nella Settimana Internazionale della Critica) di João Salaviza dimostra ulteriormente quanto il cinema portoghese, senza tante storie, riesca a essere espressivo, manipolando, anzi lasciandosi manipolare dalla luce, che assume uno spessore cubico; e dal suono impregnante di bisbigli, sibili, stridori lontani, la superficie porosa dell’immagine.

Gemma Adesso

altCome in una incisione ulteriore delle Carceri d'invenzione di Piranesi, il film di Bellocchio si sviluppa attraverso moltiplicazioni e sdoppiamenti che sfuggono (e sfuggendo paradossalmente lo affermano) un tempo specifico, sfasano lo spazio del piccolissimo-vasto mondo bobbiese e scompaiono nell'inconcepibile che abbaglia.


Michele Sardone

altIl selfie soddisfa due esigenze attuali: da una parte, si presenta come tentativo di risposta alla domanda «chissà come mi vedono gli altri?», domanda da cui traspare una certa insicurezza del soggetto e del suo sguardo, travolti entrambi da un flusso di immagini dal quale cercano di emergere per affermare il proprio esserci; e quindi, in seconda istanza, il selfie ci dà l’illusione che ogni istante della nostra esistenza sia degno di essere vissuto e immortalato, sortendo però l’effetto contrario: se ciascun momento è importante nella stessa maniera in cui lo è il successivo o il precedente, allora non lo è davvero nessuno. Il selfie si pone allora sia come ipotetica soggettiva di un fantasmatico altro che ci osserva (e forse ci giudica), sia come contributo involontario alla proliferazione dell’indistinto immaginale dal quale tentiamo di sottrarci.

Alberto Libera

altNon essere cattivo è destinato ad essere l'ultimo film di Claudio Caligari. Malato da tempo, l'autore si è spento prima ancora di apporre il sigillo del final cut alla propria opera.
Forse, nella storia del cinema italiano, Caligari - a dispetto dell'esigua filmografia - si può ben designare come uno dei pochi eredi del magistero pasoliniano. Non solo nelle intenzioni o nelle dichiarazioni programmatiche: il suo cinema racconta storie di borgatari ed emarginati (i drogati, transessuali, barboni e papponi di Amore tossico, oppure i rapinatori "proletari" de L'odore della notte) con un'intensità che sfugge il rischio della serigrafia.
Anche Non essere cattivo assume a modello il cinema dell'autore di Accattone, raccontando la storia di due tossicomani e spacciatori del litorale romano.

Vanna Carlucci

Un al di là e un al di qua, due tempi e spazi che ininterrottamente si avvinghiano l’uno sull’altro, nel cinema di Bellocchio.  Le porte si aprono, i corridoi vengono attraversati e siamo dentro; non sappiamo cosa abbiamo visto, chi, un fantasma, un vampiro, un morto, un vivo ma la presenza di questi personaggi quasi si preannunciano nella loro assenza, nel fatto stesso di non esistere affatto. Bobbio è il quadro sognante, “è tutto qui” il mondo in cui si annida la polvere del tempo, tempo che si concretizza sempre in immagini ben definite, riviventi nel sogno.

Gemma Adesso

alt

Un attimo prima di scomparire nel vuoto, il figlio sorride al padre. La vicenda della famiglia Puccio coinvolta nell’organizzazione di una serie di sequestri nell’Argentina degli anni ’80 è nel film di Trapero il pretesto per indagare la fallibilità dei rapporti, o meglio, i ripetuti tentativi di interrompere dei legami di asservimento. La Storia è la scena dalla quale si diramano altri sistemi di influenza che coinvolgono, in un processo di inarrestabile corruzione, il rapporto vittima-carnefice, padre-figlio, famiglia-Stato. Ogni specifico sistema è l’esempio di un servizio dovuto e reso ad un organismo panottico, in apparenza felicemente funzionante (i riferimenti al Kynodontas di Lanthimos sono evidenti) in cui il dettaglio imprevisto inceppa il piano, fa crollare l’organizzazione, affonda il contesto sicuro nel quale ricevere un ruolo.

Michele Sardone

Si rimane affascinati dal film di Guadagnino come lo si sarebbe dalla visione di una figura femminile che è stata per troppo tempo bella ma che si ostina a mantenere una sua aura da donna fatale, e a viverci dentro, a indossare abiti sgargianti e zirconi lucenti, incurante del tempo che passa e del sentore di morte, e che vede nella sua civetteria fintamente fatua un rifugio dall’evidenza della realtà delle cose.

Nicola Curzio

Un toro fosforescente corre in un’arena oscura. Due ombre a cavallo lo fiancheggiano, e in un attimo lui è a terra. Il tonfo della caduta è coperto dagli applausi del pubblico.






Matteo Marelli

altAmos Gitai, dopo The Arena of Murder, torna a fare i conti con l’assassinio di Rabin, episodio che segna la fine brutale dell’utopia, il progetto di pace tra Israele e Palestina. Del resto per lui l’atto di filmare ha sempre coinciso con l’essere al servizio di una memoria collettiva o col farsi eco di una catastrofe. La prospettiva adesso non è più quella dell’universo intimo e caotico, ma della coscienza collettiva.

Alberto Libera


«L'immagine filmica non è il mondo, né un'immagine specchio, ma il risultato di un lavoro di messa in scena che produce un simulacro (del) visibile.»

Partire da questa considerazione di Francesco Casetti per riflettere su un film di Frederick Wiseman, ovvero di uno tra i massimi documentaristi di ogni tempo, può sembrare un paradosso. Eppure, lo stesso autore ha sempre rifiutato la succitata qualifica, preferendo invece paragonarsi ad un romanziere dell'Ottocento. Addirittura, in un'intervista afferma: «mi considero semplicemente un regista che gira film drammatici basati su eventi reali.»

Michele Sardone

In occasione di un compleanno di Gropius, ognuno dei maestri del Bauhaus gli dedicò un disegno ispirato ad un’unica fotografia in bianco e nero, ritraente un grammofono appoggiato sul davanzale di una finestra e rivolto ad una piazza piena di gente in ascolto. Klee raffigurò una tromba di grammofono dalla quale veniva fuori una freccia rossa che puntava un solo grande orecchio posto in alto, unico referente in scena, sparite la piazza e la folla.

Matteo Marelli

alt

«Un medium sa quando assopirsi.
Lasciamolo dormire.»

È questo potente, ineludibile senso “della fine” che pervade Francofonia di Alekandr Sokurov, che è soprattutto progetto, lavorazione: un film en train de se faire; “un film in corso di realizzazione”, di cui non si vedrà la versione definitiva, ma solo frammenti, apparizioni, lacerti sparsi. È più cinema che non film. Un’elegiaca opera di montaggio che celebra la scomparsa di un certo modo di vedere, pensare, e interpretare il cinema (e la modalità specifica in cui “quel” cinema aveva configurato il mondo), capace, allo stesso, di sorprenderne la forza rigenerativa che lo sta facendo rinascere, diverso eppure in continuità con sé stesso.

Luigi Abiusi

altApoteosi di donne incinte come alto feticcio filmico, sessuale; corpo femminile che si fonde senza inibizioni, in piena liberazione, all’estraneo (il padre è assente), a cui aggrapparsi nel caos o nella dimenticanza (di orizzonti). Una è quella di Banat di Adriano Valerio (nella Settimana della critica), Clara posta sotto la luce di una stamberga di Banat appunto, in Romania, mentre torce il ventre sopra Ivo (ma la scena più bella, tra le più gioiose viste finora, è quella in cui lei canta Se t’amo t’amo di Rossana Fratello: il resto è fragile, forse verboso, non so…); l’altra, Geise, nel film di Gabriel Mascaro (Orizzonti), che s’accoppia con Iremar su un tavolo di una fabbrica di vestiario, in una penombra che però svela la realtà tanto carnea, proprio atomica, dell’amplesso, quanto, ad esempio, è anodino e dimenticabile quello tra Nia e Silos in Equals (in concorso) di Drake Doremus.

Vincenzo Martino

altDue anime s'incontrano nella notte: Ivo è in partenza per la Romania, un posto da agronomo che lo attende; Clara si è appena trasferita, in una settimana ha perso lavoro, fidanzato e cagnolina della sua padrona di casa.



Michele Sardone

Il tempo è un nodo. Lega un’idea con un’immagine, un’immagine a un suono, un suono con un ricordo. Ma il tempo, annodandosi su se stesso, mette in contatto in modo inatteso spire a prima vista incongruenti, un’idea con un’immagine emersa per chissà quale associazione, un’immagine con un sonoro posticcio, un rumore con un ricordo che non ci appartiene. Capita quindi di trovarsi immersi in un flusso di visioni che si sottraggono a qualsiasi tentativo di decodificare, di connettere e di legare.

Valentina Dell'Aquila

Valentina Dell'Aquila

alt«Uno dei più grandi misteri è il motivo che induce migliaia di persone a passare i loro fine settimana estivi in ex campi di concentramento guardando forni in un crematorio» (Loznitsa). Sintomo di un imperialismo che è guerra spirituale, il turista, privo di una reale consistenza corporea, è un fantasma ossessionato da rovine, in cerca di cultura, di spettacoli di una cultura: non è davvero lì, si muove attraverso astrazioni, defunte iconografie, raccogliendo immagini anziché esperienze, e la vacanza non è che una nuova miseria sulla miseria altrui (cfr. Bay).

Mariangela Sansone

Mariangela Sansone

Sprazzi di luce lacerano l’oscurità delle tenebre, una notte eterna, in cui il tempo è sospeso in un perenne presente, ferita da freddi bagliori, luminescenze si aprono come sguardi scrutanti su una realtà cupa e fredda in un non-luogo. Dai neri vinilici e compatti affiorano corpi ed oscure figure che si muovo lente, folate di vento ostacolano il loro incedere, tutto ristretto in un piano sequenza, profondo e obliquo, che riporta allo sguardo un’immagine inclinata strutturata come lo squarcio di una lama.

Gianfranco Costantiello

Gianfranco Costantiello

Dopo aver perso casa, lavoro e fidanzata in un solo giorno, un giovane tenta di ricominciare una nuova vita, ma i suoi piani vengono dirottati quando incontra una donna che condivide la sua abitudine più strana: mangiare i capelli. (dal sito della Settimana della critica)




Nicola Curzio

Nicola Curzio

alt«Io sono una pietra. Lo ripeto: una pietra. So che non potete capirmi; dovrei spiegarvi queste quattro parole una per una e a gruppi di due e di tre e poi tutte insieme: cosa voglio dire quando dico io, e quando dico essere, e pietra, e cosa vuol dire essere pietra, e una, una pietra… Forse in questo mondo di pietra non c’è un prima né un poi: il tempo delle pietre è concentrato nel nostro interno dove si addensano le ere. Neanche lo spazio che ci circonda conosce il tempo, per cui possiamo restare sospese lasciando che la forza di gravità si eserciti tra le nostre masse che si fronteggiano immobili. Ma anche noi nella nostra superficie scavata e scheggiata e rotta ci portiamo addosso una storia, tracce di eventi irrevocabili che non si situano in un quando e in un dove.» (Italo Calvino, Essere pietra)

Sergio Grandolfo

Sergio Grandolfo

altDall’illuminarsi del proiettore cinematografico, che volge il suo fascio di luce cigolante verso il centro dell’immagine, Spira Mirabilis appare un’opera di immagini che dialogano e scorrono libere, quanto una prominente emersione di suoni: è il deflagrare del tuono, nella grandezza del cielo, nella notte bruna; lo staccarsi rovinoso di un’enorme lastra di marmo, il fragoroso e frusciante cadere di lunghi alberi: un concerto dirompente che si leviga cavalcando lungo l’acqua immobile, immergendosi verticale nell’ascolto del suo respiro, nella profonda sonorità del silenzio.

Matteo Marelli

Matteo Marelli

alt«Quando gli dei vogliono punirci, esaudiscono le nostre preghiere». Avrebbe potuto sposare un uomo comune; fare la dattilografa; avere una vita modesta. È lei stessa a dirlo. Invece Jackie ha scelto di stare affianco a John F. Kennedy, colui che si impose nell’imaginario come un nuovo Re Artù che volle seduti alla sua Tavola Rotonda luminosi cavalieri e raffinati intellettuali capaci di “respingere i barbari oltre le mura del castello”.

Valentina Dell'Aquila

Valentina Dell'Aquila

Scriveva Jay Ruby: sarebbe proprio la maniera marginale di praticare e interpretare un certo tipo di cinema per così dire storico-documentaristico a contribuire alla disfatta dello stesso; maniera, probabilmente poco interessata alla stessa istanza che lo muove, fors’anche carente di teorie, di  poetiche oltre il dato… Nello stesso volume si citava l’assunto di Heider & Hermer secondo cui all’immagine sarebbe necessario integrare il mezzo della scrittura affinché questa si possa definire efficace strumento d’apprendimento.

Gemma Adesso e Michele Sardone

Gemma Adesso e Michele Sardone

223 frustate, 20 milioni di riyal, 1 anno di carcere: questa la pena inflitta dalla giustizia iraniana a Keywan Karimi per aver offeso la sacralità islamica con il suo documentario Writing on the City (2015), cha racconta trent’anni della storia dell’Iran attraverso i graffiti sui muri di Teheran, dalla rivoluzione islamica del 1979 alla rielezione di Ahmadinejad del 2009.

Luigi Abiusi


Dopo giornate di afa cisposa, e di escursioni termiche al limite della sopportazione, tra sale-frigo e l'esterno in totale balia del sole e della cappa vaporosa proveniente dal mare, e lì sul tardo pomeriggio, l'epifania dei bambini che spruzzano in una scena di cristallo, sospesa, per una strana inclinazione del sole, pestando le pozze salmastre a riva, e, per una volta, neppure l'ombra dei vecchi veneti, di quelli tutti azzimati che senti sbraitare sugli autobus, con il loro bieco fascio-dialetto, contro i giovani dalla pelle un po' più scura della loro, invece livida o di cartapecora, per il solo fatto di essersi seduti là dove loro sarebbero “padroni a casa loro”, un sedile, una panca, un semplice palo a cui aggrapparsi, ma in realtà per l'impossibilità, dopo tanti anni, di poterlo buttare al caapranzi1 non alla mummia consorte, ronfante in baldacchino di raso, ma alla badante in bella carne che sparecchia; ieri dopo il meraviglioso Monte di Naderi, fuori s'è scatenato la ridda di vento e piovasco.

Vanna Carlucci

Vanna Carlucci

«Muere lentamente / quien se transforma en esclavo del hábito, / repitiendo todos los días los mismos trayectos, / quien no cambia de marca, / no arriesga vestir un color nuevo / y no le habla a quien no conoce…»: versi che sono solo parte di una poesia letta da Manu, una dei cinque sopravvissuti di Los Nadie di Juan Sebastian Mesa, presentato all’interno della Settimana della Critica; lei sfoglia le pagine, recita parola per parola come un gesto di salvezza che le viene in soccorso, lei come gli altri, aspirante giocoliere - della vita e della morte - in bilico per le strade colombiane, quelle dove la speranza è da ricercarsi fuori dai propri confini e i giorni passano nel tentativo di  riempire il tempo che scorre senza pause, senza trovare pertugi, senza il lampo meravigliato degli occhi che si dilatano, vuoti nel consumo di alcool e fumo mentre ancora, lentamente si muore.

Nicola Curzio

Nicola Curzio

altDi che colore sono gli occhi di Amy Adams? Chi è al Lido di Venezia dovrebbe avere la risposta in tasca visto che l’attrice statunitense è l’indiscussa, mirabile, protagonista di due pellicole americane in gara per il Leone d’Oro. Il suo sguardo s’incrocia innanzitutto in Arrival di Denis Villeneuve, dove interpreta la dottoressa Louise Banks, una linguista affermata a cui è affidato il difficile compito di comunicare con alcune entità aliene misteriosamente comparse sulla Terra, prima che scoppi un’altra guerra dei mondi.

Gemma Adesso

Gemma Adesso


altI giorni sono quelli che si contano tra la fuga e l’inseguimento; la Francia è lo spazio atipico e notturno di un abbandono. 
Un uomo, prima di scomparire, illumina con la luce fioca di un cellulare il suo amante mentre dorme; al risveglio, il cellulare sarà lo strumento di una ricerca disperata attraverso una app di incontri al buio, tra sentieri sconosciuti.

Matteo Marelli

Matteo Marelli

altFrançois s'en va-t-en guerre. Quella del 1914 – 18. Segue la strada tracciata da Lubitsch con L’uomo che ho ucciso, melodramma antimilitarista a sua volta ispirato all’omonimo lavoro teatrale di Maurice Rostand; Ozon coglie nel testo quelle insorgenze che gli permettono, pur nel rispetto della fonte, di far scorrere sottotraccia alcuni dei temi forti della sua poetica registica («In Frantz si ritrovano molte delle mie ossessioni. Ma il fatto di affrontarle in un’altra lingua, con attori differenti, in luoghi diversi dalla Francia, mi ha costretto a reinventarmi e spero che questo abbia dato nuova energia e una nuova dimensione a quei temi»).

Luigi Abiusi

Luigi Abiusi

altPersa l’apertura di Chazelle, è Cianfrance la prima visione di Venezia73, ma troppo melò e stucchi e crinoline di dama, troppa ridondanza melica delle musiche per essere almeno interessante; alcuni gorgogliano il giorno dopo, prima del capolavoro di Wenders, gonfiandosi il petto di colombo per via della frase-tipo “scritto male”: come se c’entrasse davvero qualcosa scrivere, il compitare, con cose come il cinema, di fronte al quale non si può fare altro che equivocare i significati.

Luigi Abiusi e Matteo Marelli

Luigi Abiusi e Matteo Marelli

alt«Tutto sta per scomparire. Bisogna sbrigarsi se si vuole ancora vedere qualcosa». Su queste parole di Cézanne Wenders chiudeva nel 1983 il corto Letter from New York. Che il pittore francese sia amato termine di riferimento del regista tedesco è cosa nota, lo dimostrano, oltre all’interludio provenzale realizzato per Al di là delle nuvole di Antonioni, le parole dello stesso Wenders che a riguardo dichiarò: «Prima di lui c’era la pittura del Salon: illusione degli spazi profondi, prospettiva rinascimentale... Ogni cosa doveva avere un “aspetto reale”. Cézanne rompe con questo».

Pietro Masciullo


altNella New York Public Library come At Berkeley, nella National Gallery come nelle strade di Jackson Heights, tornando indietro e indietro, sino alla Northeast High School di Philadelphia o ai corridoi del Bridgewater State Hospital di Titicut follies… il filo rosso che unisce ogni singola inquadratura di Frederick Wiseman è quel raccordo (im)possibile da cercare tra lo schermo e la vita. I protagonisti dei film di Wiseman siamo noi: individui immersi nella collettività che creano l’istituzione di diritti e di doveri.

Michele Sardone


altCapita che alcun i film ritornino alla mente, in quello strano limbo tra memoria e sogno (e del resto, anche il sogno non si vive realmente, si ricorda soltanto) in cui le immagini persistono a prescindere dalla nostra volontà. Ad esempio, girando fra i padiglioni dell’Arsenale ci si imbatte in Grotta Profunda, Approfundita di Pauline Curnier Jardin, videoinstallazione (“a body for a film” recita la didascalia di presentazione di questo work in progress che dura da sei anni) che già nel suo allestimento è, con presuntuosa e tenera ingenuità, una reminiscenza della caverna platonica.

Luigi Abiusi


altNon ho resistito più di un’ora in Darsena per My Love di Kechiche (in concorso): è da un po’ che non sopporto più la stoppa, il ristagno cinematografico dentro i dialoghi serrati; forse è un mio problema, un desiderio di campi lunghi, silenzi, apnee d’opale. Resta il filmare ossessivo (splendido) dei culi, un inno alle natiche che tracimano dai pantaloncini; una certa sensibilità nello scegliere e filmare la bellezza femminile; poi una bellissima sequenza di ballo su musiche dell’Orchestre Nationale De Barbes, sempre fissa sui culi stipati in vestiti estivi.

Mariangela Sansone


alt«Il loro malessere cresceva al calar della sera…si sentivano distratti, sviati proprio al margine del sogno. In verità partivano per altri lidi: rotti all’esercizio che consiste nel proiettarsi fuori da sé»
(Jean Cocteau, I ragazzi terribili)



Vanna Carlucci


Una dossologia del vento che si trasforma in acqua, prima odore, poi sparizione. Drift non è un racconto e se lo è esso è solo l’inizio di una leggenda raccontata dentro i bordì di un cafè e di due donne - Josephine e Thereza - che ad un certo punto si separano e tutto ciò che accadrà dopo sarà solo l’inizio di un viaggio, attraversando l’oceano, annullando confini, limiti, parole. Drift è sguardo che conduce, ipnosi o movimento allucinato del mare che annienta, dissolve, si lascia attraversare.

Michele Sardone


La cura maniacale del dettaglio di alcuni registi è pari a quella per l’ordine tipica delle casalinghe: esse vedono la loro casa come un set in cui ogni cosa ha il suo posto, ogni collocazione ha un senso, e questo senso deve essere intellegibile attraverso la sua armonia. Una volta allestita la casa-set, tutto è pronto per la messa in scena dello spettacolo quotidiano (un drammone sentimentale, un massacro familiare, una commedia nera, poco importa), ma ecco che si palesa l’incubo del regista casalingo, ovvero che nulla vada secondo i piani: tanto lavoro, infinite cure e attenzioni, e poi magari qualcosa inizia a non andare per il verso giusto (piccole cose, come bruciare la colazione o fulminare una lampadina), dopo avvengono le prime liti, i dissapori, la tensione cresce e gli errori aumentano, immancabile arriva anche un incidente grave e, come accade secondo il classico effetto palla di neve, tutto va a rotoli nel peggiore dei deliri possibili e deflagra in un clamoroso disastro: non si salverà nulla, se non la voglia di tentare ancora.

Mariangela Sansone


«Sapere di essere, per quanto debolmente e in modo fallace, al di fuori di me, un tempo mi aveva commosso. Si diventa selvaggi, per forza. A volte c’è da chiedersi se siamo sul pianeta giusto. Anche le parole ci abbandonano, figuriamoci».
(Samuel Beckett, Lo sfrattato).

Matteo Marelli


alt«Los versos del olvido parla della necessità etica di ricordare il passato e resistere alla violenza dell’oblio come forma di riscatto personale. Una riflessione sulla politica della memoria». È lo stesso regista, Alireza Khatami, a indicare la rotta di un film che procede come un percorso di stazioni lungo la linea delle celle mortuarie di un remoto obitorio disperso tra “il nulla e l'addio”.

Luigi Abiusi


First Reformed di Paul Schrader (in concorso) resta tutt’ora, anche dopo aver visto stamattina Three Billboards Outside Ebbing, Missouri di Martin Mcnonagh (che è un gran film), la cosa migliore di questo festival e comunque uno dei film più belli degli ultimi anni. Un lirismo essenziale, esatto, fatto di corpi dolenti, ruvidi, che si aggrappano l’uno all’altro, si mettono uno sopra l’altro stando attenti a non sfregarsi, per non farsi più male, sormontati all’improvviso da uno scroscio di capelli profumati, da cui inizia un viaggio tra nebulose e costellazioni, fino a degradare poi alla terra, fanghiglia, miasmi. Randagi della vita, il reverendo Toller e Mary, stagliati con gli occhi sgranati nel freddo, bianco ecclesiale, che subito diventa l’America al tempo di Trump, concussa, bellicosa, defecante scorie sulla crosta terrestre.

Michele Sardone


Difficile stabilire, senza essere accusati di dispotismo moralista, il limite fra quel che può e non può essere visto o rappresentato. Il limite ha però lo scopo di garantire una distanza tra colui che guarda e l’oggetto della visione. Paravel e Castaing-Taylor decidono, nel loro Caniba, di porre la telecamera vicinissimo al volto del cannibale protagonista, raggiungendo il limite (e a volte superandolo) della possibilità della visione, in una sorta di effetto “eyes wide closer”: più si avvicina lo sguardo al soggetto più questo, superato il limite di messa a fuoco, tenderà a sparire e a liquefarsi in macchia, alone, evanescenza sullo schermo.

Massimo Causo


altPiù una presenza olografica che una figura oleografica, un corpo che forza la sua bidimensionalità nella sagomatura sfuggente del suo essere assente a se stesso. Don Diego de Zama risuona nel film di Lucrecia Martel come uno spettro visivo che staziona fuori luogo nel Paraguay del XVIII Secolo, marionetta di un potere coloniale che lo ha dimenticato lì, disperso nell’attesa di un ritorno a Buenos Aires che non arriverà mai. Assenza perfettamente coerente col cinema della Martel, interamente costruito sulla distanza che separa il tempo vissuto e lo spazio abitato dai suoi personaggi in una divaricazione fluida, acquatica, dell’essere dall’esserci.

Matteo Marelli


alt«Siamo in tempi d’emergenza» ci diceva tempo fa Gualtiero De Santi, «dunque serve anche dotarsi degli strumenti necessari, […] in senso intellettuale e culturale, ma anche di indispensabile militanza civile». La più incalzante delle urgenze è quella dei nuovi flussi migratori che le recenti scritture della catastrofe raccontano come se si trattasse di una cellula tumorale sull'orlo di metastizzare il cosiddetto primo mondo. È necessario dare voce allo scompenso, ma altrettanto indispensabile farlo riuscendo a smontare le strategie retoriche messe in atto dal terrorismo massmediatico.

Michele Sardone


altUna delle interpretazioni del termine “diavolo” (letteralmente “il calunniatore”) ne sottolinea la valenza divisiva: il diavolo (da dia-ballo) è colui che separa, che distingue. Nel paradiso terrestre, dove tutto si dava per vero, pone la possibilità del falso e insinua la sua calunnia: quel che vedi non è vero, se mangi del frutto dell’albero i tuoi occhi si apriranno per davvero (e ti vedrai per quell’essere fragile e nudo che sei).

Michele Sardone


altPrima scena: Lee Kang-sheng è seduto sul divano e presumibilmente – non si vede bene – si masturba, in presenza di una donna anziana; finito, aziona degli elettrodi che gli stimolano la schiena. Probabilmente non siamo altro che questo, noi spettatori di The Deserted, film in realtà virtuale di Tsai Ming-liang: siamo onanisti stimolati elettronicamente; oppure, aggiungendo una dimensione a specchio, ci riflettiamo nello sguardo assente della donna, che sembra vedere senza essere vista, come se Lee presentisse la presenza di lei, senza esserne pienamente cosciente.

Michele Sardone


C’è qualcosa di più difficile da filmare di due persone che parlano in una stanza? Forse no, soprattutto se il dialogo diventa un campo di battaglia, una continua tensione alla ricerca della parola non detta e non scritta perché impronunciabile e inesprimibile: è la parola ultima, oltre la quale non c’è neanche l’immagine, se non dissolta in una chiusura in nero.



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