Fuori, l’arco delle giornate, dello stanco via vai, ruminare, ritornare, l’odore di pioggia, è per lo più sentimento di privazione, mancanza delle immagini, del loro spessore diafano, danzato, ridondante, che gronda spazio, passaggi di luce tra foglie e una sinfonica, solitaria erranza; fuori si passa il tempo cercando di dare senso all’assenza (di immagini), a un’attesa come infantile che misura da sola il sé, e il se. L’erranza apre To The Wonder, capolavoro di Terence Malick, e già dall’inizio non se ne vorrebbe più uscire; lirico incedere d’esseri (tre api perse su un soffitto) nel freddo atmosferico, sempre minacciato dalla dispersione, disaffezione, da una sedimentazione di lontananze.
Questo è Malick ora; sentimento dello spazio come dimensione del distacco, ed estremo tentativo di dare forma perfetta a questo sentimento, che allora si cristallizza in scorci in cui il creato trascende a tale luccicante bellezza (e per certi versi stucchevole, nel senso degli stucchi legati alle icone neoplatoniche), da intendere la possibilità del suo annientamento, che è, alla fine (o all’inizio), annullamento del creare.
Forse ancora più che in The tree of life, la voce che risuona è quella (volutamente stentorea) della lirica, altisonante nel suo individuare l’uno in relazione all’altro, che poi è Altro; ultimo egocentrico Amore, che contempla il due (gli amanti, la bambina, il prete) nella misura di una resa lancinante alla coscienza del Dio unicentrico, spirito che abita ogni scena e che la riconduce a sé nel processo di liquidazione del molteplice. Una lirica (le scene sono versi conchiusi, rigorosi, che quasi diventano versetti, sermone) la quale cerca di dire e mostrare le forme, il bello strenuo, assoluto, per dis-incarnare la Grazia (in sequenze che raggiungono manieristicamente una strana, chiaroscurale astrattezza), la costante assenza che si sente nell’itinerario nel mondo, nel suo essere presente a sè, e soprattutto nella scrittura (nelle immagini) del mondo (la terra rilevata dal geologo Neil, campi, cieli splendenti di ombre), che per Malick adesso, più di prima, è Scrittura (il che lascia pensare che il mondo cattolico se ne approprierà per magnificare la sua Chiesa formigoniana, che invece, sappiamo, è quanto di più lontano da questa incorrotta, severa visione malickiana). C’è un’enorme inquietudine in questo sguardo (sottolineato dalle armonie della colonna sonora), che sottende a un Amore imponente, tendente all’invisibile, quindi alla sua dissipazione, per movenze rarefatte, oscillazioni di corpi, di luci, ancora sotto il peso del Cielo e in un costante, cieco, Mormorio di fondo che pare essere “la cosa ultima”.
E dopo c’è il “dopo maggio”, Après mai di Olivier Assayas, narrazione emozionante del periodo immediatamente successivo al ‘68, quindi di un ritorno all’ordine (le famiglie borghesi, benestanti, i lavori normali, “commerciali”) che equivale alla dis-illusione dei ragazzi (a tratti opportunistica, altre volte rassegnata), pure colma di luce e di musica, in una visione che non può prescindere dal suo portato politico e che ci porta, considerando l’assottigliarsi o il depravarsi ideologico, dritto al nostro tempo, alla difficoltà di credere nelle narrazioni, fuori dal compromesso finanziario. Ma l’età dell’innocenza di Assayas non può che gioiosamente crepitare, nel senso dell’amore per l’arte (la pittura e il cinema innanzitutto), al di là della quale sembra non esserci vita e che si fa dunque sequenza (tattile, delicata adesione di luce alle superfici) sul potenziale (fotosintetico) della sequenza. E ciò sin dal principio, sulla superficie di un viottolo di campagna dove si incontrano Gilles (Clément Métayer) e Léa (Léa Rougeron), prima di perdersi nell’incanto dell’alcova e di lì, con tutti gli altri, per le vie del mondo (riprendendone la danza arcaica, estasiante e perequativa, salvo poi normalizzarla entro il Mercato); luoghi come mitizzati e figure femminili cristallizzate e terse (tra cui Christine interpretata da Lola Créton, già splendida protagonista di Un amore di gioventù), fino all’ultimo sogno, in una sala di proiezioni sperimentali, che trascende (ancora) verso il quadro bianco.
Cielo bianco, vento: si sperimenta il germinare dello spazio qui, come definizione della solitudine dell'uno, che pare l'unico amore possibile. Ed è incredibile ritrovare l'atrio della propria scuola elementare, col neon che fiorisce autunnale, sulla strada del ritorno, nel lido pomeridiano.