Saggi di cultura cinematografica, protesi verso il proprio altro, filosofia, semiologia, letteratura, politica, ecc., per (cercare di) inquadrare lo stato delle cose.
Luigi Abiusi
Senza retorica: ma è cominciato il primo festival di Cannes della storia senza la presenza, sia pure latente, di Manoel De Oliveira. Non dirò nulla di economia cinematografica (e letteraria, filosofica) di questa scomparsa, appunto evitando il risaputo, e perché altri ne parlano in questo numero di Uzak, come sempre fitto di cose: su alcuni dei registi che più ci piacciono (Martin, Larrain, Frammartino, Soderbergh), su altri sempre controversi (Seidl, Haneke), tutto uno speciale dedicato a un film importante, tra i più importanti dell'anno, Vizio di forma di Paul Thomas Anderson; e appunto una sezione rivolta a De Oliveira, che non può che straripare, anche rispetto al "genere", vista la forma ibrida, tra saggio e poema, usata da Bruno Roberti, già autore di un libro splendido Manoel De Oliveira. Il visibile dell'invisibile uscito appena un anno fa; e gli altri due articoli a firma di Cappabianca e Bruni, che riescono a delineare un profilo d'altronde irriducibile. Poi le interviste agli autori ospitati nella quarta edizione di "Registi fuori dagli sche(r)mi", tra maestri e talenti emergenti, poliedrici, come la Klotz, della quale attendiamo il nuovo film prodotto da Jacque Audiard.
Bruno Roberti
Uno
La Valle delle origini o le ali che sbucano dal terreno: acque superiori e inferiori, un cinema elementale. «Ema torna all’acqua perché viene dall’acqua. La sua morte è come una rinascita. Ecco perché è così gioiosa. Con l’acqua, la vita può continuare. Mi piace il suo rapporto istintivo con la natura, il biologico, l’animalità. Lei trascende costantemente la realtà, invece gli uomini non hanno ali.» (de Oliveira a proposito di Vale Abraão)
Alessandro Cappabianca
Più che viaggiatore di terra (magari in treno: Singolarità di una ragazza bionda; o in auto: Viaggio all’inizio del mondo), de Oliveira, come pellegrino della memoria, sembra essere stato specialmente un regista-navigante, in armonia con il suo imprinting portoghese (enigma di Cristoforo Colombo: era davvero nato a Genova?) – quando non riteneva, ovviamente, come nel Quinto impero, di limitarsi per tutto un film ai pochi metri quadrati d’un palcoscenico, sul quale cogliere i movimenti più impercettibili degli attori e della mdp, a partire da una condizione di frontalità d’ascendenza teatrale. Allora re Sebastiao ci viene mostrato nel suo castello, prima della folle impresa africana, preda di dubbi e incertezze, avversato dalla maggior parte della Corte, beffeggiato dai giullari – e tutto questo dopo che l’impresa (la disfatta) africana era già stata mostrata in NON.
Andrea Bruni
«Ci sono moltissimi uomini che sono più infelici di te: questo non ti dà un tetto sotto al quale abitare, d’accordo, ma la frase è sufficiente perché ci si possa trovare riparo durante un temporale»
(Georg Christoph Lichtenberg)
«Ad una domanda circa le sue impressioni sul cinema, Kafka rispose: “È rapido. Pa! Pa! Pa! Pa! Pa!”. Per lui non c’era tempo per pensare a quel che accadeva. Per quello sono arrivato a fare un altro tipo di cinema, un po’ più ragionato, interiore, profondo...»
(Manoel de Oliveira)
Daniele Dottorini
Il lavoro del film. La frase sembra semplice ma è in realtà ricca di sfumature che offrono straordinari spunti ad ogni operazione critica, soprattutto laddove ci si voglia liberare da una applicazione stantia e meccanica della politica degli autori. Il lavoro del film si mostra entrando nelle pieghe di un’operazione creativa che a volte si colloca a lato di un film, o che non è necessariamente legata al farsi del film stesso. È questo il senso di un’officina particolare che è o può essere un laboratorio filmico. Pensare al cinema come un’officina, un lavoro del film che è anzitutto materiale, il lavoro delle immagini.
Pietro Masciullo
Il passato – le immagini trasmesse dalle generazioni che ci hanno preceduto –
che sembrava in sé conchiuso e inaccessibile,
si rimette, per noi, in movimento, ridiventa possibile.
(Giorgio Agamben)
Stefano Casi
Ci sono molte parole nel teatro di Elfriede Jelinek. Un’ipertrofia verbale che diventa ipertrofia visionaria e rispecchia l’atrofia della moderna società borghese. Un convegno a Bologna si è addentrato, per la prima volta in Italia, nel labirinto testuale della scrittrice austriaca, con studiosi, traduttori e artisti. È stato un vero happening, che ha scandito con la riflessione e il confronto il “Festival Focus Jelinek”, ideato e diretto da Elena Di Gioia, in corso in tutta l’Emilia Romagna fino al prossimo marzo.