«[...] La filosofia, com'è stata prodotta e nutrita dalla poesia nell'infanzia del sapere, e con essa tutte quelle scienze che per mezzo suo vengono recate alla perfezione, una volta giunte alla loro pienezza come altrettanti fiumi ritorneranno a quell'universale oceano della poesia» (F. Schelling, Sistema dell'idealismo trascendentale)
Il cinema, assunto come uno dei prodotti più aberranti dell’industria culturale, era (assieme al jazz e alla musica d’intrattenimento) la bestia nera di Adorno, che si rifiutava di compiere qualunque distinzione di valore al suo interno, con un’assolutezza anche maggiore di quella di Antonin Artaud, la cui ripulsa nei confronti del cinema si era determinata in seguito all’avvento del sonoro (oltre che per personali frustrazioni).
È tanto più sorprendente, perciò, trovare in un paragrafo dell’adorniano Il carattere di feticcio della musica e la regressione nell’ascolto (che risale al 1938), un riferimento cinematografico ai fratelli Marx, che fa il paio con quelle note di Artaud (del 1932, poi raccolte in Il teatro e il suo doppio) nelle quali si parla di Animal Crackers (1930) e di Monkey Business (1931).
«Più i rapporti delle due realtà saranno lontani e giusti
più l’immagine sarà forte»
(André Breton)
«Non credo alle cose ma alle relazioni tra le cose»
(Georges Braque)
«Mai ho conosciuto un amore che non fosse un bacio
In mezzo alla battaglia
Una difficile tregua…
Un breve indulgere tra opposti stati
In conflitto»
(William Butler Yeats)
Intervista di Giampiero Raganelli a Edgar Reitz già comparsa su Internazionale.
Dopo la monumentale saga di Heimat, in tre parti più Heimat-Fragmente: Die Frauen, il regista Edgar Reitz torna nell'immaginaria cittadina di Schabbach per ambientarvi un film, Die Andere Heimat – Chronik einer Sehnsucht, che si svolge antecedentemente al primo Heimat, nell'Ottocento. Protagonisti due fratelli che anelano ad andarsene dal villaggio.
Abbiamo incontrato il regista durante la 70° Mostra internazionale d'Arte cinematografica, in cui il film è stato presentato.
Wunderkammer è una casa con delle stanze che sono scatole che sono mensole che sono vetrine che mettono in mostra pezzi, parti, corpi e oggetti, madre e figlio. Wunderkammer significa stanza delle meraviglie, e riproduce uno scenario antico risalente al Seicento quando c’erano piccoli musei grezzi ricchi di oggetti da collezione.
La profondità, la stratificazione di Medeas, tutta una densità, una volumetria delle immagini che tendono a non sciogliere il “problema”, o almeno le colpe, ma a cobilanciarle nella carne della contraddizione, delle inclinazioni e dei comportamenti, sono lo strumento di una riconduzione delle normali dinamiche dell’attualità, del quotidiano – quelle che magari vengono assorbite dalle regole della convivenza, della civiltà – al mito, all’oscuro rigoglio della terra, della natura annunciata già nel buio dei titoli di testa da un lento ed enigmatico scorrere d’acqua, che misura l’aporia del vivere, l’endemica impossibilità di sopravvivere quando intervengono gli elementi, gli agenti grumosi, incontrollabili della tragedia.
Essere dentro una stagione che attende la prossima. Così le immagini si susseguono, il prima e il dopo, il presente con il passato tra le ombre di un interno, le ombre come un grumo di silenzio e d’attesa, come l’arrivo dell’onda e la schiuma, il lampo e la bava del ricordo. Santini strappa pezzi di casa, di strada, di schermi e campi per ricomporre un quadro che non finisce mai, perché gli stessi frammenti torneranno ancora con altra gradazione d’intensità come un tempo sempre al presente: e allora si guarderà la strada da percorrere e quella che ci si è lasciati alle spalle, e ogni frammento avrà l’aria di essere sempre sospirato: così Attesa di un’estate (frammenti di vita trascorsa) (2013) diventa il temporale che apre il varco e che cerca una nuova forma, come la macchia di pioggia sul vetro, come le luci dilatate della festa, un passo alla volta verso la nuova stagione, un passo attutito dalla neve che lascia una lesione, un poro dilatato, il tempo.
«Questo cinema non sta dalla parte dello spettatore.
Lo invita al lavoro più che al piacere, o, per essere più precisi, al piacere del lavoro»
(Alberto Seixas Santos)
Qualche anno fa, Antonio Tabucchi, nel «tentativo dissennato di spiegare a un amico una parola indefinibile», scrisse una lettera destinata a Remo Cesarani: «Ebbene, caro Remo, proverò a cacciare con un retino questa parola beffarda e svolazzante come le farfalle che Nabokov notoriamente acchiappava a Luino, e di spillarla al lemma che le compete» (Tabucchi 2013, p. 56).
Perché questo è per Eyal Sivan il cinema: politica. O meglio: il mostrare in maniera chiara ed esplicita il proprio punto di vista. Politico. La sua carriera cinematografica prende avvio infatti dalla stesura di una teoria del documentario, di cui il suo primo film, Aquabat Jaber. Passing Through (1987, Grand Prix “Cinéma du Réel” dello stesso anno) nasce come pura esemplificazione. Un film-saggio. “Un progetto estetico-politico”. Così Sivan definisce i suoi film. Non considerandosi colui che svolge una professione, in questo caso quella del regista, ma piuttosto colui che porta avanti una ricerca, estetica e politica, appunto. Di cui il film è solo il contenitore. Un mezzo d’intervento politico atto a stimolare un dibattito.
Kotoko di Tsukamoto Shin’Ya si caratterizza certamente per la particolare attenzione che il regista ha dedicato alle questioni relative alla forma, che qui viene investita di una portata significazionale di livello primario, talvolta addirittura superiore a quella riconosciuta ai codici attoriali e verbali.
Soprattutto durante i climax emozionali, le scelte stilistiche di Tsukamoto escludono l’opzione mimetica in favore di una poetica della manipolazione espressiva del reale il cui esito di maggior rilievo è certamente quello di creare una forma particolare di soggettiva, che chiameremo soggettiva mentale-percettiva, nella quale lo spettatore, attraverso una serie di alterazioni dei dati audio-visuali, viene indotto a sperimentare condizioni psicologiche affini a quelle esperite dai personaggi.