Aqabat-Jaber  Eyal Sivan

Perché questo è per Eyal Sivan il cinema: politica. O meglio: il mostrare in maniera chiara ed esplicita il proprio punto di vista. Politico. La sua carriera cinematografica prende avvio infatti dalla stesura di una teoria del documentario, di cui il suo primo film, Aquabat Jaber. Passing Through (1987, Grand Prix “Cinéma du Réel” dello stesso anno) nasce come pura esemplificazione. Un film-saggio. “Un progetto estetico-politico”. Così Sivan definisce i suoi film. Non considerandosi colui che svolge una professione, in questo caso quella del regista, ma piuttosto colui che porta avanti una ricerca, estetica e politica, appunto. Di cui il film è solo il contenitore. Un mezzo d’intervento politico atto a stimolare un dibattito.


Eyal Sivan nasce ad Haifa, Israele, nel 1964. Pessimo il rapporto con la scuola e le istituzioni in genere, sin da bambino appassionato di fotografia, diventa fotografo di moda per sbarcare il lunario. Si trasferisce in Europa molto presto, più precisamente a Parigi, dove tutto inizia. E non c’è altra possibilità che il documentario perché tutto il cinema nasce dal documentario, in cui non è identificabile un genere (genre) cinematografico ma l’essenza del cinema stesso. Il primo film della storia è un documentario (La sortie de l’usine Lumiére à Lyon): una realtà pre-esistente viene catturata dalla cinepresa. A questa pura volontà (necessità?) di (ri)narrazione si andrà ad aggiungere la possibilità di sfruttare il mezzo cinematografico come intrattenimento, sospensione momentanea dal reale, da cui però il cordone ombelicale non è rescindibile. “Il documentario è un’attitudine, non un genere”, secondo Sivan. Ed è il punto di vista, la presa di posizione a decretare tutto. L’inquadratura, infatti, è la prima scelta e la componente fondamentale. La base del paradosso cinematografico: per mostrare è necessario nascondere. E’ necessario prendere una decisione, fare una scelta. La relazione tra il mostrare e il nascondere è imprescindibile dal mezzo filmico. Se per quanto riguarda il cinema di fiction l’inquadratura pre-esiste la realtà, che viene al suo interno ricostruita ad hoc, per il documentario invece quello che si attua con la scelta del regista è un vero e proprio atto di censura. Necessario. Ed è tramite l’inquadratura e il montaggio, secondo momento di censura necessario (non c’è via di scampo per creare il compromesso tra il tempo reale e il tempo cinematografico) che il cinema realizza l’utopia totalitarista per eccellenza, ossia la possibilità di manipolazione assoluta della Storia. E’ una scelta. Una soggettività. Non riguarda quello che c’è, ma come quello che c’è viene raccontato. E se il giornalismo tenta di oggettivizzare i fatti per cancellare ogni forma di soggettività, questo è proprio quello che il documentario non può permettersi di fare. Perché quello che il documentario chiede è di guardare ai fatti narrati attraverso un preciso punto di vista. Il punto di vista del regista. Di cui una presa di posizione chiara risulta quindi assolutamente fondamentale. E altrettanto fondamentale per Sivan è ricordare allo spettatore che, appunto, quello che si accinge ad osservare, è cinema, non è La Realtà. E’ il frutto di una serie di scelte prese per raccontarla. Quasi tutti i suoi film iniziano infatti con il disvelamento del mezzo e del contesto cinematografico. La presenza della macchina da presa viene da subito rivelata. E quasi tutti i suoi film hanno come tematica principale il conflitto Israelo-Palestinese.

La decisione di lasciare Israele per l’Europa gli ha permesso di guardare alla sua terra d’origine da una diversa prospettiva e con una distanza maggiore, non essendo sottoposto alle pressioni del vivere quotidianamente il conflitto. Pur essendo in Europa dal 1984 non ha mai richiesto un passaporto Europeo, per il semplice fatto che vuole continuare ad essere considerato un regista israeliano. Che esprime un punto di vista israeliano. Che Israele non approva, e che anzi ad Israele crea disturbo. Perchè, dice Sivan, “la cosa più complicata è essere presenti, non l’essere ignorati. E io non vengo accettato in Israele –per inciso, esiste una “Legge Sivan” ancora in via discussione in Parlamento- ma non posso essere ignorato. Israele gioca sempre la parte della democrazia e per questo non possono negarmi i permessi. Formalmente e dal punto di vista estetico non sono l’ordinario regista militante. Ma io sono militante e il mio credo politico è sempre molto chiaro”.

Per Sivan il conflitto Israelo-Palestinese diviene pretesto di una discussione molto più ampia che ha a che vedere, da un lato, con la questione di un (possibile?) incontro tra (Medio)Oriente e Occidente: cosa la presenza dell’Occidente in medio Oriente abbia significa e significhi, quali siano le ripercussioni del genocidio ebraico, il comportamento Europeo nei confronti di questo, il nazionalismo, il colonialismo. Dall’altro, con la rappresentazione della banalità del male (concetto di chiara ispirazione Harendtiana), il ruolo dell’oppressore e dell’oppresso nel costruire la narrazione della Storia e dell’affidabilità delle immagini.

La tradizione storiografica occidentale si basa sulla tradizione dell’oppresso (come la definiva W. Benjamin). I racconti sul genocidio ebraico, ad esempio, si basano sulle testimonianze dei sopravvissuti. Di coloro che lo hanno subito. Mentre secondo Sivan è di fondamentale importanza portare alla luce il punto di vista di chi il genocidio ebraico lo ha messo in atto. Di chi ha semplicemente eseguito gli ordini seguendo il mainstream. Perché le catastrofi sociali partono sempre dalla massa, non dalle frange più esterne della società. Perché il male nella società cresce non a causa di persone cattive, ma di un adagiarsi a canoni sociali che pur essendo distorti sono i maggioritari. E mostrare persone che sembrano normali ma hanno commesso atti terribili (come ad esempio A. Eichman nel film Lo specialista. Ritratto di un criminale moderno, 1999) permette di suscitare nello spettatore delle domande a cui dare una risposta non è possibile. E quindi mettono in guardia. Sollevano un dubbio. Azionano un meccanismo. Rendono lo spettatore critico. Più attento. Anche a ciò che vede. In diversi film Sivan utilizza infatti immagini d’archivio, spesso di archivi istituzionali, attuandone però una lettura opposta rispetto alla funzione con cui originariamente erano stati creati. Usando questi archivi contro se stessi, e in questo modo mettendo in crisi lo status dell’immagine del potere. Perché chi scrive la storia è chi comanda, ma chi la Storia poi la legge e la rilegge ha il dovere di andare oltre, di rovesciare le carte. I love you all. Aus Liebe zum Folk, 2004, utilizza in larga parte immagini appartenenti all’archivio ufficiale della Stasi per narrarne la follia (presunta) onnisciente e onnipresente, così come in Jaffa. The orange’s clockwork 2009 sono le immagini promozionali che hanno costruito il mito di questa arancia a svelare gli arcani nascosti al di là del mito, appunto. Nel già citato Lo specialista è attraverso il recupero delle parti di girato del processo ad Adolf Eichman considerate senza valore (perché prive di testimonianze delle vittime del genocidio ebraico) che Sivan può ricostruire un ritratto di Eichman al contempo assolutamente banale e assolutamente inquietante.

Per l’essere umano la memoria è una combinazione di ricordo e cancellazione, unprocesso strettamente individuale. L’unico modo per arginare la perdita massiva di memoria è la costruzione di una memoria collettiva (e quindi nazionale, pensando ad individui come stati) raccogliendo la più grande quantità di memoria individuale possibile. Creando un dialogo tra storie e contro-storie. Tra punti di vista opposti e inconciliabili. E questo accade nell’ultimo lavoro di Sivan, Common State. A potential conversation [1], in cui tramite uno split screen il regista costruisce un’utopica conversazione tra arabi palestinesi e ebrei israeliani. Un confronto tra intellettuali, nell’accezione più ampia del termine (sono giornalisti, studenti, militanti, artisti, professori, … ) che -ciascuno nella propria lingua madre- rispondono alle stesse domande, che vertono sulla possibilità della creazione di uno stato binazionale israelo-palestinese. Il montaggio fa si che le risposte si susseguano in quella che sembra una reale e dinamica discussione tra i personaggi che appaiono sullo schermo, anche se questo incontro non è mai avvenuto nella realtà. A prescindere dalle opinioni dei singoli, la differenza linguistica tra i conversanti sottolinea come pur trovandosi nello stesso spazio (fittizio –lo schermo) con lo stesso peso nel dialogo (lo schermo è diviso in due parti uguali), il punto d’incontro non sia realmente possibile. Il numero 1 tra parentesi quadre parte del sottotitolo al film, “Conversazione Potenziale”, lascia intendere che ne seguiranno altre. Questo film infatti è uno dei possibili risvolti di un altro lavoro, non prettamente cinematografico, di Sivan, che da diversi anni lavora alla creazione di un archivio online che raccolga le testimonianze filmate di ex combattenti israeliani che presero parte nel 1948 alla Al Nakba (ossia “catastrofe”, come viene definito dai Palestinesi lo sfollamento forzato di più di 700.000 arabi-palestinesi ad opera dell'esercito israeliano). Il progetto, Common Archive Palestine 1948, prevede la raccolta di 100 testimonianze orali di ex combattenti israeliani, poi sottotitolate in inglese, e raccolte appunto in un archivio online dove verranno messe in relazione a testimonianze di rifugiati palestinesi relative agli stessi eventi. Secondo Sivan l’unica possibile obiettività di ricostruzione della storia sta nel raccogliere una storia corale, creando narrazioni intrecciate, globali, che tengano conto tanto dei racconti delle vittime quanto di quelle dei carnefici. Stando alla distinzione proposta da Primo Levi tra testimoni e sopravvissuti, infatti, i primi testimoni di ogni crimine di guerra sono sempre i carnefici stessi ed è solo interfacciandosi con essi che è possibile indagare in modo diretto le motivazioni, le scusanti, gli alibi che hanno spinto e coperto (o tentato di coprire) le azioni compiute. Campo e controcampo, direbbe Godard. Campo. Controcampo. Ossia usare elementi del cinema come griglia d’analisi per la realtà. Una mise-en-scène con la realtà. Non della realtà. Perché ogni “presa d’immagine” è manipolazione della realtà, e se non si è in grado di accettare il concetto di “manipolazione”, allora non si possono produrre immagini. L’obiettività assoluta non è possibile, non esiste. Alla fine il documentario non è altro che mostrare un particolare punto di vista su una determinata storia, concatenazione di eventi. E scegliere il proprio punto di vista e andarci a fondo è prendere una posizione politica. Non ha nulla a che vedere con l’estetica. E questo è il fare cinema di Eyal Sivan.


Filmografia delle opere citate di Eyal Sivan

Aquabat Jaber. Passing Through (1987)

Lo specialista. Ritratto di un criminale moderno (1999)

I love you all. Aus Liebe zum Folk (2004)

Jaffa. The orange’s clockwork (2009)

Common State. A potential conversation [1] (2012)


La conversazione con Eyal Sivan ha avuto luogo durante le giornate INPUT/OUTPUT DOC organizzate a Bari dal 16 al 27 settembre 2013, in Mediateca Regionale Pugliese.