Speciale Cannes 2014

Pietro Masciullo

Pietro Masciullo

altStrano oggetto filmico questo Sils Maria. Sfumato, sfuggente, informe, proprio come quelle nuvole impassibili in cui più volte scioglie il suo punto di vista. Olivier Assayas, cineasta tra i più consapevoli, ha bisogno periodicamente di tornare a riflettere su se stesso e sul cinema (Demonlover), sulle persone che lo animano (Irma Vep) o sulla scintilla nascosta che lo origina e può ancora giustificarlo (questo Sils Maria). L’attrice/star interpretata da Juliette Binoche è colta subito in viaggio, su un treno, nel più classico topos di movimento che il cinema ricordi. Ed è su quel treno che viene a sapere della morte del suo talent scout, un anziano regista svizzero che stava andando a trovare e che l’aveva fatta esordire diciottenne e inesperta. La morte del “regista” provoca un terremoto emotivo nella sua “musa”: un trauma, la messa in dubbio improvvisa del suo statuto d’attrice, artista, persona. Tutto molto “classico”, è vero.

Giona A. Nazzaro


xavier dolan mommy affiche 0Xavier Dolan o del piacere. Lo senti che a stare sul set lui gode. Un piacere così radicale non si trova facilmente. Dolan adora intossicarsi nelle materie vive del suo cinema. Lui, davvero, crea un altro mondo. Un universo pieno di correlati oggettivi. Robe da toccare, annusare, accarezzare nel corso della realizzazione del film. Perché si capisce che il suo piacere deriva dal fare, dal processo della realizzazione del film. Set: casa dell’altra vita. Ci piace immaginare Dolan come un visionario sarto che mette insieme la sua tela del mondo selezionando le stoffe più pregiate, permettendo di indossarle solo alle persone che ama o che soddisfino il suo sguardo. Il suo piacere degli occhi. Dice: Dolan ha solo il cinema alle sue spalle. Nient’altro.

Lorenzo Esposito


altEloise Godet, una delle due donne misteriose di Adieu au langage 3D di Jean-Luc Godard, ha una cicatrice che parte dalla narice destra e arriva fino al labbro. Mia Wasikowska, la protagonista novella Carrie di Maps to the Stars di David Cronenberg, ha sul collo e sulle braccia segni di bruciature risalenti a un incendio da lei stessa appiccato. I due uomini (o uno solo?) di Godard defeca(no) davanti a tutte e due le donne. Julianne Moore in Cronenberg defeca davanti a Mia Wasikowska. Poi ci sono due vampiri innamoratissimi ma per una volta spaiati: Kirtsen Stewart stupefacente in Sils Maria di Olivier Assayas e Robert Pattinson nuovamente (dopo Cosmopolis) con Cronenberg…

Giona A. Nazzaro


altFilmare il lavoro. Un’utopia, l’unica cosa che conta davvero per Daney. A modo suo, Assayas prova a fare un film “comunista”, non alla maniera di Straub, né tanto meno di Godard. No. Lui s’installa al centro del cinema. Prende due corpi d’attrici, e come in uno specchio bergmaniano, mette in scena un serrato dialogo ibseniano, e scava una vertigine invisibile, che si potrebbe persino confondere per un cinema di retroguardia.

Grazia Paganelli


altTorna a casa molte volte Lu Yanshi, professore e intellettuale evidentemente scomodo al potere, la cui vita felice è stata completamente travolta dall’avvento della rivoluzione culturale. Torna a casa dopo essere evaso. O almeno ci prova, ma la figlia Dandan, che aspira a diventare prima ballerina non può permettersi scandali e denuncia il padre e ostacola l’accoglienza della madre. Ritorna dieci anni dopo, quando, finalmente liberato, cerca il volto della moglie alla stazione. Non ci sarà, perché Feng Wanyu si è da tempo rifugiata in un mondo tutto suo e aspetta un uomo che non sa riconoscere.

Giona A. Nazzaro


altE quando ti fai il conto dei film che ti porti dentro, ti ritrovi sempre con i soliti nomi. Nomi che ovviamente consideri anche amici tuoi, ormai. Amici che ovviamente ti tocca difendere, cosa che capita sempre, ma non è mai stata così frequente come in questi anni, quando il parlare cinema sembra essere diventato una lingua perduta o morta.

Grazia Paganelli


altInizia e finisce con due proposte di matrimonio e due impiccagioni il secondo lungometraggio da regista di Tommy Lee Jones The Homesman ed è ambientato nel Nebraska inospitale del 1854. Lo attraversano un uomo e una donna, mal assortiti compagni di un viaggio nato per portare in salvo, nell’Est della civiltà, tre donne. Sono impazzite improvvisamente, disorientate dalla durezza di un territorio selvaggio e rigido. In realtà Mary Bee Cuddy parte sola, ma incontra George Briggs con un cappio al collo e lo salva. Vagabondo solitario con bisogno di soldi, aveva occupato una casa di altri e per questo era stato punito.

Pietro Masciullo


alt“Il western è il cinema americano per eccellenza” diceva anni fa qualcuno che ci sta tanto a cuore… un genere che continua miracolosamente a mutare pelle conservando gli stessi codici, continua ad adeguarsi alle epoche preservando i propri canoni estetici, continua il suo infinito e commovente racconto del Mito riflesso nel Cinema.

Grazia Paganelli


altFanno pensare alla rivoluzione islamica in Iran le immagini di Eau argentée, Syrie auto-portrait di Ossama Mohammed e Wiam Simav Bedirxan, alle descrizioni in ricostruzione della violenza che si è consumata sulle strade delle città e nel cuore profondo dei suoi abitanti. Così le abbiamo immaginate, così le abbiamo viste nei film, così le abbiamo lette nei romanzi. Gli spari, la paura, la gente, il sangue. E il buio. Solo che questa volta verrebbe da dire “è tutto vero”.

Lorenzo Esposito


altL'infinita battaglia fra luce e oscurità e il dramma della parola che, mentre si affianca, resta muta. Il lavoro, proprio il restauro dell’immagine, che scopre quadri nel doppio fondo dei quadri, cornici fuori cornice. E i quadri vivono nonostante tutto (Straub neanche vorrebbe che li si vedesse), ci fissano anche guardando altrove, primi piani e punti di fuga che cercano umanità nelle lunghe file di turisti. Chi guarda chi? E cosa si trattiene dell’immagine? Cosa ci trattiene dal non rubarli! Ma poi loro si ammalano e altri di noi puliscono anno dopo anno alla ricerca della luce perduta. Tutto questo è il nuovo capolavoro di Frederick Wiseman National Gallery.

Grazia Paganelli


altLe atmosfere sono quelle di sempre, sospese, indefinibili, avvolte in una sorta di nebbia invisibile che, però, sembra trattenere il tempo. In Captives, il regista canadese Atom Egoyan riprende vecchie ossessioni e vecchi sguardi, ma li trasfigura in nuove dinamiche narrative, recupera il racconto come trama sfilacciata, e lo rende visibile nella frammentazione, o meglio, nella polverizzazione dei punti di vista e nei punti di osservazione. In questa storia di rapimenti, pedofilia, indagini, dolori e sensi di colpa, si segue un percorso tortuoso e virtuoso per arrivare al punto di partenza.

Pietro Masciullo


altUn’immagine porta sempre inscritta la traccia di un’emozione. Nascosta nei chiaroscuri, rivelata da un’imperfezione, celata da una falsa prospettiva che può rendere invisibile addirittura un elefante. Come in un paesaggio di J.M.W. Turner. È sempre oltre la fallace pretesa di “oggettività” che si nasconde il regno informe della vita, la tempesta emotiva, la voragine dei non detti: un’immagine, un quadro, cos’è in fondo se non uno specchio deformato di chi la produce/guarda? Ecco, il film che il vecchio Mike Leigh dedica agli ultimi anni del vecchio William Turner (il più celebrato pittore paesaggista inglese dell’Ottocento) è proprio il paziente e intimo svelamento di questa verità: la creazione di un’immagine oggettiva, la perfetta veduta, fa una terribile fatica a celare il mare in tempesta che si agita nelle sue pieghe. E allora la stessa immagine non può che tradire la sua ontologica natura impressionista e soggettiva, romantica e ambigua.

Giuseppe Gariazzo


Una gazzella attraversa l’inquadratura, corre, è in fuga da uomini che le sparano, per spaventarla, non ucciderla. Si apre in questo modo, senza preamboli, Timbuktu di Abderrahmane Sissako (primo film di un concorso che meglio di così non sarebbe potuto cominciare). Una bambina, sopravvissuta alla/e guerra/e evocata/e mostrata/e nel corso del film, corre, frontale, senza fiato, nell’inquadratura finale, fino a dissolvere nel nero che chiude quest’opera politica ancor più tale perché il discorso tematico e di denuncia affiora da una scrittura filmica poetica, da uno stile rigoroso e al tempo stesso libero, da un umorismo minimalista ma sferzante (affine per tratti a quello di Elia Suleiman), da una sintesi visiva che fa di ogni immagine una pluralità di immagini che producono senso, memoria di cinema e di un cinema pan-africano come da tempo era raro vedere.

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