Una gazzella attraversa l’inquadratura, corre, è in fuga da uomini che le sparano, per spaventarla, non ucciderla. Si apre in questo modo, senza preamboli, Timbuktu di Abderrahmane Sissako (primo film di un concorso che meglio di così non sarebbe potuto cominciare). Una bambina, sopravvissuta alla/e guerra/e evocata/e mostrata/e nel corso del film, corre, frontale, senza fiato, nell’inquadratura finale, fino a dissolvere nel nero che chiude quest’opera politica ancor più tale perché il discorso tematico e di denuncia affiora da una scrittura filmica poetica, da uno stile rigoroso e al tempo stesso libero, da un umorismo minimalista ma sferzante (affine per tratti a quello di Elia Suleiman), da una sintesi visiva che fa di ogni immagine una pluralità di immagini che producono senso, memoria di cinema e di un cinema pan-africano come da tempo era raro vedere.

C’è, nel nuovo lungometraggio del cineasta mauritano, un affondo nell’attualità (la polizia islamica che in nome dell’Islam e del Corano impone un radicalismo fondamentalista impietoso in una città simbolo della cultura e della memoria come Timbuktu) con le armi dello sguardo e della parola che sminano, pezzo su pezzo, quello stato di repressione e i personaggi che lo alimentano. Sissako, che qui raduna la sua migliore poetica con quelle luci calde e sabbiose che contraddistinguono la sua opera fin dall’esordio con Le jeu (richiamato con la presenza della guerra e dei bambini), compone un poema visivo dall’inizio sorprendente (e dal seguito altrettanto sublime). Non solo per la corsa della gazzella (che riapparirà alla fine), ma anche per la scena che descrive lo sfregio alle antiche statue africane sparate, mutilate dai militari e piantate dal regista, così deturpate, nel deserto in una sorta di macabro museo a cielo aperto.

Il deserto. Ancora set e corpo imprescindibile nel cinema di Sissako (si pensi a La vie sur terre, a Heremakono). Che qui assume forme che fanno anche pensare al deserto di altre guerre secolari narrate da Souleymane Cissé in Yeelen. Perché Timbuktu è, fra le altre sue virtù, pan-africano in questo senso, di corpo strettamente collegato, come in un “existenz” riattivato altrove, al cinema e agli autori di un’Africa filmica che credevamo (quasi) perduta. Cissé, e Djibril Diop Mambety (come non vedere, nel personaggio della “folle” che percorre le strade di Timbuktu, una somiglianza, anche fisica, con la protagonista di Hyènes…).

Sissako compone immagini luminose per colpire ancora di più agli occhi e al cuore. Gli bastano poche inquadrature, e un montaggio nitido, per dire la brutalità di una morte per lapidazione o di una vacca trafitta da una lancia per puro desiderio di vendetta. Non sono solo i fondamentalisti a reprimere e uccidere. Ci sono altre rivalità, tra famiglie confinanti, che incitano alla violenza e al regolamento di conti spietato. Sopravviveranno i bambini, i ragazzi (che in una scena memorabile, di surreale disegno, inventano una partita di calcio senza pallone, vietato dagli islamisti), e gli animali. Coloro che, con astuzia, non si lasciano imbrigliare usando il potere della parola o del cammino non pre-costituito.