Armonie

«Il suono ci invade, ci spinge, ci trascina, ci attraversa. Abbandona la terra, tanto per farci cadere in un buco nero quanto per aprirci ad un cosmo. Ci dà la voglia di morire. […] Estasi e ipnosi». (Gilles Deleuze)


Gianfranco Costantiello

Gianfranco Costantiello

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A metà degli anni Settanta, Lou Reed è una delle figure più eclettiche e irriverenti nel panorama musicale mondiale. Eppure la tormentata avventura con i Velvet Underground - un inanellamento di fiaschi commerciali con tanto di inevitabili dissapori che porteranno al prematuro scioglimento - non aveva fatto sperare nulla di buono. Piombato a Londra, si invaghisce della stravagante figura di David Bowie, appena di ritorno da un malinconico viaggio interstellare nei panni di Ziggy Stardust. È da questo incontro che nasce una delle pietre miliari del glam-rock e primo grande successo di Lou Reed: Transformer (1972). Ma l’improvvisa fama sembra schiacciare Lou, che teme di cristallizzarsi in un personaggio – quel Frankenstein del rock incerato nella copertina di Mick Rock – in cui, in fondo, non si riconosce. Così, prova a defilarsi con il suo lavoro più ambizioso e, probabilmente, anche il suo vertice artistico, Berlin (1973), che verrà però accolto freddamente da pubblico e critica. “Più faccio schifo e più vendo” confessa caustico e incredulo, appena un anno più tardi, all’uscita di Sally Can’t Dance. Album, quest'ultimo, rinnegato e che gli farà montare dentro un irriducibile disprezzo verso chi ai suoi concerti non fa altro che chiedergli Vicious e Walk on the Wild Side.

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