UZAK 22 | primavera 2016

Leonardo Gregorio e Michele Sardone

Leonardo Gregorio e Michele Sardone

altAutore apolide di un cinema personale, visionario, che della forma ha fatto racconto e viceversa. Per diciassette anni ha spento la macchina da presa e si è dedicato alla pittura; è tornato poi con Quattro notti con Anna (2008). Il primo atto di “Registi fuori dagli scheRmi V” è stato nel segno di Jerzy Skolimowski e del suo cinema. In particolare, dei suoi ultimi due lungometraggi: dalla lotta per la sopravvivenza di Essential Killing (2010), al grottesco messo in catastrofe in 11 Minutes (2015), presentato il 25 febbraio scorso al Cineporto di Bari in presenza del regista.

Vanna Carlucci

Vanna Carlucci

altAntonia Pozzi, Antonia. Corpo esile «in cuore all’azzurro» (Pozzi 2014, p. 46), corpo nudo, parola bianca. Questa è l’Antonia di Ferdinando Cito Filomarino, un profilo che si materializza e nuota negli spazi che la circondano, nuota e vive nel corpo alato delle pagine, nel vuoto saturo delle sue stanze (liriche) e uno sguardo arrampicato a una vita che trema. Chi era Antonia Pozzi? «Una scìa di silenzio/ in mezzo alle voci» (ibidem), poetessa che (non) si colloca, ma che vive «sul greto, tra i cespugli» (ivi, p. 37), voce fuori dal coro del suo contesto storico, letterario eppure così presente da scavalcarlo, il tempo . Incontriamo il regista Ferdinando Cito Filomarino in occasione della rassegna barese “Registi fuori dagli sche(r)mi”.

Leonardo Gregorio e Matteo Marelli

Leonardo Gregorio e Matteo Marelli

altForse il mistero del suo cinema non lo conosce neanche lui davvero, o semplicemente non vuole raccontarlo. Sa, però, dove quel cinema sta andando. Pedro Costa e il suo Cavalo Dinheiro per “Registi fuori dagli sche(r)mi” V. Abbiamo incontrato in albergo il regista portoghese, poche ore prima della serata al Cineporto di Bari.


Luigi Abiusi

Luigi Abiusi

altNel crocevia, grumo di contraddizioni, tra civismo e recrudescenza dei nazismi, che è l’Europa oggi, fanno la loro comparsa opere documentarie che spesso trascendono il documentario, aumentando proprio in virtù di questo falso scavalcamento, il portato di “verità” del filmato. È inutile richiamare ancora Rosi o Minervini, per restare all’Italia. Ora, uno dei documentaristi più rigorosi che si esprimono in questo ambito è sicuramente Marco Santarelli, che in Dustur affronta la questione dei diritti umani, tra identità religiosa e giurismo, discussa proprio da chi lo ha violato “il diritto”, e di chi lo fa (o lo farebbe) in nome di dettami religiosi (spesso fraintesi). La voce è quella di musulmani in carcere, in quello Dozza di Bologna, in contrappunto al ragionamento dossettiano, cristiano di Ignazio, fino a che non vi converge anche il sofferto dettato di Samad, rientrato alla Dozza da uomo libero.
Qui una conversazione con Marco Santarelli e, in epilogo, Roberto Silvestri, in occasione della proiezione barese di Dustur per “Registi fuori degli sche(r)mi”.

Luigi Abiusi

Luigi Abiusi

altDentro il magma della condizione postmoderna, in una teoria delle cose che rinuncia alla teoria contemplando le cose che accadono, che ci accadono, ci fanno accadere, nudamente, tanto più in questo rigoglio primaverile, ritorno di sole, su selciati, folle, sui muri, gli schermi in cui si caglia il passato (mai così presente), le fantasticherie secrete dagli intrichi di sterpi dentro un campo apparito, dallo sbottare di tuberi, che esalano e si cagliano ancora vischiosi, verdi di schiuma all’aria aperta; schizofrenia d’io che poi è deposizione dell’io, della coscienza, e gioiosa, terribile balia degli eventi, carneo, erotico brulicame di epidermidi, isole di senso; il palinsesto di un «Uzak» in quanto discontinuità gioiosa di sensi, concetti in storie, in fieri, va da Dreyer a Noé e passa per un grumo di visioni “polacche”.

Massimo Carboni

Massimo Carboni

La nostra attenzione si soffermerà in primo luogo su un dettaglio marginale di una grande opera d’arte del Novecento, un dettaglio apparentemente insignificante, un evento accidentale e quasi ridicolo, un resto. Fa infatti parte di ciò che resta in più dopo aver enumerato l’insieme. Ci applicheremo dunque ad una fenomenologia dell’inessenziale.
Se osserviamo attentamente, ci accorgiamo che per ben due volte, in due distinte inquadrature del celebre La passione di Giovanna d’Arco del regista danese Carl Theodor Dreyer, una mosca si posa e zampetta per qualche secondo sul viso dell’attrice Renée Falconetti, che interpreta – in maniera rimasta memorabile nella storia del cinema – la protagonista Giovanna. Inesplicabile ed imprevisto, un frammento di reale – in tutta la sua immediatezza, in tutta la sua singolarità – fa a suo modo ingresso permanente nell’immagine. Il regista non taglia in montaggio le due inquadrature, lascia che questo minuscolo, insignificante incidente resti per sempre integrato nella sua opera. Non si tratta affatto di una programmatica accettazione del caso. Dreyer non è un dadaista né un surrealista; è un autore rimasto celebre per il suo rigore formale, per la sua capacità di controllo e di dominio sul linguaggio filmico. L’episodio semmai indica come l’opera d’arte, e soprattutto l’opera d’arte moderno-contemporanea sia qualcosa che, nel suo stesso farsi, appare radicalmente esposta all’evento fortuito che si dona, alla nuda contingenza che irrompe a partire da un fuori ignoto e incontrollabile, ove domina incontrastata l’equiprobabilità dell’accadere.

Roberto Turigliatto e Małgorzata Furdal

Roberto Turigliatto e Małgorzata Furdal


altAveva deciso di lasciarsi trasportare anima e corpo
dalla corrente, come una foglia portata dal vento…
galleggiante senza mai aggrapparsi a niente…
giramondo per ponderatezza…
non come altri per disperazione.

(Joseph Conrad, Victory)


Fin dall’inizio, nel cuore del suo cinema, Jerzy Skolimowski incontra il “compagno segreto” del racconto di Conrad, un’opera letteraria che ritroveremo molti anni dopo, insieme a Victory, adombrata dentro The Lightship. «Andrzej Leszczyk non sono io. È divertente, non solo dal punto di vista artistico ma anche psicologico, il fatto che riesca a produrre delle varianti a partire dalle mie tendenze personali, ma senza identificarmi con esse, il fatto di guardarmi sullo schermo – fisicamente sono io – in una vita fittizia» (Jerzy Skolimowski 1964).

Alessandro Cappabianca

Alessandro Cappabianca

alt«Un’altra avventura vi racconterò, più strana ancora...»
È l’inizio di Cosmos, il romanzo di Gombrowicz, che però, nella trasposizione cinematografica di Zulawski, è sostituto dai celebri versi d’apertura della Divina Commedia («Nel mezzo del cammin...» ecc.). Nella filmografia del regista polacco, d’altra parte, non si può certo dire che manchino avventure “strane” – in che senso, allora, quella di Cosmos sarebbe ancora più strana? Ma davvero lo è?

Nicola Curzio

Nicola Curzio

altChe il 3D al cinema sia inutile o superfluo è opinione piuttosto diffusa e nemmeno troppo taciuta. “Il 3D non cambia niente” si sente spesso dire a proposito dei film girati in rilievo. Del resto, opere di questo tipo sono di frequente distribuite e proiettate in 2D senza che nessuno, o quasi, si accorga che ne esiste una versione tridimensionale. Nella migliore delle ipotesi il 3D è percepito come un extra, un additivo, qualcosa che può arricchire la proiezione, ma che non incide realmente su di essa. In altre parole, il discorso filmico con il 3D non cambia, anzi, a volte rischia di essere indebolito: l’autorevole studiosa americana Kristin Thompson, ad esempio, ha sostenuto che «gli effetti rocamboleschi della maggior parte dei titoli in 3D sono fastidiosi e hanno l’esito di ridurre il potenziale immersivo. De facto, interrompono il flusso narrativo, chiedendoci di prestare attenzione a un escamotage del tutto ridondante. L’unica cosa che ricordo di La leggenda di Beowulf, uno dei primi film in 3D, sono le lance scagliate dagli indigeni all’indirizzo degli spettatori. Dopo il terzo lancio, la routine diventa noiosa, anzi, fastidiosa. È come ascoltare la stessa barzelletta ad nauseam» (Thompson 2010, p. 86).

Vincenzo Buccheri

Vincenzo Buccheri

alt«Il cinema è l’arte del vedere»: così sentenziava, in un indimenticato finale, la wendersiana proprietaria del cinema Wei e Wand. Truismo indiscutibile, certo, ma come tale tutt’altro che irrilevante al nostro scopo (al di là delle usurate diatribe sul vario ed eventuale specifico cinematografico).

Se il cinema è l’arte del vedere, dunque, ben vengano film come questo di Kieślowski, ch’è a un tempo piacere degli occhi e saggio sul vedere, vertigine visiva e teoresi sull’immagine e sullo spettatore (un po’ come tutti i film, insomma, obietteranno con ironia gli avversari dell’autoreferenzialità oggi così in voga: ma non lo diceva già Truffaut che ogni film porta con sé, inevitabilmente, una certa idea del cinema unitamente a una certa idea della vita?).
Qui si cercherà di mostrare come questo film rapinoso, sfuggente, misticheggiante, sia poi anche un acutissimo saggio sulla natura (duplice?) della “vera” immagine cinematografica e sul diverso (duplice?) atteggiamento dello spettatore di fronte a essa. Nella parte conclusiva, poi, si vedrà come l’intervento dell’autore nel finale, apparentemente risolutore, sia in effetti ben poco risolutore, anzi diciamo avventato e un poco semplificatorio, benché poi riassorbito nell’ultima (“Vera”) immagine del film.

Ilaria Floreano

Ilaria Floreano

altSe invitato a firmare un autografo, Zbigniew Preisner trasforma la coda dell’ultima “r” nell’incipit di una semicroma, cui ne accosta altre per poi racchiuderle tutte dentro un pentagramma. Mentre era impegnato a registrare la colonna sonora di Film Blu con l’orchestra Sinfonia Varsovia, il compositore nato a Bielsko-Biała il 20 maggio 1955 ricevette svariate visite della protagonista del film, Juliette Binoche, che si immerse tanto nel proprio personaggio di presunta compositrice da consigliare al maestro la sostituzione di un oboe con un clarinetto. Consiglio che, accantonata qualche perplessità, Preisner seguì, e poco conta che oltre vent’anni anni dopo, durante la presentazione di un libro dedicato a Kieslowski e al suo rapporto con la musica, Preisner smentisca l’aneddoto riportato da Ermanno Comuzio su «Cineforum» (n. 353/1996): si nasconde una piacevole levità in questo creatore di musiche che hanno una poderosità intensa da XIX secolo, le cui ultime produzioni cinematografiche sono per nientemeno che The Tree of Life di Terrence Malick e La grande bellezza di Paolo Sorrentino.

Valentina Dell'Aquila

Valentina Dell'Aquila

altForse davvero si consiste negli oggetti, in quegli strati che si utilizza, si rappresenta... Disporre della natura, portarla al suo paradosso, introdursi nel meccanismo incastrato di un’idea e lastricarla: il pensiero si deduce dal pensiero, dalla sua conseguenzialità ri-costruita (appunto a strati), dal contrasto col contingente. Il potere è nella sua intensificazione, nella realtà, nel suo interno. Ecco semmai il ruolo del reale (che poi è astrazione: reale forse come potere, nell’esterno del suo contagio o nell’esercizio di questo, produzione e riproduzione).

Michele Sardone

Michele Sardone

altNon si può descrivere tutto. Questo è il grosso problema del documentario. S’impiglia nella sua stessa trappola. [...] Se faccio un film sull’amore, non posso entrare nella stanza dove delle persone vere stanno facendo l’amore. [...] Per questo probabilmente iniziai a fare lungometraggi. Qui non ci sono problemi. Ho bisogno di una coppia per fare l’amore, a letto, la cerco. [...] Posso perfino comprare della glicerina, metterne alcune gocce negli occhi di un’attrice e lei piangerà. Sono riuscito a fotografare delle lacrime vere molte volte. È una cosa completamente diversa. Ho paura delle lacrime vere. Infatti non so se ho il diritto di fotografarle. [...] Ma adesso ho la glicerina. (Kieślowski in Žižek 2010, pp. 121-22)

Raffaele Cavalluzzi

Raffaele Cavalluzzi

altUna delle componenti della cifra interpretativa di Maps to the Stars (2014) di David Cronenberg (dal romanzo Dead Stars di Bruce Wagner) è il fuoco, il fuoco eterno dell’inferno, l’inferno di Hollywood cinica e corrotta, “una città orripilante”. Havana Segrand (l’eccellente Julianne Moore) è un’attrice che rischia ormai l’età del declino ed è marcia fino all’osso, marcia nei costumi, cinica, arrogante, sfrenatamente egoista nei comportamenti. La sorte vuole che la fase critica della sua carriera coincida con l’idea del remake di un famoso film già interpretato da sua madre trent’anni prima: dopo quel film – con scene che alludono, non a caso, a una vicenda manicomiale della protagonista – la madre di Havana morì in un incendio (l’inferno).

Matteo Marelli

Matteo Marelli

alt«E ciò che io sono – e che per principio mi sfugge –
lo sono in mezzo al mondo,
in quanto il mondo mi sfugge»
(Jean-Paul Sarte, L’essere e il nulla)





Raffaele Cavalluzzi

Raffaele Cavalluzzi

altDomani, e poi domani, e poi domani / il tempo striscia un giorno dopo l’altro / a piccoli passi, fino all’estrema sillaba / del discorso assegnato, e i nostri ieri / saran tutti serviti / a rischiarar la via verso la morte / ai folli. Breve candela, spegniti! / La vita è solo un’ombra che cammina, / un povero attorello sussiegoso / che si dimena sopra un palcoscenico / per il tempo assegnato alla sua parte, / e poi di lui nessuno udirà più nulla: / è un racconto narrato da un idiota, / pieno di grida, strepiti, furori, / senza significato alcun!
(Macbeth, atto V, scena V)

Matteo Marelli

Matteo Marelli

altSilvia, rimembri ancora / [...] quando [...] / tu, lieta e pensosa, il limitare / di gioventù salivi?


Era l’estate del 2007. Era Santarcangelo dei Teatri.
Per strada, verso la palestra dell’Istituto Tecnico Commerciale dove i Motus stanno per presentare il movimento primo di X(ics) Racconti crudeli della giovinezza, un corpo pallido, lungo e sottile, capelli corti e ossigenati, pattina allo sbando tra la gente. Distribuisce volantini con riprodotta la sua immagine incorniciata da due scritte:

«mi sto cercando»
«se anche tu ti sei perso contatta questo numero via sms...»

[cortocircuito]

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