Non si tratta di ubbidire al governo, tronfia sillabazione e nemesi degli aggregamenti komitivali, aperitivali, lo sballo per lo sballo stupido quand'è sera, i balli triviali nella fiera delle vanità sgranata nelle ciarle del locale, nel bistrot che vive nell'automatico tinnire dei calici, nell'allentamento delle mascelle oramai lascive, l'allettamento del gioco delle parti, delle maschere, bistrate, occhiute, catastrofiche; ma di acconsentire alla scienza, il sinodo di sapienti, cerusici che sobilla Conte; a quella ricerca (delle ragioni d'essere, che siano biologiche o filosofiche) che s'è eletta contro i fascismi, maschilismi, razzismi, insomma in nome di un cosiddetto bene comune.
(trad. a cura di Giovanni Festa)
«Non muori perché sei un creatore
O perché sei questo corpo
Sei morto perché sei il volto eterno».
(Adonis, Deserti)
2666: un enigma. Il nome di un film di fantascienza dove le macchine ci dominano, mostri ci attaccano in autostrade perdute e piante crescono all’improvviso, mentre si moltiplicano omicidi senza nome. E c’è sempre un giovane scienziato che sospetta. 2666: è la nostra forma di immaginare il disastro, il western dell’ecodistruzione.
«... Nel mio caso, un Diario serve da supporto alla memoria,
ma soprattutto perché dà alla vita di tutti i giorni
il carattere di un viaggio, di un periplo.
L’erranza, che è il modo naturale in cui la vita si presenta,
assume il significato di un'indagine, di una ricerca.»
R. Ruiz
Nel corso della sua lunga carriera, Raúl Ruiz si è specializzato nella produzione di un'opera di carattere esplorativo, imprevedibile, a volte ermetica ma sempre animata da uno spirito giocoso che unisce il profondo e il lieve, la digressione e la ricorsività, in un combinazione che, tra fascino e perplessità, si presenta allo spettatore come un vero marchio d'autore. Questo Diario, iniziato nel 1993, quando il cineasta cileno aveva 52 anni, e terminato nell'agosto 2011, pochi giorni prima della sua morte, soddisfa le condizioni per contenere, al suo interno (come i tre volumi della sua Poetica del cinema o le abbondanti interviste rilasciate durante il suo itinerario esistenziale) tutti questi aspetti.
327 Quaderni
Jean-Luc Godard suggeriva in un'intervista la maniera in cui un giovane aspirante cineasta potrebbe girare un film: dovrebbe limitarsi a raccontare un giorno della sua vita che, aggiunge ingannevolmente, è quello che James Joyce fece con l'Ulisse. Questa battuta dell'artista ammirato da Ricardo Piglia, fa luce anche sul pensiero dello scrittore e critico argentino.
L’incipit del brano dedicato al Minotauro nel Libro degli esseri immaginari di Borges è folgorante: «L'idea d'una casa fatta perché la gente si perda, è forse più singolare di quella d'un uomo con testa di toro; ma le due reciprocamente s'aiutano, e l'immagine del labirinto conviene all'immagine del minotauro». Nella descrizione borgesiana, il labirinto è sempre abitato, è sempre pensato sotto la forma del doppio, della duplice immagine. La geometria mostruosa di un luogo si accompagna sempre alla mostruosità di un essere vivente e, soprattutto, entrambi sono immagini che si rispecchiano.
Numerose pagine della letteratura argentina sono dedicate a un paradosso: la vita colta in un momento complesso, inesplicabile, al bordo dell’intraducibile che, pure, riesce a trasformarsi in territorio e, quindi, in romanzo (La vie est un roman, chioserebbe Resnais nel titolo del suo film - scritto da Jean Gruault - forse più vicino al dettato del crepuscolo) e a ricostruire un sito che, come dice Borges, è menos documental que imaginativo. Cortázar, come si sa, non finiva mai di interrogarsi sulle leggi segrete della creazione letteraria: come Piglia, come Saer il narratore è, anche, secondo una tradizione esoterica ed erudita – inaugurata da quel grande amanuense che era proprio Borges – «lettore»: ultimo, come si voleva Emilio Renzi-Piglia, ma anche «poeta» come Saer, e, in tutti i casi, «critico» (un racconto emblematico di Cortázar è, in questo senso, Los pasos en las huellas) che abbraccia tutta la letteratura universale scoprendo, alla fine, che non si è fatto altro che comporre, come in un quadro di Arcimboldo con la sua simbiosi paranoica di oggetti, un mosaico di immagini il cui risultato è il proprio stesso volto. Cortázar, si diceva: in Intermedio magico accenna alla forza della poesia e del suo strumento principale, la metafora, capace di penetrare nel mondo delle cose stesse, fuori dalla legge del nome (aborrita anche dall’Eltsir di Proust), e cancellare la singolarità delle cose attraverso il ponte magico del «come», che permette al cervo e al vento (qui Cortázar cita Levi-Strauss) di partecipare (di gioire, verrebbe da dire) di una medesima qualità.
Se è vero che uno degli aspetti più evidenti della letteratura sudamericana del Novecento (stante l'azzardo ad accomunarla entro un assioma, una schematicità che del resto si consustanzia nella riprova entro i territori, le regioni, fino agli ecosistemi più minuti e particolari, casi antropici che si rivelano poi specificamente letterari) è la stratificazione e la coloritura dell'azione, della storia, trame magmatiche, impastate di polvere e sangue, raffreddate da sferze di vento; è anche vero che entro questa plastica degli eventi emerge un tratto formalista che corrisponde all'assottigliamento o disarticolazione di quella plastica (in favore dello scorcio), verso la riflessione e la sperimentazione linguistica.
Una ricognizione nell'universo femminile del cinema horror degli ultimi anni
Negli ultimi anni si è fatto un gran parlare di gender gap e disuguaglianza di genere nell’industria cinematografica e nei film. Film che trasmettono sentimenti, stati d’animo, che fanno orrore o piangere; film di ogni tipo in cui poco spazio, o uno spazio per lo più marginale, di puro supplemento, è dedicato all’ideazione e caratterizzazione di personaggi femminili. E se è opinione ormai condivisa che il processo di emancipazione delle donne nato negli anni Sessanta abbia radicalmente modificato la visione e l’immagine femminili nel cinema hollywoodiano e indipendente, oggi, sulla scia dei neonati movimenti, sembra aver preso di nuovo vita, riattualizzandosi, un dibattito più che decennale e che si rifà, guardando specialmente al cinema horror e slasher, alle teoriche queer, femministe e di genere degli ultimi decenni del secolo scorso.
Il corpo della donna come terreno di riflessione politica. Un corpo all’apice della femminilità, carnale, rigoglioso, fecondo, in attesa di mettere al mondo nuova vita eppure estraneo a qualsiasi cliché legato all’immagine stereotipata e melliflua della maternità. Forte come non mai, forte di una forza inedita e dirompente, ma al tempo stesso fragile, compromesso, goffo, in preda a una incontrollata e tumultuosa trasformazione.
In una delle tante interviste rilasciate durante la promozione di Raw, Julia Ducournau dice che, per quanto la riguarda, un coming of age non c’entra niente con l’età: «Può accadere in ogni momento dell’esistenza. Può avvenire con la prima gravidanza, sia per una madre che per un padre, o quando un uomo perde i capelli, o quando una donna entra in menopausa». Poi dà la sua personale definizione: «È un punto di svolta nella vita, in cui il fatto che l’integrità del tuo corpo cambi ti obbliga a mettere in discussione te stesso e la tua identità».
L’immagine è un’ombra, spettro che si muove, latente nella luce diafana, errante nel suo imporre una comparsa e, l’istante dopo, una scomparsa, sospesa nel formicolio incessante della sua apparizione ma, «quanto bisogna affondare nella notte per farne emergere, consorgere, l’auroralità?» (Roberti 2012, p. 53). È dentro questa dialettica del cinema come visione fantasmatica che brulicano, in A Girl Walks Home Alone at Night, figure tenebrose, sopravvissute oltre la vita; ed è la notte lo sfondo o lo schermo dentro la quale appare una donna vampiro, creatura estrema e volto lunare nei pelaghi del cielo nero. Sola e silenziosa vaga nel panorama scheletrito sfatto e apocalittico, nel movimento incessante di trivelle che suggono petrolio, suzione che fa il verso a quella vampiresca del morso. Come un angelo, come il giustiziere della notte lei vola sul ciglio della strada, sempre ai bordi, sempre al limite della vita e della morte e sempre al confine tra due mondi: quello iraniano (il suo mantello che è una hijab cita spettri del cinema passati e ancora riviventi) e quello americano (il film è stato girato in California).
Da un’acidula melagrana, squarciata e sanguinante, può nascere un pesce rosso che ha fagocitato due tigri pronte ad avventarsi su un innocente corpo femminile nudo, mollemente adagiato tra cielo e terra. Le creature infernali e paradisiache dipinte da Dalì nel Sogno causato dal volo di un'ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio, del 1944, evocano il tormento e l’estasi della natura umana, e le pulsioni implosive ed esplosive del desiderio.
I mostri dell’isola.
Quasi tutti i mostri cinematografici vivono su un’isola, in uno spazio raccolto e remoto, circondato dal mare, che contribuisce a mantenere segreta la loro esistenza – a meno che ,certo, un regista curioso (e avventuroso) non decida di andare a verificare sul posto, come avveniva nel primo King Kong (Cooper e Schoedsack, 1933), l’attendibilità della leggenda. Da vero conoscitore dei gusti del pubblico, il regista si porta dietro una bella ragazza (non importa che sia o no un’attrice, non importa se sappia recitare o no), da inserire comunque nel film, perché una storia d’amore ci sta sempre bene.
Il «mostruoso» si potrebbe definire come un’interferenza nell’ordine delle cose: è mostruoso qualunque evento che provoca, attraverso la sua sconcertante stravaganza, la sua eccedenza, uno strappo violento nel tessuto del quotidiano e che non si capisce bene da dove provenga: è il non completamente focalizzato (registrare la messa a fuoco, ritardarla, procrastinarla, fingerla, è anche una maniera per non lasciarci assorbire dal mostruoso, evitando il faccia a faccia che ci perderebbe). Il mostruoso è il senza fissa natura, perché partecipa nello stesso tempo, e disordinatamente, di molte nature eterogenee insieme (il Capriccio) o di nessuna (l’Ombra). La reazione al mostruoso è la Nausea, che insieme anima l’inerte e si rifiuta di assimilarlo. Nausea che si può considerare, in un certo senso,anche come una forma estrema (e mostruosa) di reticenza.
«Quello che conta prima di tutto è vivere, provare a conoscere sempre di più, scoprire ogni volta il visibile del non visto, l’udibile del non udito, il comprensibile del non compreso, l’amabile del non amato».
(Jean Epstein)
Il procedere per apparizioni, oniriche o ipnagogiche, improvvise o imbricate e diffuse nell’ambiente quotidiano, diventa per Fellini una cifra stilistica che, a partire prima da Otto e ½ e poi, in modo più sperimentale (soprattutto in senso cromatico e in rapporto al gioco delle ombre e delle penombre), da Giulietta degli spiriti, si coniuga con l’altro lato, con l’altro mondo, con un aldilà del tempo e dello spazio, dove si svolge il lavoro dell’inconscio, del rimosso. Ciò significa che l’apparizione è sempre revulsionata nel suo versante d’ombra.
Sono trascorsi 30 anni da quando «Society – The Horror», esordio registico di Brian Yuzna, fu presentato alla rassegna Fantafestival di Roma suscitando reazioni contrastanti. Negli Stati Uniti il film fu distribuito nelle sale nel 1992, solo 3 anni dopo la sua realizzazione (1989). Dopo il periodo dell’edonismo rampante di «reaganiana» memoria che aveva caratterizzato la «società» degli anni '80, nei primi anni '90 la televisione americana «scopre» i segreti di Twin Peaks e l'«icona» della famiglia non sarà più la stessa. Non è più tempo di teen movie o commedie sentimentali dalla rassicurante patina. Beverly Hills è lo spazio emblematico dell’american dream: l'art déco di sontuosi appartamenti, le leggendarie palme, i vip che sfoggiano eleganti abiti e automobili esclusive mostrandosi felici.
Good Time (di Bennie e Josh Sofdie, 2016-2017) è già traducibile nel titolo con un’espressione che si avvicina al nostro “tempo felice”: esso è termine antinomico rispetto alla sostanza limacciosa della vicenda intensamente drammatica del film. E si riferisce a una sorta di nuovo sogno americano, che qui è evocato dai protagonisti del degrado sociale estremo, e della condanna senza speranza che esso decreta per due suoi giovani succubi (il piccolo malavitoso Connie Nikas – Robert Pattinson – e suo fratello Nick – Bennie Sofdie –, un ritardato mentale su cui incombono, insieme, la giustizia e l’assistenza psichiatrica).
A Dakar, lungo la riva dell’Oceano, una irrisolta storia d’amore tra due giovani senegalesi, che si avvolge in una trama in cui, nella seconda parte, una straordinaria dimensione, in qualche modo al di là dell’onirico, inquieta e dà un accento di particolare tenerezza alla conclusione sospesa (Atlantique, Grand Prix a Cannes nel 2019, della regista di formazione francese, esordiente nel lungometraggio, Mati Diop). Lo scenario è dato da cantieri e strade di un sobborgo segnati dallo squallore di un’edilizia sistematicamente incompiuta, tipica di tante periferie del terzo mondo; intanto una torre ultramoderna svetta sul disordine diffuso.