I mostri dell’isola.
Quasi tutti i mostri cinematografici vivono su un’isola, in uno spazio raccolto e remoto, circondato dal mare, che contribuisce a mantenere segreta la loro esistenza – a meno che ,certo, un regista curioso (e avventuroso) non decida di andare a verificare sul posto, come avveniva nel primo King Kong (Cooper e Schoedsack, 1933), l’attendibilità della leggenda. Da vero conoscitore dei gusti del pubblico, il regista si porta dietro una bella ragazza (non importa che sia o no un’attrice, non importa se sappia recitare o no), da inserire comunque nel film, perché una storia d’amore ci sta sempre bene.
Trasportato nella città (nella civiltà) proprio tramite l’esca della Bella seduttrice (bionda),il gigantesco gorilla innamorato, per le sue stesse dimensioni abnormi, non potrà che combinare disastri, come un elefante in un negozio di porcellane e, alla fine, sarà abbattuto. L’incantamento nei confronti della Bella gli è stato fatale.
Quasi sempre la mostruosità si manifesta tramite l’ibridazione. Quella di King Kong, in effetti, sembrerebbe legata solo alle dimensioni, al rapporto sproporzionato con le usuali misure umane, che gli rende possibile abbracciare un grattacielo; ma anche nel suo caso si può parlare di ibrido. Alla grande Bestia vengono offerte in sacrificio dagli indigeni belle ragazze di pelle nera appartenenti alla tribù. Perché belle ragazze, magari vergini, se il loro destino è di essere uccise e forse divorate? Questo è lasciato nell’ambiguità. Probabilmente ha a che fare con la necessità che ad essere sacrificato sia sempre qualcosa di prezioso. Una cosa è certa: Kong si innamora della nuova vittima sacrificale, proprio perché bianca e bionda. Il sacrificio eccezionale suscita nella massa bruta della Bestia qualcosa che somiglia addirittura all’amore e al desiderio, mettendola al contempo di fronte all’impossibilità di soddisfarli in alcun modo.
King Kong pone dunque alcune domande inquietanti: se il Mostro ama che si celebrino sacrifici umani e si immolino vittime in suo onore, tutto questo non somiglia un po’ troppo a ciò che si dice gli Dei pretendano da noi? Come può mai accadere, poi, che rimangano ammaliati dalla bellezza di una delle vittime fino a risparmiarla e per amor suo affrontare l’annientamento? Come mai il Mostro in un certo senso acquista in tal modo alcune caratteristiche del comportamento umano, pur conservando l’aspetto fisico e gli istinti distruttivi della Bestia?
Evidentemente gli Dei come Mostri, gli Dei nel loro aspetto terrificante, ci possono distruggere (o quanto meno perseguitarci negli incubi), ma se abdicano alla loro regalità, si mescolano a noi e ci amano,allora potrebbero aprirsi le porte del Caos e sopraggiungere la distruzione di ogni Legge.
L’isola del dottor Moreau, il romanzo che H. G. Wells scrisse nel 1896, metteva appunto in gioco, tra le altre cose, il potere distruttivo dei Mostri come ibridi terrificanti, della Beast People come popolo della contaminazione uomo-bestia, in cui però non è l’uomo a divenire bestia, ma la bestia con alcuni caratteri umani a regredire verso una condizione ferina originaria, alla quale era stata strappata a forza, tramite dolorose pratiche chirurgiche.
Il Demiurgo sadico che compie queste operazioni senza anestesia, destinate al fallimento, è il dottor Moreau, il cui cognome si vuole richiami la radice latina mors, ma potrebbe anche riferirsi a Gustave Moreau, pittore d’incubi, precursore del surrealismo. Le creature infelici da lui create sono in grado di assumere posizione eretta, proferire qualche parola in una parodia gutturale di linguaggio, rispettare i comandamenti di non uccidere, non mangiare carne, né fare “sesso selvaggio”, ma sono continuamente esposte al pericolo della regressione animalesca. Essa non si lascia mai dimenticare, essendo presente anche fisicamente sotto forma di pelame folto, muso appuntito, corna, zoccoli, orecchie lunghe e unghie affilate, deformazioni dentali ecc., che persistono o rispuntano.
Si potrebbe definire Moreau un dottor Frankenstein della giungla, peraltro dotato di una carica maggiore di sadismo, visto che il personaggio creato da Mary Shelley operava sezionando cadaveri, mentre Moreau lavora senza anestesia sui corpi di creature viventi, indifferente rispetto alle sofferenze che infligge loro in nome della scienza. Le bestie soffrono, durante i vani tentativi di renderle (più) umane. Non è possibile alcuna forzatura nell’evoluzione darwiniana, i cui tempi lunghissimi sono necessari a garantire il passaggio graduale verso ciò che, diversamente, sarebbe traumatico. Da questo punto di vista, l’intervento chirurgico dell’800 sarebbe l’equivalente più sanguinoso della classica metamorfosi ovidiana. Atteone si muta in cervo ad opera della Dea sdegnata, come un cervo, operato da Moreau, potrebbe mutarsi in Atteone – o in una mostruosa creatura ibrida che presenti caratteri dell’uno e dell’altro.
Ci sono stati vari tentativi, a carattere soprattutto sociologico, di collegare il timore/attrazione degli esseri umani (specialmente di lettori e spettatori) nei confronti dei mostri, a periodi storici di crisi e insicurezza. Questi tentativi, lo dichiaro subito, mi convincono fino a un certo punto. I bambini, si, una volta ascoltavano con piacere fiabe paurose a base di streghe e orchi, trovandovi conferme di un’identità in formazione: ma questo non riguarda la sociologia. Credo, più in generale, che il problema del Mostro sia legato al problema del Male e abbia radici nell’enigma della presenza del Male stesso nel mondo, personificato definitivamente in epoca cristiana dalla figura del Diavolo – mostro antico, non a caso ex-angelo contaminato da attributi bestiali. Era Lucifero l’angelo più bello ed è lui lo spettro più pauroso che l’umanità abbia saputo inventare.
Il romanzo di Wells ha avuto numerose trasposizioni cinematografiche: la migliore, a mio giudizio, è quella del 1996 di John Frankenheimer, conosciuta anche con il titolo di L’sola perduta, in cui il ruolo del dottor Moreau è sostenuto da Marlon Brando. Lo affermo, anche se ho presenti le innumerevoli traversie produttive cui il film è andato incontro, a cominciare dalla sostituzione del regista (in origine era Richard Stanley), fino agli incidenti e alle continue liti sul set, tra Brando e Val Kilmer, tra la troupe americana e quella australiana, ecc.Proprio per questo, forse, nel film non c’è nulla di pacifico, e l’apparente narrazione di avventure esotiche si trasforma, come i suoi mostri, in apologo d’uno sconvolgimento fisico e metafisico.
Qui, non a caso, Moreau non fa che parlare del Male e del Diavolo, sostenendo di fronte allo sbigottito interlocutore (ribattezzato Edward Douglas rispetto all’Edward Prendick del romanzo) capitato sull’isola forse per caso o forse ivi condotto per qualche scopo occulto, , non solo la liceità di infliggere dolore in nome della Scienza, ma che bisogna immaginare proprio il Diavolo quale figura-simbolo del progresso scientifico.Del resto, il Moreau di Frankenheimer, rispetto alle creature mostruose, si pone anche come Padre e Legislatore, in pratica come Dio: detta la Legge e provvede a farla rispettare, dispensando punizioni a base di scosse elettriche prodotte da un microchip innestato nel corpo delle ex-bestie. E’ un deterrente alla tentazione di regredire che continuamente minaccia quelle creature – e ciò che impedisce loro di tornare a essere quello che sono.
A confronto, l’omonimo film di Don Taylor (del 1977), interpretato da Burt Lancaster, mi sembra più convenzionale, limitato allo sviluppo degli aspetti narrativi. Il make-up delle bestie umane è ugualmente efficace, nei due film, e senza confronti, per esempio, con quello che era possibile nel 1932, in bianco e nero, al tempo dell’Isola delle anime perdute di Earl C. Kenton. Lì, finiva per emergere il predominio dell’ombra sui corpi, assieme alla presenza magnetica di Charles Laughton, perennemente armato di frusta. Però sia chiaro: non è solo questione di make-up. Ciò che maggiormente perturba, nella versione di Frankenheimer, è la presenza di almeno due veri freaks, che non a caso spesso compaiono insieme nella stessa inquadratura e compiono gli stessi gesti.
Uno è il nano Nelson de la Rosa, alto 71 cm., uno degli uomini più piccoli del mondo, nel ruolo di un ibrido tra uomo e topo. Visione insostenibile, alla pari dei freaks di Tod Browning, accentuata dal colore rosa acceso dell’epidermide, effetto di trucco. In una scena, vestito come Moreau, suona un pianoforte, issato su un alto sgabello, mentre Brando ne suona un altro, a poca distanza, in un concerto di atroci dissonanze acustiche e visive.
L’altro è Brando stesso, il corpo sfatto, enormemente ingrassato, che appare per la prima volta su una jeep scortata da un esercito di ibridi, col volto bianco ricoperto di veli candidi, occhiali neri, il rosso delle labbra accentuato dalla bianchezza del viso. Si lamenta di soffrire il caldo, anzi, d’essere allergico al sole. Apparizione piuttosto grottesca, per essere quella d’un Padre o addirittura d’un Dio. Qui si verifica insomma un effetto d’ibridazione imprevisto: l’attore trasmette al personaggio le sue fisime e le sue ossessioni.
C’entrava perfino la dinamica dei rapporti di coppia, intrecciati tra registi, attori, attrici e personaggi. La donna-puma del romanzo di Wells, vendicatrice delle Bestie, non ha fatto che moltiplicarsi cinematograficamente: era Lota, rivale ferina di Ruth, la fidanzata molto perbene di Edward Parker nel film di Kenton; era Aissa nel film di Frankenheimer, bellissima, ma anch’essa minacciata dalla regressione animalesca, interpretata da un’attrice che allora era fidanzata con Stanley, il regista defenestrato, e manteneva una visibile freddezza nei confronti della nuova regia. La si ritrova in Irena (Simone Simon), la donna-pantera di Cat People (1942), immaginata da due sensitivi come il regista Jacques Tourneur e il produttore Val Lewton, che Paul Schrader riprenderà nel remake del 1982 con Nastassja Kinski.
Mostri urbani.
Nel film di J. Tourneur il mistero ha sede urbana, nasce dalla notte della metropoli, quando le luci stradali si affievoliscono e sembrano lasciare campo libero all’irruzione degli spettri. Non si vede mai la trasformazione esplicita di Irena in pantera, neppure quando assale è uccide il dottor Judd, rimanendone a sua volta mortalmente ferita. La metamorfosi è sempre solo lasciata sospettare, avviene sempre fuori campo, di notte, nell’ombra … un fruscio di rami agitati, riflessi di luce sull’acqua d’una piscina … ombre dell’immaginazione, messe in fuga dall’ombra di una riga a T che sembra una croce ...
Helena, la donna “normale” che contende a Irena l’amore di Oliver, da parte sua ama molto i gatti, ma viene il sospetto che la pantera e le altre belve dello zoo, anzi, gli animali in genere, selvaggi o domestici, siano le vere presenze incomprensibili che accompagnano l’umanità, dotate di occhi enigmatici che non si sa se ci guardino (lo notava anche Derrida), ponendo l’enigma d’uno sguardo presumibilmente senz’anima, diverso dal nostro e al tempo stesso simile in modo inquietante. I mostri, allora, sarebbero la proiezione immaginaria della nostra inquietudine di fronte a loro, o meglio, della nostra paura di non essere, in fondo, diversi da loro.
Il mostro urbano di V. Lewton e J. Tourneur, dunque, è tale solo a intermittenza. Può presentarsi sotto l’aspetto d’una bella ragazza, che ama frequentare lo zoo, ascoltare da vicino i ruggiti delle belve in gabbia, trovarsi a distanza ravvicinata con loro, eventualmente liberarle. Se porta in sé un’ombra, è un’ombra interiore, talmente potente, però, che si riverbera sui luoghi in cui agisce. La città stessa diviene ombra, fatta di ombre. Diventa ombra anche la luce, diventano ombra i colori stessi, come accade nel remake di P. Schrader. Diventa il cinema regno delle ombre, perfino se in scena non entrano veri e propri mostri fisici: è il lascito del bianco e nero espressionista, di Murnau, di Dreyer, che si riverbera anche sui prodotti “di genere”.
I mostri e i morti.
Ma allora Dracula, il Conte immortale? Non si può considerare la proiezione di un’altra nostra paura, quella del ritorno dei morti, come del resto è, di fatto, anche la fantasia dei Morti Viventi di ascendenza haitiana, prima ancora che Romero ne consolidasse l’iconografia filmica? Certamente si, e tuttavia il gentiluomo della Hammer-film dai modi impeccabili, che morde le sue vittime con un certo stile, deriva cinematograficamente (voglio dire, a prescindere da Bram Stoker), assieme a tutte le sue incarnazioni filmiche precedenti e successive, dalla figura-archetipo del Nosferatu di Murnau (1922) – proprio quella che anche le serie Tv tendono a dimenticare, nell’orgia da Grand Guignol degli effetti speciali.
Come ho già scritto nel mio Fantasmi dell’abitare, non a caso Nosferatu contamina la sua figura antropomorfa con i tratti del ratto (orecchie appuntite, denti aguzzi) e queste caratteristiche risultano per me assai più perturbanti della pura e semplice trasformazione (mutarsi in lupo o in pipistrello…). Il divenire-animale deleuziano sembra così una delle maggiori prove d’iniziazione al divenire-altro, nel senso che può diventare altro il corpo stesso dell’animale, assumendo tratti d’un animale diverso, o addirittura umani. In ogni caso, alla radice dell’espressionismo (quindi anche di Murnau) Deleuze pone la vita non-organica delle cose. Specialmente delle ombre, vorrei aggiungere: l’ombra del conte Orlok sale le scale della casa di Ellen, l’ombra delle sue mani adunche incombe su di lei, come già, al castello, incombeva su Hutter - ma il trionfo delle ombre come entità viventi non-organiche, separate e indipendenti dai corpi, si avrà con Vampyr di Dreyer.
Divenire-animale. Divenire-ombra. Divenire-uomo. Divenire-Superuomo. Divenire-Dio.
E’ difficile essere Dio, anche su un pianeta arretrato della Galassia. Il trattino deleuziano apre alle trasformazioni più impensate e gioiose del divenire-altro, ma può anche risolversi nella creazione di mostri, di ibridi spaventosi. La pantera dell’Apocalisse non rimane a lungo prigioniera in gabbia, né ci attende in agguato al’'angolo d’un vicolo buio: è la proiezione perturbante del nostro corpo come sede di pulsioni animali. Nessun re Giovanni di Serbia potrà mai, brandendo una spada, del tutto estirparle.
I fantasmi dell’Opera.
Ogni città di qualche importanza ha un teatro dell’Opera. Ogni teatro dell’Opera ha dei sotterranei. Nei sotterranei dell’Opera, dopo Gaston Leroux, si aggirano fantasmi che non sono fantasmi, ma mostri deformi che per fantasmi sono scambiati. Perché questo avviene nel teatro d’Opera? Forse perché l’Opera, anche più del teatro drammatico, anche più del cinema, è un genere per eccellenza ibrido: niente è “naturale” nell’Opera, nel melodramma musicale. Il sipario si alza sempre sull’inverosimile, su questa strana commistione tra musica e voce, dove il significato delle parole non ha più importanza, lasciando il passo alla logica del ritmo.
I personaggi possono apparire e scomparire nelle maniere più impreviste, precipitano entro botole che si aprono all’improvviso ai loro piedi, oppure dalle stesse botole rispuntano, materializzandosi in scena all’improvviso.
Passaggi segreti conducono ai sotterranei, dove scorrono le acque limacciose delle fogne, infestate dai topi e abitate dal Fantasma – ma il Fantasma non è un vero Fantasma. E’ il costruttore stesso del teatro, mostro deforme come accade nel romanzo di Leroux; o è un ex-galeotto fuggito dalla colonia penale, come nel film di Rupert Julian (1925), con Lon Chaney, teschio vivente privo di naso, maschera terrificante anche senza bisogno di travestirsi da Morte Rossa (in un sorprendente inserto a colori); oppure è Herbert Lom, musicista e compositore sfigurato in un incendio, come nella versione di Terence Fisher (1962), trasposta da Parigi a Londra; oppure, ancora, è figlio di povera gente, abbandonato dai genitori appena nato, perché affoghi nelle fogne, come accade nella versione di Dario Argento e G. Brach (1998).
Lon Chaney è un mostro deforme dalla nascita. Herbert Lom lo diventa in seguito all’incendio. Julian Sands è salvato dai topi (che prendono il posto dei pinguini di Batman. Il ritorno, diretto da Tim Burton qualche anno prima), fino a considerarsi egli stesso un topo in sembianze umane.
In ogni caso, il Mostro ama la Bella, ama la sua Voce. Il Corpo della Voce, ne rimane ammaliato, fino a uccidere per essa.
Botole, passaggi segreti, finti specchi, sotterranei, fogne, topi. Il Mostro abita un universo oscuro, dalle cui profondità compie ogni tanto qualche comparsa terrorizzante al piano superiore, che è quello dove ha luogo lo spettacolo e dove lui stesso dà spettacolo. Su ogni rappresentazione, pertanto, aleggia l’ombra del fantasma, del mostro che ogni tanto si mostra.
A volte, poi, il mostro sale ancora, si arrampica sul tetto del teatro, tra statue gigantesche, spettrali come quelle di Notre-Dame, e spia nella notte le confidenze degli amanti. In conclusione, la Bella da lui protetta/desiderata trionfa, sia come Margherita in Faust, che come Giulietta in Romeo e Giulietta o come Giovanna d’Arco - ma a prezzo di molteplici orrori, e lui stesso accetterà dì essere ucciso dalla folla inferocita , gettato nelle fogne come Eliogabalo dai pretoriani ribelli.
Avvertimento finale: quando prenotate al botteghino i biglietti per uno spettacolo, cercate di evitare, se potete, i posti sotto il lampadario centrale.
Il mostro “buono”.
Nel repertorio dei generi cinematografici, la corrispondenza con i generi dei sogni salta agli occhi, tanto da poterne stendere un catalogo – catalogo di cui fanno parte gli incubi, sotto la voce horror o film fantastici angosciosi. Murnau, Dreyer, Val Lewton, Maurice e Jacques Tourneur, Roger Corman, sono i primi nomi che vengono alla mente, ma certo non i soli.
Gli incubi ci spaventano e allo stesso tempo ci attraggono. Ci attrae assistere, dal nostro posto sicuro di spettatori, alle trasformazioni del Vampiro, all’improvviso divenire-animale del personaggio, tanto che i distributori furbi inseriscono spesso un riferimento al Vampiro o all’animale nei titoli di film in cui non ci sono né vampiri, né animali. Così, in Italia, The Body Snatcher , con Boris Karloff e Bela Lugosi, diretto da Robert Wise nel 1945 e prodotto da Val Lewton, diventa La Iena, mentre Not for this Earth (Roger Corman, 1957) diventa un molto più esplicito Vampiro del pianeta rosso, anche se, nell’originale, Marte non c’entra niente.
A questo punto ci si può anche chiedere: il mostro è necessariamente “cattivo”? Necessariamente incarna un irrefrenabile pulsione a uccidere e distruggere (il che lo espone alla necessità d’essere a sua volta distrutto)? Funziona un mostro “buono”, sul piano dell’immaginario? Pensiamo p. e. a Mighty Joe Young (Il re dell’Africa), diretto nel 1949 da E. Schoedsack e prodotto da Merian Cooper, come seguito di King Kong. Joe, il gigantesco gorilla, non ama essere disturbato da ridicoli cow-boy che tentano di catturarlo a furia di lanci di lazo, ma poi si presta docile ai richiami della ragazza che lo ha allevato, e si rassegna a diventare la principale attrazione d’uno spettacolo teatrale – almeno finché i soliti ubriaconi incoscienti non ne scatenano la furia. Qui il mostro (dimensionale), comunque si palesa nella sua natura di attrazione spettacolare, creatura a passo uno animata da Ray Harryhausen, legata a filo doppio (come un figlio al padre) al prototipo King Kong di Willis O’Brien,né manca, malgrado la sua furia (più che giustificata) di salvare esseri umani dall’assalto di leoni inferociti. Alla fine, tornato a casa sua (in Africa) manderà ai suoi ex-impresari addirittura un saluto cinematografico.
Il Demiurgo autolesionista.
Come ha mostrato Nosferatu, e ribadito Artaud, un tempo la peste viaggiava per nave. Oggi, magari cambiando nome, per aereo. Rimane identica l’illusione, viva almeno dai tempi del Decameron, di tener lontano il contagio,rinchiudendosi in un fortilizio inaccessibile, riservato a pochi fortunati.
E’ quanto pensava anche il principe Prospero di E. A. Poe, nel racconto La maschera della morte rossa, radunando nel suo palazzo nobili, dame e cavalieri, assieme a giullari e cantori, cui era assegnato il compito di far passare allegramente il tempo alla lieta brigata, mentre fuori la Morte Rossa (la Peste) faceva strage. Dello stesso principe Prospero, nel film che Roger Corman ne trasse nel 1964, interpretato da Vincent Price (e mescolato alle suggestioni di Hop Frog, altro racconto di Poe) vengono accentuati i caratteri d’inaudita malvagità. Il Prospero di Corman è l’incarnazione d’un Demiurgo malvagio, che promette salvezza a coloro che ospita, solo a patto che lo divertano e si prestino ai suoi caprici. Nobili e dame sono costretti a fingere di divenire-animali (asini, porci, cavalle), ma in senso derisorio, come forma di degradazione: vi si prestano, del resto, ben volentieri.
Il nano e la nana ballerina, provenienti da Hop Frog, sono umiliati in tutti i modi.
Ma il funesto Demiurgo ha poi la disgraziata idea di organizzare un grande ballo mascherato, durante il quale muore bruciato uno dei suoi peggiori rivali in cattiveria, travestito da orango. Durante il ballo, non solo Prospero non riesce ad evitare l’ingresso della Morte Rossa nel castello, ma scopre con raccapriccio che il volto sotto la maschera della Morte è la copia perfetta del suo. Cercando di strappare la maschera a colui (o colei) che ritiene responsabile d’un macabro scherzo, il Demiurgo, a questo punto definibile come autolesionista, strappa la sua propria maschera. Mostro e Demiurgo coincidono.
Il mostro tecnologico.
Per il mostro tecnologico (robot, automa, cyborg, ecc.) conviene invece partire da un altro ordine di considerazioni.
Esso presuppone di comparire in un mondo in cui la tecnologia è già sviluppata e dominante (tale da essere ormai percepita come “naturale”) e di presentarvisi come proveniente da una tecnologia aliena, più avanzata. In altre parole, ha la funzione di restituirci coscienza d’un fatto (l’intrusione della tecnica non solo nelle nostre vite, ma nei nostri stessi corpi) che troppo spesso tendiamo a dimenticare.
Questa tecnologia aliena naturalmente viene da altrove, un altrove spaziale, geografico, ma più spesso temporale. Viene dal futuro. Anzi, il segno principale del suo essere tecnologia, e del suo essere aliena, sta proprio nella sua capacità di viaggiare a ritroso nel tempo, fino al nostro presente, con intenzioni a volte benevole, ma di solito malvagie.
Terminator viene dal futuro, per cambiare in bene o in male il passato, cioè il nostro presente. Svela l’ibridazione tecnologica del corpo, che non è esplicita, né di tipo meccanico (come nel classico robot), ma prodotto d’una contaminazione tra organico ed elettronico. Ancora una volta, con Deleuze, il corpo diventa non-organico, o organico solo in parte. E’ corpo-pelle, puro involucro, che si sfila come un guanto. Sfilandosi, la pelle rivela l’interno, cioè l’anima, che è fatta di neuroni e circuiti elettronici, appositamente programmati. Il cyborg esegue, non ha libero arbitrio, non sceglie – a meno che non si manifestino in lui residui patetici d’umanità, come accadeva al primo Terminator (modello vecchio!) rispetto al Terminator numero due.
Forse così viene prefigurato il nostro destino, l’esito futuro d’una metamorfosi già in atto. Sicuramente, anche le metropoli diventano spazi perduti, nei quali si aggirano creature elettroniche foderate in pelle, ibridi inquietanti. Metropoli come isole perdute, o potremmo dire: metropoli come isole delle anime perdute.