Saggi di cultura cinematografica, protesi verso il proprio altro, filosofia, semiologia, letteratura, politica, ecc., per (cercare di) inquadrare lo stato delle cose.
Bruce Lee Then and Now
By all accounts, in the 1970s, Bruce Lee was the very symbol of postcolonial, diasporic multicultural energy (Kato 2007; Miller 2000; Prashad 2001); the embodiment of what Rey Chow has called “the protestant ethnic” (Chow 2002; Nitta 2010). However, in the book From Tian’anmen to Times Square (2006), Gina Marchetti considers the waning of the affect of the socio-political charge of the image and politics of Bruce Lee in America. That is: although in the 1970s, Bruce Lee was this symbol of postcolonial, diasporic, multicultural “protestant ethnicity”, by the 1990s, the passions and problematics associated with diasporic Asian ethnicity had changed in status, form and content somewhat.
Un utile spunto d’analisi del rapporto cinema-paesaggio (come vedremo, specificamente quello pugliese) appare spostandosi dalla professionale categoria di “ambientazione” all’ambito critico che, sulle tracce del Pasolini teorico del cinema, è la sintassi del metalinguaggio: la rappresentazione cinematografica del mare, di una città, di un bosco ecc., non è la rappresentazione individualizzata del mare, di una città, di un bosco, bensì della loro funzione in un quadro – in movimento – che è un sistema di simboli analogici della figurazione (e lo stesso vale per le figure e le forme umane, per la loro gestualità, o i loro distinti tratti fisionomici, i loro linguaggi e il loro agire).
«Addio al mondo, ai ricordi del passato, ad un sogno mai sognato, ad un attimo d’amore che mai più ritornerà»
(Domenico Modugno, Vecchio Frac).
Sorelle mai di Marco Bellocchio e L’épine dans le Coeur (Una spina nel cuore) di Michel Gondry sono entrambe storie private e personali che arrivano ad abbracciare ben tre generazioni: zii, figli e nipoti. Composte da materiali eterogenei, attingono alla biografia dei rispettivi autori, e sono solo apparentemente “anomale” all’interno delle loro filmografie. Dal momento che, attraverso il documentario piuttosto che la fiction, la memoria o il sogno, l’invenzione o il repertorio, ambedue i film gridano (sottovoce) l’amore per l’arte del racconto.
Mick Jagger/Turner: «Senti questo. L’unica vera performance, quella che veramente inscena, e che lo fa in tutti i sensi, è quella che raggiunge la follia. Capito? Mi sono spiegato? Mi segui?».
Performance è un film dark, paranoico e alienante in cui si parla di identità e molteplicità, sesso e gender, droga e musica. Il trailer e i manifesti lo presentavano così: «This film is about madness. And sanity. Fantasy. And reality. Death. And life. Vice. And versa».
«Quando all’inferno non ci sarà più posto per loro, i morti cammineranno sulla Terra».
Dawn of the dead (Romero 1978).
«Bobby, siamo nel deserto, non c’è niente che viva qui!».
Le colline hanno gli occhi (Aja 2006).
Nessun genere cinematografico come l’horror sta affrontando negli ultimi anni una “riedizione” così massiccia e capillare. I remake hanno infatti coperto quasi tutti gli originali degli anni Settanta e Ottanta, ritornandoci a volte su addirittura con sequel, prequel e reboot. L’ultima casa a sinistra, Non aprite quella porta, Le colline hanno gli occhi, The Fog, Halloween, Dawn of the Dead e per ultimo Nightmare sono i modelli riportati in vita, per così dire, e adattati all’estetica nostalgica e ipertecnologica di inizio millennio.
Sebbene gli studi sulla teoria dei generi cinematografici siano relativamente recenti, l’effettivo raggruppamento in generi da parte del pubblico – ma anche di registi, produttori e dell’industria cinematografica in generale – ha origini più lontane, tanto che i generi filmici costituiscono una realtà radicata nella cultura e nel modo di pensare il cinema.
«Il concetto di genere è indispensabile in termini più strettamente sociali e psicologici come modalità per la formulazione dell’interazione fra cultura, pubblico, film e produttori cinematografici» (Tudor 1973, p. 8)1.
The Road (2009), il film di John Hillcoat, e, prima ancora, il romanzo di Cormac McCarthy da cui è tratto, rappresentano a nostro avviso un momento importante e per certi versi un punto di arrivo di un genere (o sottogenere), quello cosiddetto postapocalittico, che negli ultimi anni sembra vivere un seppur contenuto revival. Genere che ha in realtà dietro di sé una lunga tradizione tematico-narrativa sulla quale vale la pena di ritornare, anche perché la forza che ha questa storia di un Padre e di un Figlio in viaggio disperato attraverso un mondo sconvolto sembra derivare, almeno in parte, proprio dalla rivisitazione (e in un certo senso dalla messa a nudo) di una serie di motivi mitici profondamente radicati nella cultura occidentale.
Sempre più spesso si assiste a un’eccessiva semplificazione di teorie e ricerche operata paradossalmenete proprio da chi tali ricerche le conduce. In effetti, studiosi e teorici – e quelli che lavorano nell’ambito della teoria cinematografica non costituiscono un’eccezione – tendono a generalizzare l’ambito della loro ricerca fino a banalizzarla in modo da renderla più facilmente comprensibile al lettore amatoriale.
Nell’ambito della teoria cinematografica un numero sorprendentemente elevato di manuali presenta il passaggio e la trasformazione del cinema hollywoodiano da classico a postclassico, come se questi periodi fossero in netta opposizione o addirittura come se l’avvento dell’uno avesse determinato la morte dell’altro.