Certo, questa invasione delle prenotazioni telematiche (che ti mettono in uno stato parossistico d'ansia già mesi prima della Mostra); la nuova prassi delle file virtuali; la coartazione a stilare un programma di visioni giorni e giorni prima delle proiezioni, senza la possibilità di improvvisare, cambiare idea all'ultimo momento, lasciarsi sorprendere da un film inatteso, impensato ecc.; il disappunto di fronte al messaggio uno e trino sul telefonino, di sale esaurite - ma poi... arrivi in una sala data per gremita e ti accorgi che è quasi vuota (ad esempio non sono riuscito a vedere un solo film della SIC quest'anno: erano proiezioni inaccessiabili, ma anche lì, dice: molti posti vuoti) -; insomma tutto questo incrina l'idea che si aveva dei festival cinematografici fino a tre anni fa.
La Mostra è finita, oggi si scopriranno i Leoni di questa edizione 80 caratterizzata dallo sciopero a Hollywood che ha tenuto lontane dal Lido e dal suo Red carpet le tante star presenti sullo schermo, americane e non solo. Eppure le cose sono andate benissimo, il pubblico è risultato in aumento, e quello che fa davvero piacere è scoprirlo giovane e appassionato. Sul Lido dove splende un sole estivo è iniziato già da qualche giorno il rumore di valigie, il giardino del Quattro Fontane, luogo di incontro dell’Industry di produttori e tv si è svuotato, sui canali i barchini dei ragazzini di qui pompano musica techno comunque vada migliore della colonna sonora di fronte al Palazzo del cinema che ha accompagnato i pomeriggi di questi giorni.
Espressionismo e Neorealismo, un Neorealismo posteriore: lo stridore, l’urto derivanti dallo scontro di placche immaginifiche, figure a contrasto, secche soluzioni cromatiche, secrezioni d’audio che lasciano sul terreno dello scontro (sulla superficie del piano) lamiere taglienti, grondanti di iconoplasma, sagome tranciate di netto, fracasso di ferraglia; e la pietas di un cinema nudo, "povero", rastremato fino all’osso dell’esistere, fino a un’urgente essenzialità del segno; questo pare essere lo statuto proprio di Hokage (Shadow of Fire) di Shinya Tsukamoto, presentato nella sezione «Orizzonti» della Mostra di Venezia appena terminata.
(Trad. Giovanni Festa)
Il lucchetto viene rotto con un spranga, il legno che copriva la porta viene rimosso e il fienile si apre lentamente. Pochi secondi dopo la luce raggiunge il primo zombie, un contadino in tuta blu che ruggisce come un animale mentre fissa lo sguardo su quelli che aspettano fuori, e molti altri emergono dall'oscurità. Uno dopo l'altro, i mostri vengono abbattuti dagli spari degli umani. L'uccisione, se così si può chiamare, continua con totale normalità e termina in pochi secondi.
Una coppia viaggia in una jeep scoperta, nel mezzo della selva. Chiacchierano. Il meccanismo del campo e controcampo mi fa pensare a Marlowe-Bogart e Vivian-Bacall, anche loro in auto, nel Grande Sonno (1946) di Hawks. Ma la nostra coppia, che viaggia sulla strada malmessa di un'isola tropicale, sembra in cattive acque: dopo aver trovato la loro personale Key Largo nelle Filippine, è impegnata a fuggire da tutti quelli che dal "grande sonno" si sono appena svegliati: i morti viventi.
Il cinema, da sempre, è affascinato dall'apocalisse: non tanto come concetto che induce a un confronto con la fine – essenziale nella dialettica vita/morte, prima/dopo che si viene a instaurare con un dispositivo che registra immagini già “passate” nell'atto di essere filmate e quindi da riportare alla vita – quanto per la sua implicita capacità di farsi fonte di visioni.
(Trad. Giovanni Festa)
L'Occidente ha voluto liberarsi dei rifiuti e solo uno scarto poteva sostenere l'Occidente. Non diciamo l'umanità, ben lo sapeva Foucault, questa è un'invenzione kantiana, liberale, cioè occidentale. Non è nemmeno un chip, come lo conosciamo ora, è un maledetto rifiuto, una spazzatura spaziale, piccola, condensata, rugosa come una carta dentro la mano. Ti ricordi cos'era una carta? Perché so che a malapena ricordi cos'è una mano. È un rifiuto del quale si assicurarono che, perso nello spazio, almeno il suo percorso errante girasse a vuoto su un asse fittizio. Erra in loop, per la felicità dei suoi antenati.
«L'orrore è un sentimento assai energico; il corpo è in uno stato di estrema tensione,
quando pure non sia snervato dalla paura.»
(Sir C.Bell, Anatomy of Expression)
«Vidi un fabbro, ritto, colla bocca aperta, che divorava avidamente le storie d'un sarto»
(Shakespeare, Re Giovanni - atto IV, scena II)
Se per Ortega y Gasset «La biografia è un sistema nel quale le contraddizioni della vita umana trovano la loro unità» il documentario David Lynch the Art of Life (1) (2016) è la diretta manifestazione di questa citazione. Di fatto nel film il regista di Velluto Blu ricostruisce a braccio le diverse tappe della sua vita pre artistica.
HERVÉ GUIBERT/TABLE DE TRAVAIL "FANTÔMES", RUE DU MOULIN-VERT, N.D.
«Wir sind Fantome»
(Carl Einstein)
Connettere parola e immagine, su cui teorizzava Hervé Guibert caricando di segni quel luogo intermedio di gestazione dell’opera che si identifica, nonostante il vuoto, con il “traghettamento” tra essa e la scrittura, si lega alla percezione di un attraversamento del buio, di quello che Emanuele Trevi nell’introduzione a L’immagine fantasma definisce «spazio narrativo» mentre cita, oltre Nadja di André Breton, La camera chiara di Roland Barthes.
Alessandro Saturno, Piccola nuvola - 2021, acrilico e olio su tela, 30x50cm
Il testo è apparso nel catalogo della mostra monografica “Alessandro Saturno. Forme dell'Assenza”, a cura di Don Gianni Citro ed edito per le Edizioni C.R.E.A. La mostra è in corso fino al 9 settembre nel Palazzo Santa Maria, a Camerota, un borgo medioevale nel cuore del Cilento. Abbiamo pensato di aggiungerlo alla fine di un Dossier su Presenze e Morti che ritornano, come se le opere di Alessandro Saturno formassero gli ultimi frame, in dissolvenza continua, di questa nostra breve “storia di fantasmi per adulti”.
A volte, per cercare di avvicinarci a qualcosa di complesso, è utile cominciare servendosi di un'immagine semplice. A tutti noi sarà capitato di fare una gita in barca in una baia e, durante il tragitto, di sporgerci dal parapetto per scrutare il mare. All'inizio non vediamo altra cosa che il riflesso screziato dell'acqua, le venature verdi, blu scuro, gialle, che attraversano la superficie azzurra dove si deposita anche lo scuro bituminoso delle ombre. Poi, come un'immagine che si definisce nella lontananza, o nel ricordo, ecco apparire il nostro volto. Ma non come lo vediamo in uno specchio (conservando l'accezione "difettosa" della Lettera paolina): al contrario, i suoi contorni sono instabili, i tratti liquidi, i colori diversi, il volume diventa diafana trasparenza.