La condizione del soggetto contemporaneo è quella di essere connesso ad una serie di dispositivi desideranti e manipolatori, interfacce di simulazione integrale che articolano e riformulano tutte quelle relazioni capaci di determinare il suo essere nel mondo(come scrivono Deleuze e Guattari all’inizio de L’Anti-Edipo, siamo circondati in ogni parte da macchine, e non metaforicamente: macchine di macchine con i loro accoppiamenti e connessioni).
Kafka può essere considerato come un episodio singolare, quasi un corpo estraneo all’interno della filmografia di Steven Soderbergh. Se il successo di Sex Lies & Videotape, con il formidabile debutto al Festival di Sundance e la definitiva consacrazione con la Palma d’Oro di Cannes, rivelò un nuovo auteur di cinema indipendente USA, il secondo lungometraggio del cineasta fu, per molti dei suoi fan, un’esperienza sconcertante. Un alone di incomprensione, che prese la forma di un distaccato apprezzamento dei suoi meriti parziali o, addirittura, di disdegno, circondò subito il film che, stando al botteghino e all’accoglienza della critica, si crederebbe quasi un passo falso. Se la sua opera prima venne celebrata come una pietra miliare di indipendenza cinematografica che decretò un successo cross-over, capace di avere la stessa risonanza nelle sale d’essai e nei multisala, Kafka si assestò subito come opera rarefatta, incline ad essere saltata a piè pari nelle valutazioni a posteriori della filmografia del regista.
Il gioco, i giochi. Non occorre scomodare Roger Callois per riconoscere il potere del gioco come messa in forma del mondo, come possibilità di metterlo in gioco appunto, di inventarne le regole, di fronte ad un reale che per quanti sforzi si facciano si mostra sempre più evanescente, inafferrabile.
«Solo studiando i morti, si
progredisce nella conoscenza dei vivi.»
Nella serialità, dunque, sembra concentrarsi l’ultima frontiera del racconto cinematografico – ma basta fare i nomi di Steven Soderbergh, Edgar Reitz, David Lynch, e di pochi altri, per capire che c’è dell’altro. A ognuno il suo altro.
Tra le serie TV di successo, The Knick è la sola (che io sappia) per la quale, dopo due stagioni, alla fine si è dovuto rinunciare alla terza. Il personaggio protagonista infatti (parlo del dottor John Thackery, primario chirurgo all’ospedale Knickerbocker di New York ai primi del '900) muore nell’ultima puntata della seconda stagione, operando se stesso in anestesia locale, e sarebbe stato difficile resuscitarlo, o contentarsi di seguire i casi degli altri personaggi (medici, pazienti, infermiere, amministratori …). La serie diretta da Soderbergh insomma, benché termini con la minaccia o l’annuncio di un'epidemia, assume man mano l'andamento d'un profilo biografico (ispirato alla figura reale del dottor William Stewart Halsstead), racconta la sua storia o vi si ispira, e ogni biografia, come si sa, termina prima o poi (se sufficientemente protratta) con la morte del suo protagonista.
«Quando la visione tende a non distinguersi più dal visto o dal visibile, è come se l’occhio toccasse la cosa stessa.»
Jacques Derrida Toccare, Jean-Luc Nancy
Nel buio della moviola al Centro Sperimentale di Cinematografia, tanti anni fa, ricordo una montatrice mitica, Jolanda Benvenuti, le sue mani che passavano e ripassavano la pellicola erano coperte da guanti. Quelle mani avevano toccato i fotogrammi di Roma città aperta, di Paisà, di Europa 51. Quelle mani guantate paradossalmente trasmettevano un contagio, il contagio delle immagini. Contagio che fa assonanza con montaggio. Il montaggio trasmette e risale. Per contatto. E con-tagio deriva da tangere, toccare, con-tactus.