Kafka può essere considerato come un episodio singolare, quasi un corpo estraneo all’interno della filmografia di Steven Soderbergh. Se il successo di Sex Lies & Videotape, con il formidabile debutto al Festival di Sundance e la definitiva consacrazione con la Palma d’Oro di Cannes, rivelò un nuovo auteur di cinema indipendente USA, il secondo lungometraggio del cineasta fu, per molti dei suoi fan, un’esperienza sconcertante. Un alone di incomprensione, che prese la forma di un distaccato apprezzamento dei suoi meriti parziali o, addirittura, di disdegno, circondò subito il film che, stando al botteghino e all’accoglienza della critica, si crederebbe quasi un passo falso. Se la sua opera prima venne celebrata come una pietra miliare di indipendenza cinematografica che decretò un successo cross-over, capace di avere la stessa risonanza nelle sale d’essai e nei multisala, Kafka si assestò subito come opera rarefatta, incline ad essere saltata a piè pari nelle valutazioni a posteriori della filmografia del regista.

Lungi dal continuare su binari consolidati e graditi agli Studios, quello che Soderbergh tentò, assumendosi una notevole dose di rischio, fu un’operazione diversa e audace. L’anomalia del risultato ne raddoppia l’interesse e, ancor di più, può fornire alcune chiavi di lettura della sua intera opera. Un’opera che, bisogna ammetterlo, possiede un certo grado di stranezza.
Come suo secondo lungometraggio Soderbergh aveva pensato di realizzare un altro progetto, The Last Ship, basato sull’omonimo romanzo di William Brinkley, che affrontava uno dei nuclei della fiction paranoica del XX secolo, l’olocausto nucleare e le sue derivazioni distopiche. Il film, che sarebbe stato prodotto da Sidney Pollack, avrebbe potuto contare su una produzione di proporzioni assai differenti da quella del film precedente. Il fantasma di Kafka, però, aleggiava da tempo. Nel 1985, prima di iniziare il suo primo film, il regista aveva letto una sceneggiatura di Lem Dobbs intitolata, appunto, Kafka. A metà tra un assai libero biopic sullo scrittore e una immersione nei frammenti di numerosi racconti kafkiani, questa sceneggiatura avrebbe costituito, dopo l’abbandono di The Last Ship, il punto di partenza del suo secondo film, e l’inizio di una collaborazione con Dobbs che sarebbe proseguita, intervallata e reiterata, con The Limey (2001) e Haywire (2011).
La sceneggiatura originale di Dobbs possedeva elementi di finzione elaborati a partire dalla biografia di Franz Kafka (il lavoro nella compagnia di assicurazioni; le sue relazioni sentimentali con Milena Jesenska e Felice Bauer, l’amicizia con Max Brod e il conflitto con l’autorità paterna), e da diverse sue opere, specialmente i romanzi Il processo e Il castello e racconti come Preparativi di nozze in campagna. Soderbergh rielaborò lo script decidendo di concentrarsi maggiormente sul secondo aspetto, attenuando i riferimenti biografici e forzando la dimensione finzionale molto più in là delle obbligazioni proprie all’adattamento, per delineare un metaracconto kafkiano dove gli episodi frammentari tratti dalle opere transcorrono dentro quelli della vita dello scrittore convertito nel protagonista di un thriller.
Tutto questo servì, però, solo come punto di partenza per una costruzione più inglobante, che legava l’universo di Kafka con un bricolage cinematografico eterodosso, nutrito di fonti europee e americane diverse, e capace di ergersi come un vero e proprio colloquio cinematografico di sapore kafkiano, capace, nello stesso tempo, di tendere al massimo tutte queste implicazioni.



Con il trascorrere del tempo, a parte alcune eccezioni, Kafka fu relegato allo stato di rispettabile capriccio nella filmografia soderberghiana, senza poter aspirare nè all’aura discreta del film da riscattare nè, tanto meno, a quella di film di culto. In termini generali, il film si affaccia timidamente in qualche nota a margine dei resoconti critici della già lunga traiettoria del regista. Quando uscì, fu impossibile comprenderlo come una affermazione autoriale congruente con Sex, lies & Videotape. D’altro canto, per qualsiasi kafkiano ortodosso, il mix di biografia e finzione, lo spostamento continuo fra l’aderenza ai racconti originali e l’immersione in un thriller paranoico e eccessivo per i canoni dell’impassibilità kafkiana, era smodatamente provocatorio. Come se non bastasse, a differenza di quell’opera prima che aveva eretto un ponte fra le art houses e i multisala del cinema commerciale, Kafka faceva esplodere questo stesso ponte utilizzando uno stile audiovisuale artie con reminiscenze non solo dell’espressionismo tedesco ma anche del cinema B-movie, fino a un certo tocco pulp nel suo climax. Si trattava di un film che non rientrava in nessuno schema. Ovviamente, il punto di partenza era Kafka, però lì si incontravano il Fritz Lang di M e di Mabuse, l’Orson Welles di The Trial, il Carol Reed di The Third Man, e finanche l’Howard Hawks di His Girl Friday. Per dar conto di questa sfuggente esperienza trasnsgenerica che è Kafka, bisogna sottolineare come il film riesca a spostarsi agilmente dal thriller al film horror, aggiungendo un tocco di fantascienza, prendendo forma nel clima cospirativo e di pericolo fisico di un Sensationfilm del cinema muto tedesco, senza disdegnare la screwball comedy (fra gli altri generi). O, meglio, li tiene in conto, solo, però, per meglio attraversarli. È per questo che Soderbergh dichiarava di essersi ispirato non solo ai film di Lang ma anche a quelli di Hawks, per i dialoghi overlapping e la caratterizzazione del personaggio di Gabriella (Theresa Russell) che, come anarchica e donna non è kafkiana ma inequivocabilmente hawksiana. Di modo che in Kafka la sovrapposizione non appartiene solo ai dialoghi, ma anche ai generi, che permettono al film di scivolare da un ambito e registro all’altro, trasformando ad ogni passo l’orizzonte di aspettative dello spettatore.
Kafka presenta, all’interno della sua stessa struttura dissimile, una caratteristica che attraversa l’intera filmografia del regista. I film di Soderbergh (ha scritto da qualche parte Ivo Ritzer), fanno parte di un cinema della disparità. Nella loro stessa inconsistenza ottengono una propria congruenza. Attraverso temi e opzioni divergenti, vengono tracciate consonanze. Se la forma di Kafka è quella di un thriller cosciente di essere nello stesso tempo un sofisticato oggetto artistico, non lo è separando il suo elaborato stile cinematografico dalla sua intricata narrazione, ma tracciando connessioni tanto bizzarre quanto efficaci fra entrambi i livelli.
Dopo l’uscita fu luogo comune, da parte di una certa critica, considerare il film come un risultato stilistico ostacolato da una matassa narrativa che, alla fine, faceva trascolorare l’ammirazione in una certa frustazione. Lo stesso Lem Dobbs manifestò qualche riserva a proposito del film terminato. Una visione senza pregiudizi mostra, invece, aspetti che ne fanno un’ opera centrale per una valutazione d’ insieme del cinema di Soderbergh.
Ai tempi dell’uscita del film (nonostante questo possa estendersi al resto della sua produzione), Steven Soderbergh rivendicava come caratteristico del suo temperamento la predominanza di un pessimismo culturale che considerava patrimonio più europeo che nordamericano. Nello stesso tempo ci avvertiva che non era conveniente prendere Kafka troppo sul serio. Ma sarebbe meglio concordare sul fatto che quello di cui si trattava era di non prenderlo con troppa solennità, nonostante la massima serietà riguardo all'impegno assunto. È opportuno sottolineare come lo humor nei film di Soderbergh si presenta in maniera analoga a quello kafkiano, ossia negli interstizi di un presunto pietismo o adustezza. Il registro attoriale di Jeremy Irons, interprete di Kafka nel film, è eccellente rappresentante di questa apertura a uno humor che non è altra cosa che una reazione di resistenza e di paragone con una stranezza radicale. Nel Kafka di Soderbergh, come nelle finzioni kafkiane, si verifica quella premessa dello scrittore che raccomandava di scrivere nella propria lingua come in una lingua straniera. In questo film Soderbergh scivola attraverso un universo di forme cinematografiche (espressionismo, thriller, horror, fantascienza, fra le altre) che rivelano la stranezza costitutiva della propria condizione di artificio e quell’altra stranezza che sorge dal conflitto e convivenza nella costruzione di questo strano artefatto che è il film.



Si tratta, allora, di abitare il cinema proprio come un corpo estraneo, che possiede i contorni di un labirinto complesso. È doveroso ripeterlo di fronte a tanto biasimo mascherato da discorso critico: Kafka non tratta nè di uno scrittore nè di un mondo letterario, ma elabora un personale schematismo angoscioso costruito a partire dalla biografia e dai romanzi di Kafka, e che però punta, con l’intervento di un nutrito e vario immaginario cinematografico, a una visione tenebrosa e inglobante, che non è che un sogno oscuro del XX secolo, la cui estensione abbraccia Europa e America. Sarebbe erroneo pensare al film come ad una semplice incursione europea da parte del nordamericano Soderbergh, nonostante le sue location, i suoi riferimenti letterari e il suo elenco di star. Quello che Kafka costruisce è un territorio cinematografico che mira a rappresentare un mondo concentrazionario inteso come evoluzione inesorabile della macchina burocratica, che è di portata globale. Girato durante la maggior parte del tempo, negli studi Barrandov e negli esterni di Praga, il film si impone allo spettatore con l’irresistibile atmosfera di una misteriosa città europea, rafforzata dalla percussione del cimbalom ungaro, con il suo tono di lamento e fantasticheria. Se la musica di Cliff Martinez ricorda, da un lato, la cetra di Anton Karas in The Third Man, dall’altro converte i vicoli di questa Praga notturna in cammino verso un portale che permette di accedere a un altro mondo, quello della spaventosa verità del castello con il suo delirio di controllo biopolitico di corpo e mente. Ed è qui che ci si imbatte in uno dei motivi maggioritari del cinema di Soderbergh: quello di un mondo sconnesso e ingannevole che occulta un terribile segreto, cui a un certo personaggio è dato accedere.
L’espressionismo di Kafka non riguarda solamente questioni di stile visuale, ma si incorpora all’immaginario del cinema tedesco degli anni Venti. Nel cuore del cinema di Weimar e delle sue diverse declinazioni, soggiacciono fantasmi relativi al controllo, sia a scala sociale che individuale. Soderbergh ricorre a questo punto di convergenza e la sua rilettura dell’espressionismo e dintorni si riferisce non tanto alle derivazioni che portano al film noir, ma a quelle varianti anteriori, proprie del horror film di certe narrazioni tese fra il poliziesco e la fantascienza di serie B, che sono le weird tales del cinema nordamericano degli anni Trenta. È da lì che proviene, tanto o più che dall’espressionismo, la referenza ad Orlac, come anche il modello delle sale operatorie, il laboratorio e il microscopio gigante che si trova nell’epicentro del segreto occultato nel Castello. Durante i quindici minuti di Kafka che si svolgono a colori, il cui cromatismo, lungi dal riferirsi a un criterio realistico, sembra rafforzare con le sue tinte artificiali il carattere di Sensationfilm che percorre tutta la sequenza, Praga, con i suoi luoghi saturi di risonanze kafkiane, viene sostituita da uno spazio in cui il riconoscibile e l'ignoto si combinano nel loro aspetto più terrificante.

Il segreto nascosto dietro il passaggio si svolge, all'interno del castello, attraverso l'irruzione del mostruoso come un incubo pienamente visibile e udibile. Corpi, oggetti, scenografia e fotografia concorrono alla messa in scena di un orrore finalmente svelato. Il dott. Murnau nel suo laboratorio, chirurgicamente e grazie al suo mostruoso microscopio, cerca di ottenere la conoscenza assoluta della mente dei suoi pazienti, per poi esercitare un controllo totale sui loro comportamenti. Una richiesta di controllo che esplicitamente, come avverte Kafka, deriva dalle esigenze della stessa modernità scientifica. Controllo che viene esercitato sull'intimo di ogni individuo e, nello stesso tempo è estendibile alla condotta di massa. L'incubo oscuramente sognato dallo scrittore è diventato l’esperimento reale dello scienziato: un orrore non metafisico ma insopportabilmente psico-fisico e di portata tecno-sociale. Il confronto con il terrore che si trova nel castello di Kafka ci ricorda che, a partire dalle finzioni dello scrittore ceco, un filosofo anch’egli di Praga, Vilèm Flusser, delineò, mezzo secolo fa, ciò che egli definì come il “dispositivo”. Non si trattava di un artefatto tecnologico, ma di una formazione caratteristica del XX secolo, composta dall'ibridazione di elementi tecnologici e da un modo di organizzazione sociale, che aveva come soggetto un particolare tipo di personaggio, che definì come “funzionario”.
Secondo Flusser, il suo era il secolo dei dispositivi. Il soggetto designato come funzionario, chiariva Fussler, è di proprietà esclusiva del dispositivo. E il dott. Murnau, nonostante le sue aspirazioni mabusiane, non è altro che un funzionario perfezionato per la messa a punto di uno strumento di controllo che, trascendendolo, tende ad essere totale. Questo dispositivo nel senso flusseriano, e la sua dimensione di artefatto mostruoso, si condensano nel multischermo di Murnau, le cui dimensioni sono offerte all'esame accurato di un Kafka attonito. A differenza del Panopticon di Bentham, che era un dispositivo costruito per vedere (anche se ipoteticamente) tutti - tutto il tempo, il mostro installato nel castello offre la pretesa di vedere tutto ciò che è possibile all'interno di ognuno.
Nel pieno parossismo di una persecuzione tra Kafka e i suoi avversari, che sembra imitare quelle di alcuni thriller hitchcockiani con la sfida alla stessa legge di gravità, attraverso giganteschi cristalli si vede palpitare un cervello esposto e poi un occhio, che condividono entrambi il rosso del sangue sulla superficie. All'interno della mente, l'occhio onnipresente: una versione macchinica e quasi delirante della visione come potenza di controllo.
Nel centro del labirinto si produce la battaglia che conduce ad un modico e parziale trionfo dello scrittore, già diventato eroe paradossale, attraverso una lotta nel cuore dell'incubo. Il mostro si spezza e crolla, Kafka sopravvive. Verso la fine del film, ritornato agli esterni e al bianco e nero, lo scrittore sembra finalmente assimilarsi, in una Praga ancora magica dopo aver attraversato il passage che lo ha portato al nucleo segreto e maligno della modernità, ad una società che in nessun modo promette che il delirio del dottor Murnau termini con la sua morte.
Al contrario l'apparato sembra ormai pronto, al di là del crollo di un particolare laboratorio, a lasciar emergere in qualsiasi momento i suoi perfezionati sostituti. Qualcuno potrebbe però scommettere che lo scrittore seguirà ancora con i suoi incubi inquietanti, e i suoi scritti non cesseranno, anche se è il primo a sentirsi a disagio di fronte alla loro evidenza. La tensione tra resistenza, combattimento e assimilazione porta ad elevare lo zigzag o la deviazione a strategia fondamentale di sopravvivenza. È difficile non pensare, prima di questo scioglimento, alla logica stessa dell’itinerario del cinema di Soderbergh, di cui questo film sembra costituire un frammento frattale e altamente significativo.

Kafka tiende a ser considerada como una rareza, casi un cuerpo extraño en la filmografía de Steven Soderbergh. Así como el suceso de Sex Lies & Videotape, con su debut estelar en el Festival de Sundance y su consagración con la Palma de Oro en Cannes, reveló un nuevo y estelar auteur en el cine independiente norteamericano, el segundo largometraje del cineasta fue para muchos de sus seguidores una experiencia al menos desconcertante. Un halo de incomprensión, a veces de fría apreciación de méritos parciales o hasta de desdén rodeó la recepción de un film que desde la taquilla o la reputación crítica cabría considerar casi como un paso en falso. Si su opera prima había sido celebrada como un hito de independencia cinematográfica que configuró un éxito cross-over, de igual resonancia en las salas de arte y ensayo como las pantallas de los circuitos comerciales, Kafka se instaló como un film enrarecido, proclive a ser salteado en las evaluaciones de conjunto respecto de su carrera. Lejos de progresar en un camino previsto y especialmente saludado por la industria, lo que allí Soderbergh ensayó fue una exploración distinta y no menos audaz, asumiendo un notable grado de riesgo. La anomalía del resultado redobla su interés y, más aún, puede brindar algunas claves sobre su producción en conjunto. Una producción que, hay que admitirlo, posee su cuota de extrañeza.

Como segundo largometraje, Soderbergh había planteado inicialmente otro proyecto, The Last Ship, basado en la novela homónima de William Brinkley, cuya ficción lidiaba con uno de los núcleos de la ficción paranoide del siglo XX: el holocausto nuclear y sus derivaciones distópicas. La película, que sería producida por Sidney Pollack, iba a contar con una escala de producción de envergadura, muy diferente a la de Sex, Lies & Videotape. Pero para entonces ya el fantasma de Kafka se había interpuesto. En 1985, antes de filmar su primer largo, el cineasta había leído un guion de Lem Dobbs titulado Kafka. A medio camino entre una muy libre biopic del escritor y de la inmersión en fragmentos de varios relatos kafkianos, ese guion constituiría, abandono de The Last Ship mediante, el punto de partida de su segunda película y el inicio de una colaboración entre ambos que continuaría, espaciada pero reincidente, con The Limey (2001) y Haywire (2011).
El guion original de Dobbs poseía elementos ficcionales elaborados a partir de la biografía de Franz Kafka (su trabajo en la compañía de seguros, sus relaciones sentimentales con Milena Jesenska y Felice Bauer, la amistad con Max Brod o el conflicto con la autoridad paterna) y de varios de sus relatos, especialmente las novelas El proceso y El castillo y cuentos como Preparación de una boda en el campo. Soderbergh reelaboró el escrito y se inclinó por desarrollar más el segundo aspecto, atenuando las referencias biográficas y desplegando las ficciones más allá de las obligaciones propias de la adaptación, para delinear un metarrelato kafkiano cuyos episodios transcurren entre episodios de la vida de un escritor convertido en protagonista de un thriller y algunos fragmentos de sus ficciones. Lo anterior, de todos modos, ofició sólo como punto de partida de una construcción más abarcativa, que ligó al universo de Kafka con un bricolage cinematográfico heterodoxo, que se nutre de fuentes europeas y americanas diversas, para erigirse como un verdadero coloquio cinematográfico de tinte kafkiano, pero dispuesto a tensar al máximo sus implicaciones.

Con el paso del tiempo, salvo excepciones, Kafka fue relegado a un estado de respetable rareza en la filmografía de Soderbergh, sin aspirar al discreto halo de film a rescatar, menos aún a film de culto. Por lo general, asoma tímidamente por alguna acotación parcial en los recuentos críticos de la ya extensa trayectoria del director. Cuando su estreno, fue imposible asirla como una afirmación autoral congruente con Sex, Lies & Videotape. Por otra parte, para cualquier kafkiano ortodoxo, la mixtura de biografía y ficción, el desplazamiento entre la remisión a los relatos originales y la zambullida en un thriller paranoico y excesivo para la impasibilidad kafkiana fue demasiado provocativa. Para colmo, al contrario de aquella opera prima que había tendido un puente entre las art houses y las salas de cine comerciales, Kafka hacía estallar esos puentes con un estilo audiovisual artie pero con reminiscencias no sólo del expresionismo alemán sino de la clase B y hasta cierto toque pulp en su climax. Evidentemente era una película que no encajaba en previsión alguna. Por cierto, partía de Kafka, pero allí se encontraban el Fritz Lang de M y de Mabuse, el Orson Welles de The Trial, el Carol Reed de El tercer hombre, entre otros, y hasta insólitamente el Howard Hawks de His Girl Friday. Para dar cuenta de esta movediza experiencia transgenérica que es Kafka, cabe resaltar que se desplaza del thriller al horror film con un componente de ciencia ficción, transcurre en el clima conspirativo y el peligro físico de un Sensationfilm del cine silente alemán y no desdeña la comedia lunática, entre otros marcos. Más bien los toma muy en cuenta, pero para mejor atravesarlos. De allí que Soderbergh resaltaba que tanto como en los films de Lang se había inspirado en los de Hawks, con sus diálogos overlapping y hasta el perfil del personaje de Gabriella (Theresa Russell), que como anarquista y mujer no es kafkiana sino inequívocamente hawksiana. De modo que en Kafka el solapamiento no es solamente propio de los diálogos, sino también de los géneros, que hacen al film desplazarse de un ámbito y registro al otro, transformando a cada paso el horizonte de expectativas de su espectador.

Kafka presenta, en su misma estructura disímil, una característica que atraviesa entera la filmografía del cineasta. Las películas de Soderbergh, señaló alguna vez Ivo Ritzer, forman parte de un cine de la disparidad. En su propia inconsistencia obtienen su congruencia. A través de sus temas y opciones divergentes se trazan sus consonancias. Si la forma de Kafka es la de un thriller conciente de ser a la vez un sofisticado objeto artístico, no lo es divorciando su elaborado estilo cinematográfico de su intrincada narración, sino trazando conexiones tan extrañas como efectivas en ambos niveles. Ante el estreno del film, fue un lugar común en cuanto a su recepción crítica el considerarlo como un logro estilístico obstaculizado por una maraña narrativa que, en último término, conducía de la admiración a cierta frustración. El mismo Lem Dobbs manifestó sus reservas respecto a la película terminada. Pero el caso es que una visión desprejuiciada de Kafka muestra aspectos que lo hacen central para una apreciación de conjunto del cine de Soderbergh.

En tiempos del estreno de Kafka, aunque la condición puede extenderse al resto de su carrera, Steven Soderbergh reclamaba como propio de su ánimo cierta predominancia de un pesimismo cultural que consideraba un patrimonio más europeo que norteamericano. A la vez, advertía que era conveniente no tomar a Kafka muy en serio. Pero sería mejor convenir que de lo que se trataba era de no tomarlo con gravedad, aunque sí era pertinente la mayor seriedad en cuanto al compromiso asumido. Es preciso resaltar que el humor en los films de Soderbergh asoma en ese mismo aspecto que el kafkiano, en los intersticios de un presunto patetismo o adustez. El registro actoral de Jeremy Irons interpretando a Kafka en el film es cabal representante de esta apertura a un humor que no es otra cosa que una reacción de resistencia y de confrontación con una radical extrañeza. En el Kafka de Soderbergh, como en las ficciones kafkianas, se verifica aquella premisa del escritor que recomendaba escribir en la propia lengua como en una lengua extraña. En este film, Soderbergh se desliza por un universo de referencias cinematográficas (expresionismo, thriller, terror, scifi, entre otras) admitiendo la extrañeza constitutiva de su condición de artificio, y aquella otra extrañeza que surge de su choque y convivencia en la construcción de ese raro artefacto que es la película. Se trata, entonces, de habitar el cine propio como un cine extraño, con los contornos de un complejo laberinto.

Es preciso reiterarlo ante tanto reclamo apenas encubierto de discurso crítico: Kafka no trata de un escritor ni de un mundo literario, sino que arma su propia construcción pesadillesca, inventada desde la biografía y las novelas de Kafka, pero que apunta, con la intervención de un nutrido y diverso imaginario cinematográfico, a una visión tenebrosa y abarcativa, que no es otra que un sueño oscuro del siglo XX cuya extensión abarca a Europa y América. Sería erróneo pensar al film como una incursión europea del norteamericano Soderbergh, aunque sus locaciones, sus referencias literarias y su elenco multiestelar inclinen a considerarlo así. Lo que Kafka construye es un territorio cinematográfico que apunta a avistar un mundo concentracionario como evolución inexorable de la maquinaria burocrática, que es de alcance global. Por supuesto, filmada en los estudios Barrandov y en exteriores de Praga durante la mayor parte de su transcurso, se impone ante el espectador la irresistible atmósfera de una misteriosa ciudad europea, reforzada por la percusión del cimbalon húngaro, con su aire de lamento y ensoñación. Pero si la música de Cliff Martínez, por una parte, remite obviamente a la cítara de Anton Karas en The Third Man, por otra convierte a las callejuelas de esa Praga nocturna en el camino a un portal que permite acceder a ese otro mundo, el de la aterradora verdad del castillo con su delirio de control biopolítico de cuerpos y mentes. Y aquí nos encontramos con un motivo mayor del cine de Soderbergh: el de un mundo abigarrado y engañoso que oculta un terrible secreto, al que a cierto personaje le es dado acceder.

El expresionismo en Kafka no remite solamente a cuestiones de estilo visual, sino que se incorpora al imaginario del cine alemán de los años veinte. En el centro del cine de Weimar y sus distintas vertientes subyacen fantasmas en torno al control, sea a escala social o individual. Soderbergh recurre a ese punto de convergencia y su relectura del expresionismo y aledaños, no tanto en sus derivaciones hacia el film noir, sino en aquellas anteriores, propias del horror film y ciertas ficciones entre lo policial y la ciencia ficción de clase B. Los Weird Tales de los años treinta del cine norteamericano. De allí viene, tanto o más que del expresionismo, la referencia a Orlac, como también el diseño de los quirófanos, el laboratorio y el microscopio gigante que se localiza en el epicentro del secreto oculto en el Castillo. Durante los quince minutos de Kafka que transcurren en color, cuyo cromatismo, lejos de remitir a un criterio realista, parece reforzar con sus tintes artificiales el carácter de Sensationfilm que atraviesa toda la secuencia, el protagonismo provisto por las locaciones de Praga y sus resonancias kafkianas son reemplazados por un ámbito donde se conjugan lo reconocible y lo desconocido, en su faz más aterrorizadora. El secreto oculto tras el pasaje se despliega, en el interior del castillo, por medio de la irrupción de lo monstruoso como pesadilla plenamente visible y audible. Cuerpos, objetos, escenografía y fotografía concurren en la puesta en escena de un horror por fin revelado. El Dr. Murnau busca en su laboratorio, quirúrgicamente y a través de su monstruoso microscopio, el conocimiento absoluto de la mente de sus examinados, y a través de ello persigue también el control total de sus conductas. Una demanda de control que explícitamente, tal como lo advierte a Kafka, proviene de las exigencias de su propia modernidad científica. Control que se ejerce sobre lo íntimo a cada individuo y a la vez es extensible al de la conducta de una masa. La pesadilla oscuramente soñada por el escritor se ha convertido en el experimento real del científico: un horror que no es metafísico sino insoportablemente psíquico y físico, y de alcance tecnosocial.

La confrontación con el terror que reside en el castillo de Kafka nos recuerda que partir de las ficciones del escritor checo, un filósofo también procedente de Praga, Vilém Flusser, delineó, hace ya medio siglo, sus desarrollos sobre aquello que designó como el aparato. No se trataba de un artefacto tecnológico, sino de una formación característica del siglo XX, compuesta por la hibridación de elementos de la técnica y de un modo de organización social, que tenía como sujeto propio a un tipo peculiar de personaje, que denominó como funcionario. Para Flusser, su siglo era un siglo de aparatos. Ese sujeto designado como funcionario, aclaraba Flusser, es propiedad del aparato. Y el Dr. Murnau, a pesar de su aspiración mabusiana, no es más que un funcionario perfeccionado para la puesta a punto de un control que, trascendiéndolo, tiende a ser total. Ese aparato en sentido flusseriano y su dimensión de artefacto monstruoso se condensan en el megavisor de Murnau, cuyas dimensiones se ofrecen al escrutinio de un azorado Kafka. A diferencia del panóptico de Bentham, de ese dispositivo para ver (aunque sea hipotéticamente) a todos, todo el tiempo, el monstruo instalado en el castillo ofrece la pretensión de ver todo lo posible dentro de cada uno. En pleno paroxismo de una persecución entre Kafka y sus contrincantes, que parece remedar las de algunos thrillers hitchcockianos con su desafío a la misma ley de la gravedad, a través de sus cristales gigantescos se ve palpitar un cerebro expuesto, luego un ojo, compartiendo ambos el rojo de la sangre en la superficie. Dentro de la mente, el ojo omnipresente: una versión maquínica y cuasidelirante de la visión como potencia de control. En el centro del laberinto se produce el combate que conduce a un módico y parcial triunfo del escritor, ya devenido héroe paradójico, de un combate en el seno de la pesadilla. El monstruo se resquebraja y se derrumba, Kafka sobrevive. Hacia el final del film, vuelto al exterior y al blanco y negro, el escritor parece finalmente asimilarse, en una Praga aún mágica luego de haber atravesado el pasaje que lo llevó al núcleo secreto y maligno de la modernidad, a una sociedad que de ninguna manera promete que el delirio del Dr. Murnau culmine con su muerte. Más bien el aparato parece, más allá del derrumbe de un laboratorio particular, preparado para dejar emerger en cualquier otra oportunidad sus perfeccionados reemplazantes. Pero uno podría apostar a que el escritor seguirá teniendo sus pesadillas inquietantes, y los escritos no cesarán por más que él sea el primer incómodo ante su evidencia. La tensión entre resistencia, combate y asimilación lleva a elevar el zigzagueo o el rodeo a estrategia fundamental de sobrevivencia. Es difícil no pensar, ante ese desenlace, en la lógica del mismo itinerario del cine de Soderbergh, del cual esta película parece constituir un segmento fractal y altamente significativo.

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