Nel tempo della fine una certa etnografia si mobilita contro la guerra planetaria. Operazione inattuale dello sguardo accecato dalla passione per le immagini che rischia l’estinzione nella pulsione genocida che presenta l’inconscio del mondo.
In un’intervista intitolata significativamente Travail-amour-cinéma, Godard rivela: «Gli amici ogni tanto mi dicono: eppure il cinema non è la vita... Ma in certi momenti può sostituirla, come una fotografia, come un ricordo. E poi, io non faccio una tale differenza tra i film e la vita, direi anzi che i film mi aiutano a vivere. Ecco perché c'è anche la vita nel titolo del film».
Il giovedì sera partecipavamo, nel vecchio auditorium di Radio Sutatenza, alle proiezioni del Cine club della Procuraduría General de la República, da cui ero riuscito a farmi assumere come coordinatore per pochi pesos, che mi aiutavano a coprire le spese irrisorie di un cinefilo single. Grazie a questo lavoro passeggero, avevo già ottemperato alla mia quota di pubblico impiego, e a conoscere molto parzialmente i circuiti, le deviazioni e le scorciatoie che di solito hanno le risorse dello Stato.
Figura e struttura del doppelgänger
Cominciamo con l'indurre un sospetto: la questione del doppio mantiene una relazione oscura e cruciale con il cinema. Sebbene sia possibile incontrare doppi in racconti orali o scritti di numerose culture, o è possibile vederli prosperare in altre forme di creazione di immagini come la pittura o la fotografia, i doppi sembrano attivarsi con particolare enfasi quando arriva il momento della loro apparizione ed evoluzione sullo schermo cinematografico. Il doppio come presenza assillante, ingannevole, ammonitrice, persecutoria, fatalmente impersonante, spesso richiede l'assistenza del potere mimetico dell'immagine. E quella prodotta dal cinema gli risulta particolarmente efficace.
Quando si affronta il tema del doppio in racconti e immagini, uno dei modi di approccio più frequenti consiste nell'affrontarlo come figura chiaramente riconoscibile e ricorrente lungo la storia delle finzioni letterarie e poi cinematografiche. Senza dubbio, si tratta di un leitmotiv che nel cinema ritorna sempre di nuovo all'interno di diversi generi dalla commedia al thriller, alla fantascienza e, per le sue peculiari implicazioni, è abituato a stabilirsi con una certa preferenza nel cinema fantastico e horror. Affrontare il doppio in questo modo tende a rastrellare e confrontare alcuni casi celebri sullo schermo, obbligatoriamente legati alle loro fonti o corrispondenze nel campo letterario, ogni volta che la situazione lo consente. Si tratta di un approccio lecito, anche se forse utilizzato con troppa frequenza. Quello che proveremo qui è tentare di lavorare in un'altra direzione: esploreremo alcuni momenti significativi, approfondendo un certo terreno comune che mette in evidenza le diverse manifestazioni del doppio nel cinema e di un doppio del cinema, per trovare alcune strutture chiave all'interno di ciò che potremmo considerare, in senso lato, un'antropologia del cinematografico.
Doppi antichi e moderni
Siccome allude a un certo nucleo immaginario che il cinema sfrutterà in modo radicale, è inevitabile riportarci ad una variante molto influente, definita originariamente in lingua tedesca: quella del doppelgänger. Il termine, coniato da Jean Paul alla fine del XVIII secolo, si radica nel nucleo stesso del romanticismo tedesco e costituisce parte cruciale dell'immaginario ottocentesco. Doppel, doppio, e gänger, andante, quello che cammina. Ricordiamoci che la nozione allude non solo alla duplicazione di qualcuno, ma al suo apparire in movimento, con un cammino che non è azzardato, ma impegnato a seguire l'originale, con l'ostinazione di un'ombra.
Dai tempi romantici fondanti di E.T. A. Hoffmann fino agli incubi vittoriani di Robert L. Stevenson, il doppio ha marciato, con la sua particolare insistenza, per tutto il diciannovesimo secolo. Secondo Antonio Molina Foix, alcune antiche tradizioni nordiche e germaniche già mettevano nei loro racconti popolari il confronto con il doppio come cattivo segno o nefasto annuncio della scomparsa della persona colpita. Il vecchio doppio del racconto meraviglioso, come tanti altri elementi recuperati dal romanticismo da angoli lontani della storia, mutò, entrando nella modernità, in un doppelgänger più inquietante.
E come altri ingredienti del calderone dell'immaginazione che imperversava nel secolo XIX, finì molto presto per sprofondare nel cinema che lo reclamava come materia narrativa e rappresentativa.Se il doppelgänger è quel doppio fantasmagorico che cammina accanto ad un essere vivente, come non poteva essere evocato da quella macchina che faceva muovere sullo schermo figure troppo spettrali per essere corpi viventi, ma troppo realistiche e animate per comportarsi come semplici immagini? Lo stupore e l'eventuale brivido degli spettatori si produceva davanti a fenomeni che, in un certo senso, rinnovavano con mezzi tecnologici qualcosa del vecchio potere delle apparizioni.
Sia in versione antica che moderna, la stessa presenza del doppelgänger sfida, attraverso la mimesi, ciò che è più intimo di ciascuno: la sua condizione unica, la sua identità. Nel contesto del racconto meraviglioso delle tradizioni popolari, tali presenze erano ammesse in un universo di corrispondenze soprannaturali accettate da una mentalità aperta all'influsso del numinoso. Nella modernità romantica tale apparizione non sarà più quell'inaspettato doppio, figura in agguato o messaggero protettivo proveniente da un ordine superiore, ma diventa un'anomalia inquietante e fondamentalmente inspiegabile. Un duplicato che minaccia l'integrità di un soggetto presumibilmente originale, introducendo il dubbio fatale: qual è il copiato e quale la copia, o come può essere colui che mi trovo di fronte un'altra versione di me stesso? In casi come questi, la ragione collassa, indicando che tale apparizione dovrebbe essere impossibile.
La macchina per fare doppi
Quasi settant'anni fa, Edgar Morin pubblicò un libro eccezionale, Il cinema o l'uomo immaginario, che, attraverso una prospettiva che incrociava filosofia, sociologia e antropologia, costruiva un saggio che ancora oggi è possibile leggere con profitto. Nei suoi capitoli iniziali, Morin considerava il doppio come elemento fondamentale del cinema, fin dai tempi dei Lumière e dei suoi contemporanei. L'autore proponeva che quei corpi sullo schermo, proiettati da strane macchine di cattura e restituzione, convocassero a una spettrale festa di (ri)apparizioni che mettevano in gioco un'ancestrale tensione tra la vita, l'immagine e la morte.
Nella sua intellezione del doppio alla radice dell'immagine cinematografica, Morin, accompagnando alcune intuizioni di André Bazin, si ricollegava ai riti funerari e a certe pratiche dell'immagine come conservazione della vita in effigie, in una narrazione che poi amplierà più dettagliatamente nel suo libro L'uomo e la morte: in un certo senso, si potrebbe dire che il cinema non è altro che una fabbrica di doppi spettrali di esseri viventi. Un'altra dimensione fondante del cinema è rappresentata da Georges Méliés, attraverso la presentazione cinematografica di processi di metamorfosi.
Si tratta di un altro modo di leggere la duplicità iniziale del cinema incarnata da Lumière e Méliès: non più l'opposizione tra realismo e fantasia, o la più discutibile ancora, come ricordava Godard, tra presunto documentario e finzione, ma una bipolarità di opposti ugualmente fantasmatici e inquietanti: doppi e metamorfosi. Da un lato, quelle figure stranamente simili, che si ripetono e si avvicinano fino alla confusione o all'indifferenziazione. Dall'altra, figure che cambiano forma, adepte dell'impermanenza, che rifiutano di essere uniche e stabili. Un mondo proliferativo, mutevole, aperto eternamente al movimento e al cambiamento.
Il cinema Lumière interpellava il doppio e con esso a un'inquietudine palese che avrebbe attraversato anche, per esempio, tutta la storia del cinema familiare: quei film dove qualcuno può vedere sullo schermo, in un altro tempo, gli esseri che ne hanno costellato la vita o (nel caso più inquietante) già assenti. Se nell'antico Egitto il doppio (Ka) era una delle varie forme dell'anima, precisamente quella della replica spettrale che assicurava al defunto il transito riuscito per la terra dei morti, il doppio romantico sarà invece un agente inquietante: lo testimonia rapidamente l'immaginazione cinematografica quando il doppelgänger fa posto all'incubo.
Il brivido raddoppiato
Un dettaglio interessante di Il doppio, l'influente studio che dalla psicoanalisi dedicò a questo tema Otto Rank, sta nel fatto che l'inizio del libro ricorre alla finzione cinematografica. In effetti, la prima redazione di questo studio, un articolo scritto verso il 1914, è strettamente legata a Lo studente di Praga (1913), di Stellan Rye e Paul Wegener, che poi sarà parte integrante del libro del 1919. Per apprezzare la complessa trama con cui il doppelgänger acquisisce la sua inquietante identità culturale nel cinema, non è male ricordare che nel germe di quel film scritto dallo scrittore Hanns Heinz Ewers c'erano il William Wilson dell'americano Edgar Allan Poe e un poema del francese Alfred de Musset, più un pizzico del Faust di Goethe.
Da quel momento in poi, i doppi si sono spostati tra il dramma psicologico e il terrore, passando dalla Germania di Weimar al thriller americano e al film noir, in un'eredità che avrebbe avuto un impatto cruciale anche sulle finzioni paranoiche del decennio d'oro della fantascienza, durante gli anni '50.
Il bagaglio europeo di un regista come Robert Siodmak ha garantito l'impegno immaginario di The Dark Mirror (1946), un dramma poliziesco hollywoodiano in cui Olivia de Havilland interpreta due gemelle che compensano la loro impossibilità di differenziazione fisica con l'opposizione radicale dei loro attributi psicologici e morali. Siccome il cinema è affezionato a doppi e specchi, nello stesso anno Hollywood aggiungeva alla tradizione centrale del doppelgänger un altro tassello con i gemelli antitetici di A Stolen Life (Curtis Bernhardt, 1946) in un tour de force interpretativo di Bette Davis che interpreta due sorelle, una tutta bontà e l'altra, come vuole la legge delle compensazioni, tutto il contrario.
Parallelamente ebbe luogo un'altra strana corrispondenza: in Messico e senza alcun contatto con Hollywood, Roberto Gavaldón proponeva a Dolores del Rio uno sdoppiamento simile nell'ipnotico dramma criminale La otra. Quella storia, quasi vent'anni dopo, sarebbe stata a sua volta girata negli Stati Uniti come Dead Ringer (Paul Henreid, 1964). Nel film le gemelle antagoniste erano interpretate da una Bette Davis già matura e incline ai brividi del grand guignol. Non dovremmo stupirci di queste strane serie di coincidenze e ricorrenze: i casi di doppelgänger hanno spesso queste tortuose, doppie gamme di relazioni.
Come appaiono i sosia?
Uno degli aspetti interessanti che la messa in scena di un doppelgänger comporta sullo schermo è il frequente ricorso al linguaggio cinematografico e agli effetti speciali. Tra l'altro, qualsiasi film che propone doppi interpretati dallo stesso attore o attrice di solito fa pieno uso di quella soverchieria fondatrice dello stile classico nel cinema che è il campo / controcampo. Filmare un dialogo o un incontro di sosia ha sempre sfruttato magistralmente questo artificio di montaggio che permette all'interprete un doppio luogo cinematografico. Ma la storia del cinema dimostra che spesso c'è bisogno di qualcosa in più, ossia far convivere sullo schermo queste due presenze contrapposte, originale e copia.
Tutto vacilla davanti alla angosciosa difficoltà di precisare chi è chi (se far questo è davvero possibile). Qui appare il disimpegno spettacolare del duello provocato da un doppelgänger: gli effetti visivi. Non attraverso quegli VFX che ostentano la loro presenza spettacolare, ma grazie a tutta una serie di accorgimenti ottici, fotografici e già da tempo anche digitali, destinati a farli apparire simultaneamente sullo schermo davanti agli occhi aggrovigliati dello spettatore. Così, dalle virtuose doppie esposizioni (che hanno fatto vincere l'Oscar per migliori effetti visivi a A Stolen Life) ai complessi meccanismi pre-immagine digitale, integrando schermo verde e movimenti computerizzati di fotocamera che hanno stupito in Dead Ringers, giungiamo all'era digitale con la possibilità di clonazione ad nauseam segnando, in un certo senso, la fine dell'era dello stupore per il doppio, e spostando l'inquietudine verso ciò che questa presenza nasconde.
Il doppio messo alla prova: la coreografia dello specchio
Un numero di lunga tradizione nel cinema comico svela in modo illuminante e con effetti infallibilmente esilaranti questa fascinazione per il doppio che pervade la storia del cinema. Si tratta della coreografia conosciuta come broken mirror. In essa, un personaggio che ha accidentalmente rotto uno specchio, a corpo intero o mezza figura, gioca a raddoppiare le azioni di un altro che, inavvertitamente, affronta la cornice credendo che la superficie dello specchio sia ancora intatta. Max Linder l'ha realizzata nel suo cortometraggio Le duel de Max (1913), e la paternità della routine è stata contesa con il poco noto duo comico tedesco Schwarz Bros., che l'ha registrata legalmente come propria e l'ha sfruttata intensamente nel vaudeville europeo e americano del secondo decennio del XX secolo. Dettaglio interessante: il numero era stato originariamente proposto per la scena teatrale; quindi, la performance recitativa era l'assoluta responsabile della sua magia rimasta intatta nel passaggio al cinema.
Nel cinema silente, Linder sempre ne avrebbe migliorato la formula in Seven Years of Bad Luck (1921), ma nel frattempo Charles Chaplin iniziò a esplorarla, collegandola esplicitamente con il doppelgänger nel corto rivelatore The Floorwalker (1916). Harpo e Groucho Marx, nell'ineguagliabile Duck Soup (Leo McCarey, 1933) condussero la performance dello specchio fino al delirio, includendo, in un momento indimenticabile, l'irruzione di un terzo in discordia all'interno del duello di doppi. Presto la performance raggiunse l'ambito domestico via televisione in un celebre passaggio di I love Lucy, dove Lucille Ball e lo stesso Harpo si affrontano in un duello che dimostra per assurdo, e con dettagli strabilianti, il potere dei sosia sullo schermo, a cui si aggiunge quello, avversario, della televisione, in un duello di doppi ancora più grande. Ancora oggi, è possibile vedere ripreso il numero in numerosi sketch che, in tutta la gamma di qualità possibili, rivivono e commentano in forma umoristica l'antica commozione dell'incontro con il doppio.
Ossessionati dal doppio
Un regista chiave, per quanto riguarda i doppi, è stato Alfred Hitchcock. È ciò che accade, nelle sue implicazioni più oscure, in un film come The wrong man (1956) che, attraverso il realismo, accede alla metafisica, con una sua gravità sconosciuta al cineasta; e senza dubbio è una oscura attrazione che intreccia erotismo, morte e doppelganger a mettere in moto l'eterna spirale di Vertigo (1958). Non c'è bisogno di sottolineare fino a che punto un doppio divoratore e mortale organizzi l'intero intrigo di Psycho (1960), anche se forse il pezzo hitchcockiano che più esemplarmente si è innestato nella tradizione del doppelgänger è il capitolo diretto dal cineasta per la serie Alfred Hitchcock Presenta: Il caso di Mr. Pelham (1955).
Tom Ewell interpreta un dirigente inesorabilmente sostituito da un doppelgänger che invade il suo quotidiano fino agli ambiti più intimi, in una trama che oscilla tra il psicologico e il decisamente diabolico. Il tono dell'episodio sfoggia un umorismo nero e disperato: l'assedio del doppio fa vacillare non solo l'identità di chi soffre la sua presenza, ma anche il suo intero mondo, come se introducesse, attraverso la sua semplice apparizione, una sorta di anomalia cosmica, un cuneo di esplosiva antimateria nel mondo conosciuto. E parlando di ossessioni, è impossibile non pensare alle variazioni su Hitchcock che sviluppa Brian de Palma tra gli anni '70 e '90 come prove intricate in cui il doppelgänger è un elemento cruciale.
Sulle frontiere stesse di un'identità in stato di crollo imminente è obbligatorio citare le difficili frontiere stabilite tra i personaggi e le performance teatrali estreme in Persona (1966) di Ingmar Bergman. Nel cinema europeo è difficile dimenticare, riprendendo questo tema, la produzione di un cineasta ossessionato dai sosia come lo fu Andrzej Zulawski, dal suo primo lungometraggio, La terza parte della notte (1971), fino all'allucinante Possession (1981). E in un registro più contemporaneo, può fungere da controesempio dell'effetto drammatico che producono i doppi quello che avviene nel misterioso La doppia vita di Veronica (1985), di Krzystof Kieslowski, dove il doppëlganger, risulta piuttosto il doppio spettrale che, passando all'aldilà, permette di collegare un essere vivente con una dimensione oceanica oltre sé stesso. Di fronte alla rara apologia di un'identità aperta e sospesa elaborata da Kieslowski, forse il caso più inquietante e claustrofobico di un dramma di doppi è proposto da David Cronenberg in Dead Ringers (1988). In questo film moderatamente estremo, la crisi d'identità dei gemelli Mantle cede davanti alla vita presentata come un evento materiale, polimorfo e senza sbocco, facendo di ogni io una fragile finzione, un guscio che cede a una pulsione di morte di cui il doppio non è altro che una maschera.
Da speculare a speculativo
Nella prima versione cinematografica di Frankenstein (J. Searle Dewey, 1910), si verifica un istante rivelatore quando la creatura, una copia mal fatta del barone Frankenstein, viene sconfitta: letteralmente si dissolve in uno specchio a corpo intero. Prima dell'ascesa del cinema fantastico tedesco, questo piccolo film girato nella fabbrica Edison rivela quel curioso sapere di cui Mario Praz ci aveva avvertito: chiamare la creatura Frankenstein, con il nome del suo creatore, potrebbe anche designare un oscuro gioco di doppi generato da una scienza senza limiti, come accade nel più evidente Dr. Jekyll e Mr. Hyde, di Robert. L. Stevenson. Queste narrazioni prototipiche, antenate della finzione speculativa, non sono altro che due esempi della presenza della configurazione del doppelgänger nella matrice del genere.
Almeno a partire da Metropolis, la figura del robot evoca spesso il doppelgänger nelle sue versioni più letali, spostandosi dal fantasmagorico verso il macchinico, mentre le invasioni aliene scelgono di soppiantare uno per uno i terrestri replicandoli con doppi quasi perfetti, come lo attestano Invaders from Mars (W. Cameron Menzies, 1953) o Invasion of the Body Snatchers (Don Siegel, 1956) e le sue successive variazioni. Armati di pragmatismo, gli alieni tendono a pensare che qualcosa di più efficace che spazzare via il pianeta con armi galattiche, può essere mettere le mani sui sosia. All'interno del genere, forse chi ha portato più lontano le implicazioni del doppelgänger è stato Philip K. Dick, le cui finzioni copiosamente adattate al cinema offrono un vero catalogo di doppi nelle loro diverse possibilità narrative. Tra questi spiccano per la loro condizione brillantemente riflessiva A Scanner Darkly (Richard Linklater, 2006).
Stranezze del doppelgänger contemporaneo
Arrivando al cinema contemporaneo e al di là dei celebri casi mainstream come Fight club o Il cigno nero, in quel terreno che vagamente può essere definito come cinema indipendente sono emerse alcune stranezze recenti che si aggiungono al tema e alle variazioni del doppelgänger nel cinema: The Double, 2013, del britannico Richard Ayoade, Enemy (2013) del canadese Dennis Villeneuve o Us (2019) dell'americano Jordan Peele. Il primo è l'adattamento dal racconto dello stesso nome scritto da Fiodor Dostoievsky. Il secondo è la versione de L'uomo duplicato, di José Saramago. Il terzo, una storia originale. Il film di Ayoade evoca un mondo che sembra oscillare tra la sua fonte dichiarata e le oscure finzioni di un Kafka, dove l'irruzione del doppio è un fattore che installa una corrosiva anomalia in un mondo normativo tanto assurdo quanto implacabile.
In Enemy, l'alibi psicologico e una serie di elementi di faticoso simbolismo installano il doppio come enigma da decifrare, anche se -per il bene del film- ogni interpretazione possibile non dissipa il clima di incubo. Qualcosa di simile accade in Us, con i suoi doppi moltiplicati su scala familiare, intersecando razza, classe e idee di fantascienza, tutto per evocare, moltiplicato, l'orrore più arcaico fuori da qualsiasi spiegazione. Tutti casi che, al di là dei loro traguardi parziali, rivelano il potenziale intatto di un archetipo che non cessa di seminare significativi avatar.
Epilogo: il doppio che si nasconde nel buio
Esaminare il doppelgänger fa pensare al cinema e ci ricorda quel soggetto davanti allo schermo che nonostante la sua familiarità non risulta meno strano: lo spettatore. Una parte sostanziale del gioco che gli spettatori fin dal principio, hanno giocato con lo schermo, ha a che fare, senza dubbio, con un certo tipo di sdoppiamento. O, piuttosto con una sequenza di sdoppiamenti in serie. L'irruzione di un doppio sullo schermo mette lo spettatore in una posizione nella quale è immediatamente interpellato. Come se in quella situazione risuonasse quella duplicità che si apre guardando un film, seduto su una poltrona e nello stesso tempo dentro lo spazio del cinema, sapendo che sta vedendo un film e allo stesso tempo percependolo come qualcosa che lo muove in un modo estremamente intenso. Vive la sua vita, e allo stesso tempo, temporaneamente ma simultaneamente, vive quelle altre vite fantasmagoriche che si dispiegano davanti a lui sullo schermo. Nella doppia vita che governa lo spettatore cinematografico sospettiamo, in modo oscuro, che si svolge l'inquietante incontro tra il riconoscibile e l'ignoto; una situazione simile a quella che Rimbaud descrisse in modo insuperabile affermando che «io è un altro».
TESTO ORIGINALE
El doppelgänger en pantalla: el cine y su doble
Figura y estructura del doppelgänger
Planteemos una sospecha inicial: la cuestión del doble mantiene una relación oscura y crucial con el cine. Si bien encontramos dobles en relatos orales o escritos de numerosas culturas, o prosperan también en otros modos de creación de imágenes como la pintura o la fotografía, los dobles parecen activarse con particular énfasis cuando llega el momento de su aparición y evolución en pantalla. El doble como presencia acuciante, engañosa, admonitoria, persecutoria, incluso posible y fatal suplantadora, suele requerir la asistencia del poder mimético de la imagen. Y aquella que produce el cine le resulta particularmente eficaz.
Cuando se toca el tema del doble en relatos e imágenes, uno de los modos de acercamiento más frecuente consiste en abordarlo como figura claramente reconocible y recurrente a lo largo de la historia de las ficciones literarias y luego cinematográficas. Sin duda, es un leitmotiv que en el cine retorna una y otra vez dentro de diferentes marcos genéricos desde la comedia hasta el thriller, la ciencia ficción o bien, por sus peculiares implicaciones, acostumbra asentarse con cierta preferencia en el cine fantástico y de terror. Encarar al doble de ese modo inclina a reseñar y cotejar unos cuantos casos célebres en pantalla, obligadamente relacionados con sus fuentes o correspondencias en el campo literario, toda vez que la situación lo permita. Es una aproximación lícita, aunque acaso ejercida con demasiada frecuencia. Lo que intentaremos aquí intenta adentrarse en otra dirección: exploraremos algunos ángulos significativos, ahondando en cierto suelo común que deja en evidencia las distintas manifestaciones del doble en el cine y de un doble del cine, propio de este medio, para encontrar algunas estructuras clave dentro de lo que podríamos considerar, en sentido amplio, una antropología de lo cinematográfico.
Dobles antiguos y modernos
Como alude a cierto núcleo imaginario que el cine explotará de manera radical, resulta inevitable remontarnos a una variante altamente influyente, denominada originalmente en lengua alemana: la del doppelgänger. El término, acuñado por Jean Paul a fines del siglo XVIII, arraiga en el núcleo mismo del romanticismo alemán y forma parte crucial del imaginario decimonónico. Doppel, doble, y gänger, andante, el que marcha. Advirtamos que la noción alude no sólo a la duplicación de alguien, sino a su aparición en movimiento, con un andar que no es azaroso, sino empeñado en seguir al original, con la obstinación de una sombra.
Desde los tiempos románticos fundantes de E.T. A. Hoffmann hasta las pesadillas victorianas de Robert L. Stevenson, el doble marchó, con su particular insistencia, a lo largo del siglo XIX. Según apunta Antonio Molina Foix, algunas antiguas tradiciones nórdicas y germánicas ya planteaban en sus relatos populares la confrontación con el doble como mala señal o nefasto anuncio de la desaparición del afectado. Como tantos otros elementos recuperados por el romanticismo desde rincones lejanos de la historia, el viejo doble del relato maravilloso mutó, entrando en la modernidad, en un doppelgänger más perturbador. Como otros ingredientes del caldero de la imaginación que bullía en ese siglo XIX, muy tempranamente fue a recalar en el cine que lo reclamaba como insumo narrativo y representacional. Si el Doppelgänger era aquel doble fantasmal que marcha al lado de un ser vivo ¿cómo no iba a ser convocado por esa maquinaria que hacía moverse en pantalla a figuras demasiado espectrales para ser cuerpos vivos, pero demasiado realistas y animadas para comportarse como meras imágenes? El asombro y eventual estremecimiento de los espectadores se producía ante fenómenos que, en cierto sentido, renovaban por medios tecnológicos algo del viejo poder de las apariciones.
Ya sea en versión antigua o moderna, la misma presencia del doppelgänger desafía, mediante la mímesis, aquello más íntimo de cada uno: su condición única, su identidad. En el contexto del cuento maravilloso de las tradiciones populares, esas presencias eran admisibles en un universo de correspondencias sobrenaturales aceptado por una mentalidad abierta al influjo de lo numinoso. En la modernidad romántica dicha aparición ya no será ese inesperado doble que podrá ser acechante o eventualmente un mensajero protector proveniente de un orden superior, sino que se convierte en una anomalía perturbadora y fundamentalmente inexplicable. Un duplicado que amenaza la integridad de un sujeto presuntamente original, introduciendo la duda fatal: cuál es el copiado y cuál la copia, o ¿cómo puede ser eso a lo que me enfrento otra versión de mí mismo? Y además colapsa a la razón, que indica que esa aparición debería ser imposible.
La máquina de hacer dobles
Hace exactamente sesenta años, Edgar Morin publicó un libro excepcional, El cine o el hombre imaginario. Desde una perspectiva que cruzaba filosofía, sociología y antropología, formulando un ensayo que aún hoy es posible leer con provecho. En sus capítulos iniciales, Morin instalaba al doble como asunto fundamental del cine, desde los tiempos de los Lumière y sus contemporáneos. El autor proponía que esos cuerpos en pantalla, proyectados por extrañas máquinas de captura y restitución, convocaban a una espectral fiesta de (re)apariciones que ponían en juego una ancestral tensión entre la vida, la imagen y la muerte.
En su intelección del doble en la raíz de la imagen cinematográfica, Morin, acompañando algunas intuiciones de André Bazin, se remontaba a los ritos funerarios y a ciertas prácticas de la imagen como conservación de la vida in efigie , en un recuento que luego prolongaría con mayor detalle en su libro El hombre y la muerte. En cierto modo, podría afirmarse que el cine no era otra cosa que una factoría de dobles espectrales de seres vivientes. Otra dimensión fundante del cine estaría representaría Georges Méliés: la orientada hacia la presentación cinematográfica de procesos de metamorfosis. Otro modo de leer la duplicidad inicial del cine entre Lumière y Méliès. Ya no la oposición entre realismo y fantasía, o la más cuestionable aún, como recordaría Godard, entre presunto documental y ficción, sino una bipolaridad de opuestos igualmente fantasmáticos e inquietantes: dobles y metamorfosis. Por un lado, esas figuras extrañamente similares, que se repiten y se cotejan hasta la confusión o la indiferenciación. Por otro, unas figuras que cambian su forma, adeptas a la impermanencia, que se niegan a ser únicas y estables. Un mundo proliferativo, cambiante, en perpetua disposición al movimiento y al cambio.
El cine Lumière llamaba al doble y con él a una inquietud patente que atravesaría, por ejemplo, toda la historia del cine familiar: esas películas donde uno ve en pantalla, en otro tiempo, a esos que han rodeado su vida o (en caso más perturbador) a los ya ausentes. Si en el antiguo Egipto, el doble (Ka) era una de las varias formas del alma, precisamente la de la réplica espectral que aseguraba al difunto el tránsito exitoso por la tierra de los muertos, el doble romántico será, por lo contrario, un agente ominoso: así lo atestigua rápidamente la imaginación cinematográfica cuando el doppelgänger hace lugar a la pesadilla.
El escalofrío redoblado
Un detalle interesante de El doble, el influyente estudio que desde el psicoanálisis dedicase a este tema Otto Rank, radica en que el mismo comienzo del libro recurre a la ficción cinematográfica. De hecho, la primera redacción de ese estudio, en tanto artículo escrito hacia 1914, está estrechamente ligada a El estudiante de Praga (1913), de Stellan Rye y Paul Wegener, y así quedó, iniciando el tratamiento del tema, cuando accedió al rango de libro en 1919. Para apreciar el complejo entramado con el que el doppelgänger cobra su inquietante identidad cultural en el cine, no está de más recordar que en el germen de aquella película guionada por el escritor Hanns Heinz Ewers concurrían el William Wilson del estadounidense Edgar Allan Poe y un poema del francés Alfred de Musset, más una pizca del Fausto de Goethe. De allí en más, los dobles pulularon entre el drama psicológico y el terror, trasvasándose de la Alemania de Weimar al thriller americano y el film noir, en un legado que también impactaría de modo crucial en las ficciones paranoides de la década dorada de la ciencia ficción, durante los años cincuenta.
El bagaje europeo de un realizador como Robert Siodmak garantizó el compromiso imaginario en The Dark Mirror (1946), drama policial hollywoodense donde Olivia de Havilland interpretaba a dos gemelas que compensaban su imposibilidad de diferenciación física con la radical oposición de sus atributos psicológicos y morales. Como el cine es afecto a dobles y espejos, ese mismo año Hollywood agregaba a la tradición central del doppelgänger otra apelación a los gemelos antitéticos en A Stolen Life (Vida robada, Curtis Bernhardt, 1946) en un tour de force interpretativo a cargo de Bette Davis interpretando a dos hermanas, una todo bondad y la otra, como quiere la ley de las compensaciones, más bien lo contrario. Paralelamente tuvo lugar otra extraña correspondencia: en México y sin ningún contacto con Hollywood, Roberto Gavaldón proponía a Dolores del Río similar desdoblamiento en el hipnótico drama criminal La otra. Esa historia, casi veinte años más tarde, sería a su vez filmada en Estados Unidos como Dead Ringer (Quién yace en mi tumba/Gemelas Mortales, Paul Henreid, 1964). En ella, las gemelas antagónicas serían protagonizadas por una Bette Davis ya madura y propensa a los estremecimientos del grand guignol. No deberíamos extrañarnos de estas raras series de coincidencias y recurrencias: los asuntos de doppelgänger suelen tener estas tortuosas, dobles gamas de relaciones.
¿Cómo aparecen los dobles?
Uno de los aspectos interesantes que la puesta en escena de un doppelgänger implica en pantalla es el frecuente recurso al lenguaje cinematográfico y a los efectos especiales. Por cierto, cualquier película que proponga dobles interpretados por el mismo actor o actriz suele hacer uso cabal de esa superchería fundadora del estilo clásico en el cine que es el plano/contraplano. Filmar un diálogo o un encuentro de dobles siempre ha explotado magistralmente a ese artificio de montaje que permite al intérprete una bilocación cinematográfica. Pero la historia del cine demuestra que a menudo hace falta algo más, esto es, hacer convivir en pantalla a esas dos presencias enfrentadas, original y copia. Todo allí vacila, y se abre la dificultad angustiosa de precisar quién es quién, si es que ésto es posible. Aquí aparece el nada desestimable desempeño espectacular de ese duelo provocado por un doppelgänger: los efectos visuales. Pero no aquellos FX que ostentan su presencia espectacular, sino toda una gama de argucias ópticas, fotográficas y hace ya un buen tiempo también digitales, destinadas a hacerlos aparecer simultáneamente en pantalla ante los azorados ojos del espectador. Así, desde las virtuosas dobles exposiciones (que hicieron ganar el Oscar a mejores efectos visuales a A Stolen Life) a complejos mecanismos pre-imagen digital, integrando pantalla verde y movimientos computarizados de cámara en que llevaron al pasmo en Dead Ringers, llegamos a recalar en plena era digital con la posibilidad de clonación ad nauseam marcando, en cierto sentido, el fin de la era del asombro por el doble, desplazando la inquietud hacia lo que esa presencia oculta.
El doble puesto a prueba: la rutina del espejo
Un número de larga tradición en el cine cómico revela de forma aleccionadora y con efectos infaliblemente hilarantes esa afección por el doble que impregna al cine. Se trata de la conocida como broken mirror routine. En ella, un personaje que accidentalmente ha roto un espejo de cuerpo entero, o de medio cuerpo, juega a redoblar las acciones de otro que, inadvertidamente, se enfrenta al marco creyendo su superficie aún intacta. Max Linder la realizó en su cortometraje Le duel de Max (1913), y la paternidad de la rutina fue disputada con el oscuro dúo cómico alemán Schwarz Bros., quien la registró legalmente como propia y la explotó intensivamente en el vaudeville europeo y americano de la segunda década del siglo XX. Detalle interesante: el número fue originalmente propuesto para la escena teatral, por lo cual la performance actoral sería la responsable absoluta de su magia intacta en el pasaje al cine.
En el cine silente, Linder puliría la rutina al punto máximo en Siete años de mala suerte (1921), pero mientras tanto, incursionó en ella Charles Chaplin, ligándola explícitamente con el doppelgänger en el revelador corto The Floorwalker (1916). Harpo y Groucho Marx, en la inigualable Sopa de Ganso (Leo McCarey, 1933) la llevaron hasta el delirio —que hasta incluye en un momento inolvidable la irrupción de un tercero en discordia dentro del duelo de dobles. Y pronto la rutina accedió al ámbito hogareño vía televisión en un célebre pasaje de Yo quiero a Lucy, enfrentando a Lucille Ball y el mismísimo Harpo en un duelo que demuestra por el absurdo y con desopilantes detalles el poder de los dobles en pantalla, por otra parte sumando al cine con su joven contrincante, la TV, en un duelo de dobles aún mayor. Hasta el día de hoy, es posible ver retomado el número en numerosos sketches que, en toda la gama de calidades posible, reviven y comentan desde el humor la vieja conmoción del encuentro con el doble.
Obsesionados por el doble
Un director clave, en lo que a dobles respecta, ha sido Alfred Hitchcock. Es posible ver sus implicancias más negras en un registro que por el realismo accede a la metafísica en las desventuras de El hombre equivocado (1956), con su seriedad desusada para el cineasta, y sin duda es una oscura atracción ligada al nudo entre erotismo, muerte y doppelgänger lo que motoriza el giro en espiral eterno de Vertigo. No hace falta destacar hasta qué punto un doble devorador y mortífero organiza la intriga entera de Psicosis, aunque tal vez la pieza hitchcockiana que de modo más ejemplar haya incursionado en la tradición del doppelgänger sea el capítulo dirigido por el cineasta para la serie Alfred Hitchcock Presenta: El caso de Mr. Pelham (1955). Tom Ewell interpreta allí un ejecutivo inexorablemente desplazado por un doppelgänger que invade su espacio hasta los ámbitos más íntimos, en una trama cuyos determinantes oscilan entre lo psicológico y lo decididamente diabólico. El tono del episodio despliega un humor negro y desesperado hasta lo terminal: el asedio hace tambalear no sólo la identidad de quien padece su presencia, sino también su mundo entero. Como si introdujera por su misma aparición una suerte de anomalía cósmica, una cuña de explosiva antimateria en el mundo conocido. Y hablando de obsesos, bien las variaciones sobre Hitchcock que desarrolla Brian de Palma entre los 70 y 90 como intrincados ensayos donde el doppelgänger es un elemento central.
En las fronteras mismas de una identidad en estado de inminente derrumbe se hace obligatorio citar las dificultosas fronteras establecidas entre personajes y extremas performances actorales en Persona (1966) de Ingmar Bergman. En el cine europeo resulta difícil olvidar, revisando este tema, a la producción de un cineasta obsesionado con los dobles como lo fue Andrzej Zulawski, desde su primer largometraje, La tercera parte de la noche (1971), hasta la alucinatoria Una mujer poseída (1981). Y en un registro más contemporáneo, puede oficiar como contraejemplo del efecto dramático que producen los dobles a lo que ocurre en la misteriosa La doble vida de Veronica (1985), de Krzystof Kieslowski, donde el doppëlganger, en un extraño giro posromántico, resulta más bien el doble fantasmal que pasando al más allá permite conectar un ser viviente con una dimensión oceánica más allá de sí misma. Frente a la rara apología de una identidad abierta y en suspenso elaborada por Kieslowski, tal vez el caso más perturbador y claustrofóbico de un drama de dobles fue propuesto por David Cronenberg en Pacto de amor (Dead Ringers, 1988). En este film mesuradamente extremo, la crisis de identidad de los gemelos Mantle cede ante la vida presentada como un evento material, polimorfo y sin salida, haciendo de cada yo una ficción frágil, una cáscara que cede ante una pulsión de muerte de la que el doble no es más que una máscara.
De lo especular a lo especulativo
En la primera versión cinematográfica de Frankenstein (J. Searle Dewey, 1910), se produce un instante revelador cuando la criatura, una copia malhecha del barón Frankenstein, es derrotada: literalmente se disuelve en un espejo de cuerpo entero. Previo al auge del cine fantástico alemán, este pequeño film rodado en la factoría Edison revela ese curioso saber del cual Mario Praz advertiría: llamar Frankenstein a la criatura, llevando el nombre de su creador, bien podría designar un oscuro juego de dobles generado por una ciencia sin límite, como ocurriría en el más evidente Dr. Jekyll y Mr. Hyde, de Robert. L. Stevenson. Estas narraciones prototípicas, ancestros de la ficción especulativa, no son sino dos muestras de la presencia de esta configuración del doppelgänger en la matriz del género. Al menos desde Metropolis, la figura del robot suele convocar al doppelgänger en sus versiones más letales, desplazándose de lo fantasmagórico hacia lo maquínico, mientras las invasiones alienígenas optan por suplantar uno por uno al género humano replicando dobles casi perfectos, como lo atestiguan Invaders from Mars (W. Cameron Menzies, 1953) o Invasion of the Body Snatchers (Don Siegel, 1956) y sus sucesivas variaciones hasta el presente ¿Cómo se invade a la Tierra? armados de pragmatismo, los extraterrestres suelen pensar que algo más efectivo que arrasar el planeta con armas galácticas, puede ser echar mano a los dobles.
Dentro del género, acaso quien más lejos llevó las implicancias del doppelgänger fue Philip K. Dick, cuyas ficciones profusamente adaptadas al cine ofrecen un verdadero catálogo de dobles en sus diferentes posibilidades narrativas. Entre ellas destacamos por su condición brillantemente reflexiva Una mirada a la oscuridad (A Scanner Darkly, Richard Linklater, 2006)
Extrañezas del doppelgänger contemporáneo
Arribando a la pantalla actual y más allá de difundidos casos mainstream como El club de la pelea o El cisne negro, en ese terreno que vagamente puede calificarse como cine independiente surgieron algunas rarezas recientes se suman al tema y variaciones del doppelgänger en cine: El doble, (The Double, 2013), del británico Richard Ayoade, Enemy (2013) del canadiense Dennis Villeneuve o Us (2019) del estadounidense Jordan Peele . La primera, adaptada del relato del mismo nombre escrito por Fiodor Dostoievsky. La segunda, versión de El hombre duplicado, de José Saramago. La tercera, historia original. La película de Ayoade convoca un mundo que parece oscilar entre su fuente declarada y las oscuras ficciones de un Kafka, donde la irrupción del doble es un factor que instala una corrosiva anomalía en un mundo normativo tan absurdo como implacable. En Enemy, la coartada psicológica y una serie de elementos de trabajoso simbolismo instalan al doble como enigma a descifrar, aunque —para bien de la película— toda interpretación posible no disipa el clima de pesadilla. Algo similar ocurre en Us, con sus dobles multiplicados a escala familiar, interseccionando raza, clase e ideas de ciencia ficción, todo para convocar, multiplicado, al horror más arcaico y difícil de digerir por cualquier explicación. Todos casos, más allá de sus logros parciales, que hablan del potencial intacto de un arquetipo que no deja de deparar avatares significativos.
Epílogo: el doble que acecha en la oscuridad
Examinar al doppelgänger lleva a pensar el cine y nos recuerda a ese sujeto ante la pantalla que no por familiar resulta menos extraño: el espectador. Parte sustancial del juego que los espectadores han venido jugando desde sus años iniciales tiene que ver, sin dudas, con cierto tipo de desdoblamiento. O más bien de una secuencia de desdoblamientos en serie.
La irrupción de un doble en pantalla instala al espectador en una posición por la cual resulta interpelado de modo inmediato. Como si en esa situación resonase esa duplicidad que se abre al ver un film, sentado en una butaca y a la vez dentro del espacio del cine, sabiendo que está viendo una película y a la vez sintiéndola como algo que lo mueve de modo tan intenso que no debería ser sólo eso, un film. Vive su vida, y a la vez, temporaria pero simultáneamente, vive esas otras vidas fantasmales que se despliegan delante suyo. En la doble vida que rige al espectador cinematográfico sospechamos, de manera oscura, que allí toma lugar el inquietante encuentro entre lo reconocible y lo desconocido; una situación en esos términos que Rimbaud plantease de forma insuperable al afirmar aquello de que yo es otro.
Qualche anno io e Luis Cámara ci trovavamo sulle rive del fiume Paraná. Ad un certo punto, ci siamo fermati su una collina guardando il fiume, con l'intenzione di indagare, attraverso il contatto con il paesaggio, in che modo potevamo dialogare con la poesia di Juan L. Ortiz. Cominciammo a pensare al film che avremmo girato qualche mese dopo, La orilla que se abisma. Era un pomeriggio di primavera e il sole lasciava macchie brillanti sul fiume. In lontananza, quasi un punto nell'immensità dell'acqua, un pescatore controllava la sua canna da pesca. Sulle rive, i verdi avevano già naufragato, durante quel periodo dell'anno, in un gran numero di sfumature.
Non sarebbe del tutto esatto affermare che i testi che compongono Ó sono i resti di un libro più grande, solo perché i frammenti "scartati" vennero pubblicati più tardi, in O Mau Vidraceiro. Né sarebbe sufficiente, secondo Garramuño, parlare di un libro ibrido: in questo caso ci sarebbe una mancanza di specificità ricercata, profonda, che genera indistinzione tra la lettera e l'immagine (tra l'opera plastica di Ramos, che si serve di parole e l'opera "scritta" che sfonda il "letterario").
A proposito di Lewis Carroll e del suo Silvia e Bruno, Gilles Deleuze parlava di coesistenza di superfici, contiguità, e citava Eisenstein che aveva riconosciuto nei dipinti a rotolo giapponesi «la prima approssimazione del montaggio cinematografico»: non soltanto supporto che si arrotola su se stesso ma superficie dipinta che si avvolge intorno al suo centro, permettendo l’avvicinarsi e il mescolarsi dei piani da una superficie all’altra, da una storia ad un’altra storia.