Il giovedì sera partecipavamo, nel vecchio auditorium di Radio Sutatenza, alle proiezioni del Cine club della Procuraduría General de la República, da cui ero riuscito a farmi assumere come coordinatore per pochi pesos, che mi aiutavano a coprire le spese irrisorie di un cinefilo single. Grazie a questo lavoro passeggero, avevo già ottemperato alla mia quota di pubblico impiego, e a conoscere molto parzialmente i circuiti, le deviazioni e le scorciatoie che di solito hanno le risorse dello Stato.

Il mio ingenuo entusiasmo cineclubista mi portò a programmare un ciclo di film, desiderando contagiare con la devozione per quest'arte delle ombre e le luci alcune decine di impiegati della sede centrale di questa istituzione, mostrando loro l'affascinante mondo del dietro le quinte: del lavoro, dei sogni e delle frustrazioni, di questo mestiere del XX secolo. Tra le altre sono state proiettate, in copie 35 millimetri, l'allegra e colorata Cantando sotto la pioggia, ma anche l'oscuro e tragico Sunset Boulevard, – chiamata in Colombia El Ocaso de los ídolos –  che mostravano l'epoca d'oro della fabbrica dei sogni.

La notte in cui guardavamo Sunset Boulevard e ascoltavamo la voce cadente del suo protagonista, che si sforzava di spiegarci gli eventi che lo portarono a morire assassinato nella piscina di una lussuosa villa di Hollywood, dove appariva galleggiando nella prima sequenza del film; l'oscurità di questa storia avrebbe raggiunto ciò che il suo stesso regista Billy Wilder, pur essendo un maestro dell'umorismo nero, non poteva immaginare. Il defunto ci aveva già raccontato che giorni prima era stato rapito dalla dimenticata star Norma Desmond, proprietaria della villa, per costringerlo a scrivere la sceneggiatura del film in cui lei sarebbe tornata a brillare; poi cominciò a spegnersi gradualmente la luce che illuminava lo schermo dell'auditorium. Precisamente nella sequenza in cui il promettente sceneggiatore scopre giocando a bridge, immobili – come statue di cera del Museo di madame Tussaud –  e sotto la scintillante incandescenza delle lampade e dei candelabri della sala principale, le vecchie star del cinema muto Buster Keaton, Hedda Hopper, Erich Von Stroheim e Gloria Swanson, interpretando Norma, la padrona di casa della dimora decadente; un'ombra pesante è caduta sui loro volti. Pochi minuti dopo il salotto tornò a illuminarsi di nuovo e sotto il crescente fascio di luce si scongelarono i loro gesti e si udirono le voci delle quattro languide figure, emergendo da esse l'anima che le riportava in vita dal mausoleo dove condividevano le loro vecchie glorie. Mi ha sempre sorpreso, guardando tante volte lo stesso film, come appaiono sottili dettagli come questo, che essendo stati inosservati nelle proiezioni precedenti, rinnovano di bellezza e senso un capolavoro, evidenziando che non è mai sufficiente vederlo di nuovo.

Il film continuò il corso determinato dalla sua sceneggiatura di ferro, ma pochi minuti dopo tornò ad attenuarsi di nuovo la luce e la luminosità che doveva dirigersi sulla figura dell'accattivante Norma Desmond, coincidendo drammaticamente e simbolicamente con la decadenza di quella meravigliosa fiera custodita e dimenticata dietro le quinte di una Hollywood che nel tempo del sonoro e dei talkie aveva preferito la chiara sintassi del discorso verbale all'espressività dell'immagine muta. Questa volta fu durante la sequenza in cui l'attrice visita gli studi della Paramount rispondendo a una chiamata equivocata dove il potente produttore e regista Cecil B. DeMille – interpretato da lui stesso –  cerca Norma per prendere in prestito la sua esclusiva auto Isotta Fraschini per un film.

Lei però si avvicina tutta agghindata credendo che questo sia il suo prossimo film. La luce continuava a spegnersi sulla star che aspetta impazientemente il suo vecchio amico DeMille per parlare del contratto che avrebbero firmato. Mentre la diva posa superbamente davanti ai vecchi assistenti che la riconoscono subito e le chiedono se viene a filmare di nuovo, l'oscurità che cominciava ad inondare la sala di proiezione si dissolse di nuovo, perché un forte raggio di luce l'attraversò lasciando alla vista quel primo piano che inquadra così efficacemente il gesto di sublime altezzosità con cui lei guarda e sfida il microfono che le scomoda il suo sofisticato copricapo di piume con il velo di maglia. Io ricordavo l'impertinente apparecchio sonoro che osava disturbare la veterana attrice del cinema muto, ma non questi effetti di luce che, comunque, non riuscivano a manifestarsi con la precisione di un fade to black del cinema classico di Hollywood. Di fronte alla rapidità dei cambiamenti di luce, mi chiesi se non fossero piuttosto difetti della copia in 35 mm, conservata nei magazzini del distributore locale per tanti anni o decenni, forse gli stessi di Norma rinchiusa nel suo umbratile palazzo. Non ricordavo di aver visto questi alti e bassi di luce nelle proiezioni precedenti e al mio fianco nessun amico cinefilo poteva risolvere la questione.      

Dieci minuti più tardi, l'intensità della luce diminuì di nuovo lentamente per poi aumentare bruscamente tre minuti dopo. Gli altri spettatori non sembravano preoccuparsi o forse non notavano queste variazioni di luminosità che cominciarono a farsi presenti ogni quarto d'ora circa, tuttavia, ogni volta che accadevano sentivo un bruciore nelle mie retine simile a un pugno nella bocca del mio stomaco. Accadde di nuovo una quarta e poi una quinta volta. Il pubblico era completamente immerso nella storia dell'affascinante sceneggiatore rapito dalla stella in via di estinzione, ma io non potevo più concentrarmi, le incessanti perdite di luce della proiezione avevano annientato la magnifica favola su quella macchina di produzione capitalista disumanizzata che è Hollywood.

Non sopportai più. Per la mia nevrotica cinefilia si trattava di una negligenza nella proiezione della pellicola, che distruggeva tutto lo sforzo e il talento di tanti artigiani e artisti, tutta l'accurata tradizione di questo grande mestiere trasformato in industria, la produzione massiccia di milioni di dollari investiti, la rovina di un gioiello che dovrebbe essere conservato ed esposto protetto da un vetro di sicurezza, sopra il velluto più elegante e con la migliore illuminazione per farlo brillare in tutto il suo splendore. Inoltre, la mia responsabilità contrattuale in quel momento come coordinatore del Cinema-club era chiara:

«Far conoscere ai dipendenti della Procuraduría General de la República e alle loro famiglie il valore della Settima arte attraverso un sano ed esemplare svago;

Programmare cicli di film importanti per la loro qualità artistica e umanistica;

Occuparsi dei costi della rassegna e coordinarla per assicurarne il successo;

Realizzare forum in cui si illustra al pubblico il cinema, la storia del cinema e i suoi significati, cercando di trasmettere, attraverso l'arte, le buone abitudini e i valori della nostra società, istituzione e nazione».

Mi alzai energicamente dalla poltrona in prima fila e uscii dall'auditorium, salii le scale e mi diressi verso la cabina di proiezione, bussai alla porta e quando non sentii risposta provai ad aprirla, ma era chiusa a chiave, tornai a bussare di nuovo una, due volte, sempre più forte e chiamando il proiettore, finché non mi aprì ed entrai così nella cabina.

– Signor Sandoval, cosa succede con la proiezione? Non vede come la luce si abbassa ad ogni momento? –.

– Non so di cosa sta parlando, guardi e basta –, mi disse, indicando la finestra della cabina da dove usciva il raggio luminoso che sbatteva direttamente allo schermo della sala.

Mi avvicinai e osservai le immagini perfettamente illuminate.

– Ora sembra buono, ma non è stato così per tutto il tempo, la proiezione è stata instabile –.

– Succede così con questi film così vecchi che portate, in bianco e nero poi. Sono molto scuri e non li tengono bene nei depositi delle distributrici –.

Guardai incredulo il signor Sandoval. Mi è sempre sembrato un essere di altri tempi, un fantasma. Non solo per i suoi oltre settanta anni che doveva avere e per essere uno dei pochi esemplari di questa specie in via d'estinzione che sono i proiezionisti di cinema, ma anche per il cappello di cuoio ed il suo bastone da mandriano con il quale, nonostante il suo mestiere così urbano, non voleva dimenticare il suo passato rurale. È da mesi che lo sto osservando e penso che dovrei fare un documentario su di lui, ma forse la disinvoltura con cui mi tratta mi ha dissuaso dal proporglielo.

Vorrei conoscere i suoi gusti cinematografici, perché sicuramente non ci capiamo: sì Sunset Boulevard, che sospetto abbia proiettato molti anni fa, le sembra un catorcio in bianco e nero; e Lo specchio di Tarkovsky lo aveva squalificato come la cosa più noiosa che avesse mai visto in tanti anni di mestiere; solo con I predatori dell'Arca perduta, che avevo programmato per un ciclo di vacanze familiari, mi sembrava si fosse emozionato un poco. A volte pensavo che, anche se aveva passato tanto tempo a proiettare film, non gli piacesse il cinema. Sembra che i cinefili abbiano romantizzato questo mestiere dove un uomo consuma la sua vita chiuso in una cabina, infilando rotoli ogni venti minuti in uno dei due apparecchi che si alternano durante la proiezione, riavvolgendoli appena finiscono di proiettarsi, e accecandosi con le lampade fulminanti dell'arco elettrico, che bisogna alimentare costantemente per mantenere l'intensità della luce. Sarà per questo che fin dagli albori il cinema ha idealizzato i macchinisti ferroviari, occupati ad alimentare il fuoco e il vapore che producono la forza necessaria per muovere la macchina in cui viaggiavano centinaia di turisti godendosi il paesaggio, ignari di questo mestiere estenuante.

Qualche mese fa mi aveva raccontato che era finito a fare questo lavoro perché uno zio materno che aveva aperto un cinema a Duitama se l'era portato a lavorare alla biglietteria e all'entrata del teatro. Andava a lavorare ogni giorno attraversando in bicicletta i cinque chilometri che separavano il cinema dalla casa e dal terreno dove viveva con sua madre e i suoi sette fratelli. Suo padre li aveva abbandonati fuggendo dalla minaccia di morte dei Chulavitas che poi iniziarono a cercare lui. Arrivò a Bogotà pochi mesi dopo essere stato raccomandato da suo zio ad un distributore di film della società Bello Films. Imparò rapidamente a proiettare film di 16 e 35 millimetri e rimase in mezzo a una città che cresceva al ritmo del cinema, dove si cominciavano ad aprire nuovi teatri mentre le sue strade si riempivano della folla che circolava tra il centro e Chapinero in cerca di divertimenti eccitanti. Il signor Sandoval diventava più tranquillo quando gli facevo domande sulla sua vita precedente e parallela al suo irregolare ingresso nel mondo del cinema. Tuttavia, quando il tema diventava questo cine club, in cui insistevo sulle mie responsabilità contrattuali con la Procuraduria, che prevedevano che per il pagamento ricevuto per il suo coordinamento e funzionamento, io dovevo assumermi gli onorari del proiezionista e le spese di manutenzione dell'attrezzatura di proiezione, egli tornava a mostrare scarso entusiasmo per quello che dovevamo risolvere e ripeteva sempre che i pochi pesos con cui lo pagavo per le quattro proiezioni al mese, bastavano a malapena per il trasporto e la manutenzione delle attrezzature.

Tornando alla conversazione, gli dissi che non capivo come la luce instabile della proiezione potesse derivare dallo stato della copia dei film, o perché i film erano in bianco e nero. Fu allora cominciò a enumerare altri motivi, prendendo la ricevuta di acquisto dei carboni del proiettore e spiegandomi che con il budget che gli davo per questi, non riusciva a comprare i sei carboni necessari per ogni proiezione. Facendo l'esempio di questo film, dato che le lampade ad arco voltaico con cui funzionavano gli obsoleti proiettori dell'auditorium di Radio Sutatenza, erano le stesse usate per illuminare la scena finale di Il tramonto degli idoli, quando Norma scende per le scale credendo che fosse il momento in cui sarebbe tornata a brillare sugli schermi e non quello dell'arresto a casa sua da parte della polizia. Per produrre un fascio di luce di più di 10.000 lumen, necessari per raggiungere lo schermo a 30 metri di distanza, è necessario che si produca un arco elettrico incandescente di 3.500 gradi celcius tra gli elettrodi di una corrente continua sospesa. Quindi la luce salta mentre – letteralmente – dall'estremità dell'asta del carbone mobile, che a questa temperatura si va consumando, all'altro polo che si mantiene fisso nella metà di uno specchio concavo e parabolico che la riflette ed aumenta.

– Guardi, è così che funzionano le vecchie lampade Fresnel e anche questi proiettori. I carboni si bruciano con il calore generato dalla luce incandescente, che mi sta facendo diventare cieco, dice, mentre mi tira per la spalla per farmi vedere dietro il vetro affumicato dove si produce l'arco di fuoco e luce –.

Anche se questo non era mi era del tutto nuovo, ammetto che il suo esercizio pedagogico ha illuminato la mia comprensione della produzione, dei flussi e dei consumi di questa industria. Continuavo però a preferire l'altra metà dove vengono prodotte le immagini in movimento, l'ombra accogliente in cui ci intrufoliamo nella sala di proiezione.

– Dovrebbe chiedere di installare proiettori di lampade allo xeno, in cui la luce è costante e non c'è bisogno di avvicinare e regolare questi carboni ogni quindici minuti, in modo che la proiezione rimanga sempre uguale. Così, inoltre, ci risparmiamo voi ed io le spese settimanali dei carboni –.

– Mi creda, lo solleciterò. Ma per favore, signor Sandoval, non faccia sfumare la proiezione. Io, nel frattempo le do di più per le bacchette di carbone –.

Sono tornato in sala e non ci furono altri problemi. Nell'ultima sequenza la magnifica Gloria Swanson incarnata nella decadente e alienata Norma Desmond, brillava di nuovo alla luce dei Fresnel e delle cineprese che l'aspettavano per una falsa ripresa, dietro la quale si trovava l'agente della polizia che l'avrebbe arrestata per l'omicidio del suo sceneggiatore. Ancora una volta uscì commosso da questo film, ma questa volta avevo imparato qualcosa di più su tutto quello che risplende e le ombre necessarie che lo producono, l'anonimo lavoro del carbone e la sua perenne consumazione.

Il ciclo continuò, vedemmo altre storie sui piaceri, le passioni e le tristezze di chi fa cinema: la storia di un regista che affronta le paure e i fantasmi del suo passato, quella di un autore che cerca di trasformare il capitale del produttore in un adattamento dell'Odissea, quella di un altro sognatore abbandonato su una spiaggia portoghese dal suo produttore mafioso, o quello di un'attrice che sopravvive grazie all'industria del porno. Le proiezioni del cine club migliorarono notevolmente, anche se il pubblico diminuì almeno quanto il mio budget personale. Mi sono chiesto se il signor Sandoval stesse vendendo le barre di carbone ad altre vecchie sale cinematografiche, o se questo fosse il costo reale del consumo di carbone per ogni proiezione di un film di due ore.

Per concludere l'ultimo ciclo dell'anno, lo invitai a pranzare insieme nel ristorante La Normanda, dove parlammo delle sue storie. Volevo dirgli che ero contento dei miglioramenti che avevo notato nella proiezione. Gli dissi anche che avevo parlato con l'ufficiale incaricato del benessere del personale della Procuradoria, per chiedergli il cambio dei proiettori, ma che lui mi aveva anticipato dicendomi che non erano interessati a continuare con il cine club, ritenevano che i costi di affitto del teatro e le tasse per coordinazione di questo, non giustificassero il poco pubblico che fra i dipendenti stava partecipando alle proiezioni. Ora stavano portando avanti una campagna per incentivare lo sport, sfruttando gli spazi della cassa di compensazione familiare a cui erano iscritti tutti i dipendenti dell'istituzione.

Entrambi rimpiangemmo questa decisione. Finalmente riuscii a sentire il suo affetto per queste immagini che io venero tanto. Brindammo con due birre e ci salutammo.

Non lo rividi più.

 

TESTO ORIGINALE

Fade to black

 

Los jueves en la noche asistíamos, en el viejo auditorio de Radio Sutatenza, a las funciones del Cine club de la Procuraduría General de la República, de la que había logrado ser contratado como coordinador por unos cuantos pesos que ayudaban a cubrir los poco exigentes gastos de un cinéfilo soltero. Gracias a este pasajero trabajo, puedo decir que ya cumplí con mi cuota de servidor público, y a través de este enterarme muy parcialmente de los circuitos, desvíos y atajos que suelen tener los recursos del Estado. Mi ingenuo entusiasmo cineclubista me llevó a programar un ciclo de cine en el cine, deseando contagiar la devoción por este arte de las sombras y las luces a unas decenas de empleados de la oficina central de esta institución, mostrándoles el fascinante mundo de las tras escenas: del trabajo, los sueños y las frustraciones, de este oficio del siglo XX. Entre otras se proyectaron en gastadas copias de 35 milimetros, la alegre y colorida Cantando bajo la lluvia, pero también la oscura y trágica Sunset Boulevard, -llamada en nuestro país El Ocaso de los ídolos-, que mostraban la época dorada de la fábrica de sueños.

La noche en que veíamos Sunset Boulevard y escuchábamos la cadenciosa voz de su protagonista, esforzándose en explicarnos los acontecimientos que lo llevaron a morir asesinado en la piscina de una lujosa mansión de Hollywood, donde aparecía flotando en la primera secuencia de la película; la oscuridad de esta historia alcanzaría lo que su mismo director Billy Wilder -por su puesto un maestro del humor negro- no alcanzó a imaginar. El muerto ya nos había contado que días antes fue secuestrado por la olvidada star Norma Desmond, dueña de la mansión, para obligarlo a escribir el guion de la película en la que ella volvería a resplandecer; entonces empezó a apagarse paulatinamente la luz que iluminaba la pantalla del auditorio. Precisamente en la secuencia en que el prometedor guionista descubre jugando al bridge e inmóviles -como estatuas de cera del Museo de madame Tussaud-, y bajo la titilante incandescencia de las lámparas y candelabros del salón principal, a las viejas estrellas del cine mudo Buster Keaton, Hedda Hopper, Erich Von Stroheim y Gloria Swanson -encrnando a Norma, lsu anfitriona de la decadente mansión-; una pesada sombra cayó sobre sus rostros. Pocos minutos después volvió a iluminarse el salón y bajo el creciente haz de luz se descongelaron sus gestos y se escucharon las voces de las cuatro lánguidas figuras, surgiendo de ellas el ánima que las hacia retornar a la vida desde el mausoleo donde compartían sus viejas glorias.

Siempre me he sorprendido al ver tantas veces una misma película, cómo aparecen sutiles detalles como este, qué habiendo sido inadvertidos en anteriores proyecciones, renuevan de belleza y sentido una obra maestra, evidenciando que nunca es suficiente volverla a contemplar. La película continuó el curso determinado por su guion de hierro, aunque minutos mas tarde volvió a atenuarse el brillo y la luminosidad que debía dirigirse sobre la figura de la cautivadora Norma Desmond, coincidiendo dramática y simbólicamente con la decadencia de aquella maravillosa fiera guardada y olvidada tras las bambalinas de un Hollywood, que ahora en tiempos del sonido y las talkies prefería la clara sintaxis del discurso verbal a la expresividad de la imagen muda. Esta vez fue durante la secuencia en que la actriz visita los estudios de la Paramount respondiendo a una llamada equívoca donde el poderoso productor y director Cecil B DeMile -interpretado por el mismo- busca a Norma para que le preste su exclusivo Isotta Fraschini para una filmación. Pero ella acude engalanada creyendo que se trata de su anhelada próxima película. La luz continuó apagándose sobre la star que espera impacientemente a su viejo amigo DeMile para hablar del contrato que firmarían.

Mientras la diva posa soberbiamente ante los viejos asistentes que la reconocen de inmediato y le preguntan si viene a filmar de nuevo, la penumbra que empezaba a inundar la sala de proyección volvió a disolverse, pues un fuerte rayo de luz la atravesó y dejó a la vista ese primer plano que encuadra de manera tan eficaz el gesto de sublime altivez con que ella mira y desafía el micrófono que le desacomoda su sofisticado tocado de plumas y su velo de malla. Yo recordaba el impertinente aparato de sonido atreviéndose a molestar a la veterana actriz del cine mudo, pero no estos efectos de luz que, en todo caso, no lograban ejecutarse con la precisión de un fade to black del cine clásico de Hollywood. Ante la brusquedad de los cambios de luz, me pregunté si no eran mas bien defectos de la copia en 35 mm, guardada en las bodegas de la distribuidora local durante tantos años o décadas, quizá los mismos que Norma había estado enclaustrada en su lóbrego palacio. No recordaba haber visto estos altibajos de luz en anteriores proyecciones y a mi lado ningún amigo cinéfilo podía resolverme la cuestión.        

Diez minutos mas tarde volvió a bajar lentamente la intensidad de la luz y a subir bruscamente tres minutos después. Los demás espectadores no parecían molestarse o quizá no notaban estas variaciones de luminosidad que empezaron a hacerse presentes cada cuarto de hora mas o menos, sin embargo, cada vez que sucedían yo sentía un ardor en mis retinas como si fuera un incesante puño en la boca de mi estómago. Volvió a suceder una cuarta y quinta vez. El público permanecía absolutamente sumergido en la historia del apuesto guionista secuestrado por la estrella en extinción, pero ya no pude concentrarme nuevamente, las incesantes bajas de luz de la proyección habían aniquilado la magnífica fábula sobre la deshumanizada máquina de producción capitalista que es Hollywood.

No soporte más. Para mi neurótica cinefilia era un descuido en la proyección de la cinta que destruía todo el esfuerzo y talento de tantos artesanos y artistas, toda la esmerada tradición de este gran oficio convertido en industria, la cuantiosa producción de millones de dólares invertidos, la ruina de una joya que debería guardarse y exhibirse protegida por un vidrio de seguridad, sobre el mas elegante terciopelo y con la mejor iluminación para que luciera en todo su esplendor. Además, mi responsabilidad contractual en ese momento como coordinador del Cine-club, era: 

“Dar a conocer a los empleados de la Procuraduría General de la República y a sus familias el valor del séptimo arte a través de un sano y ejemplarizante esparcimiento;

Programar ciclos de películas importantes por su calidad artística y humanística;

Informar en el espacio de su exhibición sobre su historia, técnicas y artistas mas importantes; 

Encargarse de los gastos de la exhibición y supervisar para que esta sea de la mejor manera; 

Realizar foros en que se ilustre al público sobre las película, la historia del cine y sus significados, procurando además formar a través del arte en las buenas costumbre y los valores de nuestra sociedad, institución y nación”. 

Entonces me levanté enérgicamente de la butaca en primera fila y salí del auditorio, subí las escaleras y me dirigí hacia la cabina de proyección, toqué la puerta y al no escuchar respuesta intenté abrirla, pero estaba con seguro, volví a tocar una y dos veces más, cada vez mas fuerte y llamando al proyeccionista, hasta que me abrió y entré a la cabina.

 

-Señor Sandoval ¿Qué sucede con la proyección? ¿No ve cómo se baja la luz a cada momento?-.

-No se de que esta hablando, mire no más-, me dijo, señalándome la ventana de la cabina por donde salia el luminoso rayo que hiba directo a estrellarse a la pantalla de la sala.

Me acerqué y observé las imágenes perfectamente iluminadas.

-Ahora se ve bien, pero así no ha sido así todo el tiempo-, la proyección ha estado inestable le repliqué sin embargo.

-Sucede así con estas películas tan viejas que usted trae, además en blanco y negro. Son muy oscuras y no las mantienen bien en los depósitos de las distribuidoras.

Observé incrédulo al señor Sandoval. Siempre me ha parecido un ser de otro tiempo, un fantasma. No solo por sus más de setenta años que debe tener y por ser uno de los pocos ejemplares de esta especie en extinción que son los proyeccionistas de cine, sino también por el sombrero de cuero y su bastón de arriero con los que, a pesar de su oficio tan urbano, no ha querido olvidar su pasado rural. Desde hace meses lo vengo observando y pienso que debo hacer un documental sobre él, pero quizá la displicencia con que me suele tratar, me ha disuadido de proponérselo.

Quisiera conocer sus gustos cinematográficos, pues definitivamente no nos entendemos: sí Sunset Boulevard, que sospecho ha debido proyectar hace muchos años, le parece un vejestorio en blanco y negro; y El Espejo de Tarkovski fue descalificada como lo mas aburridor que ha visto en todos los años que lleva en su oficio; sólo con Los Cazadores del Arca perdida, que programé para un ciclo de vacaciones familiares, me pareció que se había emocionado un poco. A veces pienso qué, aunque lleve tanto tiempo proyectando películas, no le gusta el cine. Tal parece que los cinéfilos hemos romantizado este oficio donde un hombre consume su vida encerrado en una cabina, ensartando rollos cada veinte minutos en alguno de los dos proyectores que altern durante lafunción, rebobinándolos apenas terminan de proyectarse, y encegueciéndose con los fulminantes lamparazos del arco voltaico de sus lámparas, que hay que alimentar constantemente para mantener la intensidad de su luz. Pienso que también -como una metáfora de este oficio- desde sus inicios, el cine idealizó a los maquinistas ferroviarios manteniendo el fuego y el vapor que produce la fuerza necesaria para mover la máquina en que se desplazan centenares de turistas disfrutando del paisaje, inconscientes todos ellos de este extenuante oficio.     

Me había contado hace unos meses que había llegado a este trabajo por que un tío materno que había puesto una sala de cine en Duitama y se lo había llevado a trabajar en la taquilla y la portería del teatro. Iba todos los días en cicla atravesando los cinco kilómetros desde la casa y la parcela donde vivía con su mamá y sus siete hermanos. Su padre los abandonó al huir de la amenaza de muerte por los chulavitas que luego empezaron a buscarlo a él. Llegó a Bogotá pocos meses después al ser recomendado por su tío a un distribuidor de películas de la empresa Bello Films. Aprendió rápidamente a proyectar películas de 16 y 35 milímetros y se quedó en medio de una ciudad que crecía al ritmo del cine, donde se empezaban a abrir nuevos teatros en la medida en que sus calles se atiborraban de una muchedumbre que circulaba entre el centro y Chapinero en busca de diversiones excitantes. El señor Sandoval se desprevenía y hablaba con mas tranquilidad cuando le hacía preguntas sobre su vida anterior y paralela a su errática llegada al cine. Sin embargo, cuando el tema era este cine club, en el que le insistía en mis responsabilidades contractuales con la Procuraduría que estipulaban que por el pago recibido para su coordinación y funcionamiento, yo debía hacerme cargo de los honorarios del proyeccionista y los gastos de mantenimiento del equipo de proyección, él volvía a manifestar escaso entusiasmo por lo que teníamos que resolver y siempre insistía en que con los pocos pesos que le pagaba por las cuatro proyecciones al mes, apenas le alcanzaba para el transporte y mantener bien los equipos. 

Volviendo a la conversación, le manifesté que no entendía su argmento del por que la inestable luz de la proyección estaba dada por el estado de la copia de las películas, o por que estas fuesen en blanco y negro. Fue entonces cuando acudió a otras razones, sacando el recibo de compra de los carbones del proyector y explicándome que con el presupuesto que le daba para estos, no se alcanzaba a comprar los seis carbones que se requerian para cada proyección. Señalándome con el ejemplo de esta película, ya que tales lámparas de arco voltaico con que funcionan estos obsoletos proyectores del auditorio de Radio Sutatenza, son las mismas que se usaron  para iluminar la escena final de El Ocaso de los ídolos, cuando Norma baja por las escaleras creyendo que se trataba del momento en que volvería a resplandecer en las pantallas y no el de la detención en su domicilio por la policía. En estas, para producir un haz de luz de mas de 10.000 lumens, necesarios para alcanzar la pantalla a 30 metros de distancia, se requiere que se de un arco voltaico incandescente de 3.500 grados celcio entre los electrodos de una corriente continua suspendida. Entonces la luz salta mientras -literálmente- del extremo de la varilla del carbón móvil, que a esta temperatura se va consumiendo, al otro polo que se mantiene fijo en la mitad de un espejo cóncavo y parabólico que la refleja y aumenta. 

-Mire, es así como funcionan las viejas lámparas Fresnel y también estos proyectores. Los carbones se queman con ese calor que generan esta luz incandescente, que además me está dejando ciego-. Me dice, mientras me hala del hombro para que vea detrás del vidrio ahumado donde se produce el arco de fuego y luz. 

Puedo decir que, aunque esto no era nuevo para mi, su ejercicio pedagógico iluminó mi comprensión sobre la producción, los flujos y los consumos de esta industria. Aunque siempre prefería la otra mitad con que se producen las imágenes en movimiento, la acogedora sombra en la que nos escurrimos en la sala de proyección. 

- Debería pedir que instalen aquí proyectores de lámparas de Xenón, en los que la luz es constante y no se necesita estar acercando y ajustando estos carbones cada quince minutos, para que la proyección se mantenga siempre igual. Así, además, nos ahorramos usted y yo los gastos semanales de los carbones. 

- Créame que solicitaré este cambio. Pero por favor, señor Sandoval -le rogué-, no me deje apagar la proyección. Yo, mientras tanto le doy más para las varillas de carbón.

Volví a la sala y no se presentaron más problemas en la proyección. En la última secuencia volvió a brillar la magnifica Gloria Swanson encarnado a la decadente y alienada Norma Desmond bajo la luz de los Fresnel y las cámaras que la esperaban para una falsa filmación, detrás de la cual se encontraba la celada policial para detenerla por el asesinato de su guionista. Nuevamente salí conmovido de esta película, pero esta vez había aprendido algo más a cerca de todo aquello que resplandece y las necesarias sombras que lo producen, del anónimo trabajo del carbón y su permanente consumación. 

El ciclo continuó, vimos otras tantas historias sobre los goces, pasiones y tristezas de quienes hacen cine: la de un director enfrentándose a los miedos y fantasmas de su pasado, la de un autor intentando convertir el capital del productor en una adaptación del Ulises, la de otro soñador abandonado en una playa portuguesa por su mafioso productor, o la de una actriz que sobrevive gracias a la industria del porno. Las proyecciones del cine club mejoraron notablemente, aunque el público mermó, tanto como mi presupuesto personal. Quedé con la duda de si el señor Sandoval estaba vendiendo las varillas de carbón a otras salas viejas de cine, o si este era el gasto real de consumo de carbones por cada proyección de una película de dos horas.

Para finalizar este último ciclo del año, lo invité a almorzar al restaurante La Normanda y hablamos un buen rato de sus historias. Quería manifestarle mi satisfacción por las mejoras que había notado en la proyección. Le comenté también que había hablado con el funcionario encargado del bienestar del personal de la Procuraduría, para solicitarle el cambio de proyectores, pero que él se me había anticipado para contarme que no estaban interesados en continuar con el cine club, pues consideraban que los costos del alquiler del teatro y los honorarios por coordinación de este, no justificaban el poco público que dentro de los empleados estaba yendo a las funciones. Ahora estaban adelantando una campaña para incentivar el deporte, aprovechando los espacios de la caja de compensación familiar a la que estaban inscritos todos los empleados de la institución. 

Ambos lamentamos tal decisión. Finalmente logré sentir su afecto por estas imágenes que yo tanto venero. Brindamos con dos cervezas y nos despedimos. 

No lo he vuelto a ver.

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