«Non ho altro modo di conoscere
il corpo umano che viverlo,
cioè assumere sul mio conto
il dramma che mi attraversa
e confondermi con esso».
(Maurice Marleau-Ponty)
È il dolore ad esigere che venga lasciata una traccia di sé. Solo salvandola dall’oblio del silenzio è possibile dare alla sofferenza un’occasione di riscatto, facendo di questa testimonianza.
Già la barca sballa sulle onde nell'ultimo tramonto che, come sempre, tacita la marina vastità verso Murano: strisce di terra annerita e spoglia, su cui razzolano stormi di chissà cosa dal collo oblungo, e poi, la calma acquea dove galleggia una piccola barca a pesca e una darsena di travi e piattaforme. Mentre le banchine di Murano bisbigliano per non svegliare i fantasmi sprangati nelle case, ripenso alle ultime cose viste.
“E' Dio che limita le cose del mondo, ma non conosciamo quali sono i limiti dell’inferno e
soprattutto: dov’è la frontiera dell’uomo?” (Sokurov)
L’11 settembre è il giorno ideale per le conclusioni...
Questa 68esima mostra è stata una collezione di capolavori, inevitabilmente qualche grande film (penso a quelli di Ferrara, Friedkin, Naderi…) è rimasto fuori dalla premiazione, riflettiamo sulla fine e consoliamoci.
«Il cinema finisce con Kotoko. D’ora in avanti vedere film sarà come assistere a una retrospettiva» (Luca “Quasimodo”). Un giudizio estremo per il capolavoro di Tsukamoto: cinema portato allo stremo, un cinema della crudeltà che suscita violente reazioni emotive nello spettatore, i cui nervi angosciati vibrano a lungo usciti dalla sala.
Se proprio devo tenere in vita il diario - questa farragine in preda ai mutamenti atmosferici (oggi è scesa una cappa d’afa, una diarrea di luce attraverso i palazzi), agli spazi cosparsi di aghi di pino e di gambe cinesi, all’impressione, l’orrore del ritorno - quando magari mi piacerebbe riposarmi almeno un’ora, immergermi nella pace del nostro monolocale di via Zara, che odora di silenzio di là dai muri, nel giardino frusciante di natura morta, di rampicante, di cancello cigolante, e poi dimenticandomi nel sonno), allora devo iniziare dalla fine (o quasi), da Wuthering Heights di Andrea Arnold, non perché sia una storia di infanzia e di perdite (dell’infanzia, e dell’amore), ma perché ciò è espresso da blocchi di esperienza rigogliosa e ruvida, eterea e terragna.
Un biondo pettignone femminile, lasco in favore di camera, squarcia per cinque metri lo schermo: un cretto pantagruelico, pronto a fagocitare l'invasore, lo straniero alla conquista del Vecchiomondo, e il suo desiderio di dominazione e sottomissione.
Per quanto si sia portati a pensare ai personaggi solondzani come a delle propaggini dello stesso autore, in realtà il regista, a differenza di Abe, protagonista del suo ultimo lavoro, con Dark Horse ha dimostrato di riuscire finalmente a lasciare andare personaggi, temi e situazioni così a lungo "coccolati" nel corso del suo percorso filmografico e cominciare un nuovo discorso.
Per Solondz era diventata quasi una sorta di cifra stilistica quella di far cortocircuitare tasselli della propria filmografia creando continui rimandi tra l’ultima regia e i lavori precedentemente realizzati.
Un film compresso fra due catastrofi, quella di Fukushima e una seconda ancora a venire, ma presagita, forse agognata, più temibile perché il suo rombo già incomincia a farsi sentire nella disgregazione delle coscienze. Himizu è la talpa che erode dall’interno i corpi, per svuotarli delle loro forze e rendere più soffocante l’oppressione del dover credere nella ricostruzione dopo lo tsunami, sperare nel futuro del proprio paese, sognare una nuova vita per i giovani.
“Venite adoremus. Dominum”
È così, avanti a destra c’è più cinema. Provate a vederlo Terraferma di Crialese da questa prospettiva, provate a fermarvi in questo lento annegare: dall’isola si vede tutto un mondo nuovo: la vertigine del viaggio che consuma le speranze, le aspettative alimentate dall’attesa di arrivare e vedere se quello che si dice è vero, se perdersi in questo frammento è possibile, se si può sopravvivere alla realtà invece che tuffarsi a occhi chiusi da una barchetta stipata di turisti sculettanti sulle note di Maracaibo.
C'è sembrato che in quest'ultimo lavoro presti ancor più attenzione al dettaglio, a tutti quei brand, e a quegli oggetti, diventati nell'immaginario collettivo dei veri e propri status symbol. Quella che prende forma è una società dominata totalmente dalle merci, dalle etichette, quasi fossero rimasti gli unici contrassegni ancora capaci di funzionare come dispensatori di identità.
Siamo abituati a considerare il montaggio cinematografico come un esercizio di associazione fra le diverse sequenze che compongono il film: il regista armeno Pelešjan invece ingaggia la sua lotta col tempo nella distanza che si viene a creare fra le inquadrature, nello spazio che le separa, per misurarne la durata nella linea di sutura che c’è fra loro o intrappolarlo nel fermo di un’immagine.
Cucinandogli il "pollo alle prugne" Faranguisse riesce a conquistarsi fuggevoli parole d'affetto da suo marito Nasser-Ali, il miglior violinista della sua generazione. Sa che ciò che ha permesso al proprio sposo di diventare un vero e proprio artista e non rimanere soltanto un virtuoso dello strumento è stato l'amore. Ma non verso di lei.
La morte a Venezia è questo muto grondare delle cose, la loro assenza bagnata che ti pone in lontananza, ti dilaga, ti polverizza. Anche le immagini che ha filmato Saverio (operatore di Uzak, artefice di immagini, ecc.) al suo primo giorno al Lido, il montaggio che ne ha fatto, dice questo sbiadirsi dei passi, come un annuvolarsi, uno smarrimento letto in fondo a una pupilla.
Alle 9 entro nella Sala Darsena per Shame, di Steve McQueen che ho amato al tempo del suo Hunger, fenomenologia dell’autodistruzione nel presente per poter ritrovare l’infanzia. Ma qui non è la stessa cosa, perché a fronte di un inizio folgorante che lascerebbe presagire lo svolgersi di una variazione (video)artistica sul melò (del resto McQueen viene dalla videoarte), il film pur mantenendo un livello sufficiente di espressività sembra sfilacciarsi in alcuni punti del finale.
“Che sarà di Dio se dovessi morire?” (Schreber)
Dicevo: un festival di nevrastenici, e aggiungo: compiaciuti cultori della patologia.
Dopo un considerevole numero di film, in questo quarto giorno di permanenza al Lido, mi sembra di poter dire con una certa sicurezza che il corpo è soggetto privilegiato della 68esima mostra del cinema.
In questo cabotaggio circuitale, andirivieni di un chilometro a passo sostenuto, che sono le giornate alla Mostra, mentre le biciclette vanno a passo d'uomo su uno sfondo di capanne da spiaggia, non mi ero mai accorto che alla finestra della sala stampa (sempre lei: luogo di osservazione/riflessione) non si vede solo un qualche gabbiano puntuto, a volteggiare in mezzo ai filamenti delle nuvole e fino al bordo delle inferriate, come scrutando questi omini (inutilmente) formicolanti, chini sulle tastiere; ma anche le cime degli alberi, già un po' gialli, ondeggianti, che adornano e intristiscono le aiuole della cappella in cui si celebra il funerale di Frédéric (Louis Garrel) in Une été brûlant.
Un fantasma s’aggira per l’Occidente, lo spirito del capitalismo. Louise Wimmer potrebbe essere un eponimo contemporaneo, un revenant del modernismo decadente, la tipica parabola pseudoamericaneggiante dell’eroe che contando sulla sola sua virtù riesce nell’impresa.
Mangia o verrai mangiato: è la legge di natura che regola i rapporti di potere (che sono sempre rapporti di forza) fra gli uomini, bestie fra le bestie, a seconda dei casi prede o carnefici. Lo capisce bene Pollicino, protagonista della fiaba in costume riadattata da Marina de Van, e a proprie spese: anche i legami familiari vengono meno dinanzi al dittato della natura, in base al quale i suoi genitori, morenti di fame, decidono di abbandonare lui e i suoi fratelli.
Si era certi che nessuno, meglio del Profeta della "nuova carne", si potesse confrontare con la dovuta dimestichezza e senza eccessivi timori reverenziali con la vicenda che ha per protagonisti Gustav Jung, Sabina Spielrein (sua paziente, amante e collega) e Sigmund Freud.
Chi meglio di Cronenberg, sempre attento nell'osseravre l'uomo nei suoi tentativi di manipolazione dell'esistente, avrebbe potuto gestire il cortocircuito umano e professionale tra il padre della psicanalisi e il suo più brillante, ma allo stesso tempo "indisciplinato" discepolo?
Michele Sardone
La vertigine di Alpis si sente una volta fuori dalla sala, tornati al livello del Lido: si insinua surrettizio il dubbio che ciò cui assistiamo sia solo una recita, il mondo sia un teatro, il nostro apparire una posa sedimentatasi in anni di convenzioni, i rapporti umani siano ascrivibili a un tacito canovaccio.
Nel sopravvenuto sentore del sonno, specie di apocatastasi della giornata, mi accorgo che quando sono qua, tendo a non guardare mai in alto, quando mi sveglio, per sapere se c’è o no quel sole appiccicoso, che ti scotta la schiena, mentre stai a scrivere di copertine celesti nella sala stampa e di cinema e scrittura che parlano di sé, parlano da sé nella demiurgia di ciò che sfugge miracolosamente all’egida del vuoto, poi uno sguardo dietro, mentre un cinese fantastica sullo schermo del suo computer (le luci elettriche della sua città dove la sua ragazza balla specchiandosi in una vetrina), e alla finestra, il mare.
Il terzo pezzo su Cut, il terzo uomo che entra in scena di sbieco (pensando più a Totò che a Carol Reed) come il terzo elemento che nell'inquadratura ha ragion d'essere solo in rapporto agli altri due, e che pure ha la sua funzione prospettica. Sebbene in Cut il terzo elemento nell'immagine abbia valore fortemente simbolico: il pacco regalo con i resti del fratello morto; il sacco da box, indolente e ipnotico come un impiccato, presagio del massacro di là da venire; la poltrona vuota, segno del potere impersonale e ancor più invincibile grazie alla sua assenza.
"In sostanza, l'idea è di fare in modo che le etnie, la politica, le razze e le nazioni si trasformino tutte in oggetti non esistenti... - simili a ovali, scatole, grumi, armadi!
- Potreste pensare che sia vero "qualcuno", un vero "rappresentante del popolo", ma in realtà è solo un rappresentante di battiscopa, di macchie di caffè e nient'altro.
- In sostanza invettive politiche che bisognerebbe percepire solo come invettive poetiche. - In sostanza, spalmare la geopolitica dalla geologia alla poetica.
- Potete farvi venire in mente qualsiasi altra cosa!"
All’improvviso il temporale scarica sul lido la sua congerie di pozzanghere, di foglie fredde, mentre compare a vista il nodo dei palazzi del cinema, ingessati tra i recinti e i cantieri. Un senso di provvisorietà - in attesa della stabilità che darebbe il nuovo palazzo del cinema - che è tutt’uno con la sorpresa di avere una proiezione in meno a disposizione della stampa. E allora le file sono assembramenti selvaggi di giornalisti (quelli col lasciapassare rosso interessati a quel tale tacco della diva o a quel tale pacco del divo) e critici vari a vedere Polanski e, a sera, Garrel, quando cominciano a venire fuori, come le zanzare, le femmine sui tacchi e i ragazzoni coi pacchi, per una movida stagionale che si pavoneggia qui, prima di tornare alla desolazione autunnale.
Garrel sembra voler portare alle estreme conseguenze l'immagine-tempo, svincolando questa da qualsiasi subordinazione di tipo narrativo. Compone le inquadrature come se fossero delle nature morte, facendone un'unità a sé stante, letteralmente indipendenti, autosufficienti dal contesto. Muove la sua macchina da presa per una Roma volutamente fotografata al di fuori degli abituali tracciati turistici, dal luccichio ingessato delle immagini da cartolina.
Un film giocato tutto sull’ostentazione di contrasti visivo-sonori e su un eccesso di semplificazione dei caratteri e dei ruoli dei protagonisti: la distanza dei genitori dai figli si riflette sulla incommensurabile differenza dei due mondi; la luce accecante del primo fa sempre da contrappunto con la claustrofobica oscurità del secondo; i grandi giocano a mascherare l’ipocrisia che si addice ai loro ruoli di sorveglianti, educatori, dottori mentre i bambini sono impossibilitati a uscire dall’interpretazione di una rigida violenta gerarchia che li vorrebbe adulti.
Cut (A. Naderi) – Orizzonti
«Maestro Kurosawa, il cinema sta morendo. Io voglio sopravvivere».
Incolonnati in una smilza fila per la Sala Grande con i nostri fieri accrediti legati al collo e le poche ore di sonno ad appesantirci le palpebre. L’aspettazione sconsolata che ci faceva affermare con una certa sicurezza che le due di pomeriggio “volgono già il giorno verso sera!” (QuasiModo) si declina in un’attesa di sogno (che fa stringere la mano di Ghezzi e lascia teorizzare tattiche sulla disposizione dei posti a sedere - in prima fila a destra c’è più cinema -; la corsa per i posti centrali, quelli dietro la nuca di Naderi; e Müller nel suo impeccabile abito che sa di mondi lontani…) prima della visione.
Un regista non riesce a comunicare con il figlio adolescente. Per segnare un campo in comune, tenta allora di cercare nel ragazzo un riflesso del ricordo che aveva di sé da giovane: ciò che otterrà non sarà uno specchiarsi, ma una sovrimpressione straniante. Photographic memory prende come pretesto il naturale fraintendimento che intercorre fra le generazioni per riflettere su quel legame capriccioso fra tempo e immagine che è il ricordo.
Il dio della carneficina non arma solo il braccio delle schiere degli eserciti. S'annida ovunque, pronto a scatenare il gioco al massacro appena l'occasione lo consente. Nessuno può credersi escluso, anche se appartiene alla schiera della cosidetta gente per bene, quella che i problemi li risolve dialogando. Persone boriose, che sotto la scorza dell'ostentata superiorità morale, covano, come tutti, meschini desideri di ripicca. E proprio questo sforzo di celare le loro reali pulsioni li rende il ventre molle della "civile" coscienza borghese.
UZAK è in partenza. Direzione Venezia.
L’organizzazione della 68° Mostra del Cinema, ritenendo la nostra rivista «molto bella e congruente» (queste le parole dell’Ufficio Stampa), ci dà modo di essere presenti come testata durante la manifestazione lidense. Siamo pronti a ricambiare l’onore concessoci facendoci carico dell’onere della partecipazione. Stiamo tracciando traiettorie che non ci facciano inabissare nel mare magnum del programma festivaliero, mai stato, in questi ultimi anni, tanto ricco e succulento.
Il premio della critica online torna alla
68^ Mostra Internazionale del Cinema di Venezia
Il riconoscimento verrà attribuito dai collaboratori di 49 tra le migliori webzine italiane
Venezia, 31 agosto 2010. Il Mouse d'Oro torna alla 68^ Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.
Il premio, istituito nell'agosto 2009 su iniziativa di Hideout.it, è assegnato da una speciale giuria formata dai collaboratori di 49 tra le migliori webzine italiane di cinema, e viene assegnato ai due migliori film scelti dalla critica online: Mouse d’oro per il primo classificato del Concorso e Mouse d’argento al primo classificato tra le sezioni collaterali.