“Che sarà di Dio se dovessi morire?” (Schreber)
Dicevo: un festival di nevrastenici, e aggiungo: compiaciuti cultori della patologia.
Dopo un considerevole numero di film, in questo quarto giorno di permanenza al Lido, mi sembra di poter dire con una certa sicurezza che il corpo è soggetto privilegiato della 68esima mostra del cinema.
Se è quasi ovvio che sia indispensabile nel lavoro di McQueen, sorprende la particolareggiata vivisezione delle perversioni; dall’attesissimo Cronenberg allo straniante "Pollicino" di Marina de Van (relegato in una saletta piccola piccola da consentire ai pochi spettatori di stare con il naso in su, miniaturizzati sotto lo schermo); dal cinismo spiazzante di Lanthimos alle memorie di Schreber (tra i più importanti giuristi tedeschi della fine dell’800, radiotrasmettitore meccanico di messaggi divini, aspirante salvatore del mondo attraverso il sacrificio del suo corpo declinato al femminile, musa freudiana, umana-non-umana macchina scrivente), passando per il rugginoso Gaglianone al francesissimo Garrel, fino a recuperare il Naderi-Pasolini più videoartista che sperimenta la malsana terapia dell’autoriflesso – riflessione su/per le piaghe, riabilitazione di tic, ossessioni onaniste, violenze cerebrali, traumi infantili, balbuzie e miagolii, potenzialità inesplorate di organi fatti a pezzi, pezzi di diari, pezzi di film, in sostanza tanti pazzi resuscitati da una quantità ingestibile di visioni (nonostante la discriminazione a cui è sottoposto l’arancione, sbiadito per l’attesa al sole, che viene sempre dopo la spicciolata di rossi viziati e di blu privilegiati, ma di questo non ci si può lamentare ora che ha anche smesso di piovere).
Andrebbe brevettata questa terapia per rinsavire dalla normalità, a tratti giungono echi di notizie di pasticciate manovre finanziarie, appelli alla collaborazione, sacrifici, vergogna del politicume… si salvi chi può!
Quello che qui ora assorbe le nostre discussioni è perché la sessualità deve essere così drammatizzata, pare che dal momento che Dio è morto all’uomo non resti che elaborare il lutto attraverso la colpevolizzazione del suo corpo e la crocifissione dei suoi pensieri. Così anche McQueen, che pur dando un’altra ottima prova di regia, massacra i genitali dell’affamato Fassbender e lascia percepire sottotraccia ancora drammoni familiari irrisolti nell’inconscio. Nell’iperbole estetizzante delle curve che si mischiano per perdersi, non si riesce a sfuggire dalle solite raffazzonate giustificazioni psicanaltiche. Per tornare al penultimo incosciente Pasolini, sarebbe il caso di recuperare una sessualità giocosa, una gaia scienza non consolatoria, appassionata dei limiti del corpo di cui c’è traccia in certo cinema balcanico, penso in particolare ad “Attenberg” dello scorso anno - e recuperato nella saletta piccola piccola quest’anno, con tanto di regista in sala e qualche celebrità – in cui il divenire-animale è funzionale alla sperimentazione corporale, che restituisce al corpo un poco della dovuta leggerezza. La “vergogna” invece è quella dei sopravvissuti (possibile che Nietzsche sia stato stravolto fino a questo punto?). L’eccesso di essere uomini non doveva essere confuso in una qualche vaga somiglianza con un qualche vago creatore, ma sarebbe dovuto servire ad affermare un’etica delle potenzialità del corpo: che cosa può un corpo, appunto. E va bene la riflessione sulla schizofrenia, utile rilettura artaudiana, ma purché serva a liberarsi della vergogna ché, come sappiamo, il cinema a differenza di Dio non può morire e riesce talvolta a fare miracoli.