La Germania delle avanguardie storiche, tra piena, spasmodica espressione dell'oscurità deformante nascosta al centro delle cose, della terra, proprio degli strati di terreno, e astrazione della materia in nome di una purità dei segni; fu il luogo e il tempo in cui si puntualizzò una sorta di sintesi degli slanci estetici e filosofici che da Novalis a Nietzsche avevano caratterizzato la cultura ottocentesca arrivando, appunto, fino agli anni Venti del Novecento, al concetto di Universelle Sprache, fulcro dell'esperienza di un gruppo di artisti intenti a sperimentare le intersezioni, le osmosi tra le varie arti rifacendosi all'idea rimbaudiana di arte totale.
C’è una scena in Berlino, Sinfonia di una grande città di Walter Ruttmann (1927) dove una ragazzina, gli occhi color ametista, spaurita e epifanica come il coyote di Collateral di Michael Mann, attraversa, di notte, la strada striata dalla luce dei lampioni e dei cartelloni pubblicitari: un momento prima di sparire si volta verso la macchina da presa (come facevano i borghesi delle vue Lumière, inconsapevoli figuranti e spettatori di cinema che guardavano davanti al vetro dell’obbiettivo, senza saperlo, se stessi). Nei film di questo tipo, il momento epifanico è proprio dato dalla sospensione repentina del montaggio come principio onnicomprensivo di costruzione ritmico-musicale e assimilazione di frammenti di realtà e, per un attimo (come in certe immagini della prima kinopravda di Vertov, altrettanto inesorabilmente ritmica – e «ritmo ritmo ritmo» era la didascalia che Moholy-Nagy inseriva nella sua sceneggiatura per immagini e parole Dinamica di una grande città) abbandonarsi a rievocare il braille aptico della vecchia prosa del cinematografo e dello specchio stendhaliano trascinato lungo il cammino. Non è un caso che proprio in un momento di deriva come questo, dove l’ «intelligenza di una macchina» si opacizza e la narrazione si apre ad un istante di silenzio, la ragazzina con gli occhi di ametista di Ruttmann finisca per ricordare l’Alice di Wenders, altra bambina abbandonata che, in un movimento così simile e così diverso, e preda dell’imperativo di un altro fuoricampo, osserva, dal finestrino di un’auto a nolo, il paesaggio cittadino che scorre davanti a lei cercando di riconoscere la facciata della casa dei nonni.
Herzog preferisce camminare, lo ha sempre dichiarato. Lo preferisce come gesto etico, anzitutto, di contatto diretto con il proprio corpo e il mondo. Ma camminare, come ama spesso dire, è anche un esercizio dello sguardo, perché ti spinge ad osservare i dettagli del mondo mentre il tuo corpo si muove lentamente, al ritmo del tuo respiro (camminare ed osservare è la prova d’ingresso per gli studenti di cinema della sua folle e geniale Rogue Film School). Infine, camminare è un gesto mistico, come quello che lo spingerà a compiere il viaggio da Monaco a Parigi a piedi come voto per salvare la vita alla sua amica Lotte Eisner, gravemente malata. Camminare non è però solo un gesto dai molteplici significati, è anche un’immagine, un’idea. Un’idea di cinema, soprattutto. Camminare, in questa prospettiva, diventa l’immagine metaforica di una forma di montaggio, di costruzione dello sguardo filmico. È un’immagine che pensa il cinema come esplorazione, come presa d’atto di un mondo le cui connessioni sono possibili solo mediante un modo preciso di guardare e immaginare corpi, spazi, eventi e incontri.
Il racconto Heart of Darkness di Conrad, basato sul viaggio compiuto dallo stesso autore a bordo del vaporetto Roi des Belges lungo il fiume Congo e pubblicato nel 1899, ha ispirato il cinema in più di una occasione. In particolare, nel decennio degli anni settanta del secolo scorso, si afferma una nuova generazione di artisti negli Stati Uniti e in Europa e la letteratura degli inizi del Novecento deve aver colpito l’immaginazione di alcuni di loro. La sete di potere dell’imperialismo angloamericano e la colonizzazione di sconosciute terre aspre e selvagge apre scenari inediti nell’incipiente e rivoluzionario XX secolo come pure la fine degli anni sessanta con le lotte di classe e le aspirazioni libertarie giovanili. Ergo non è casuale che il Neuer Deutscher Film e la New Hollywood si incontrano alla reciproca ricerca di ignoti orizzonti e di avvincenti sfide cinematografiche.
Mentre la macchina da presa volteggia su per il fianco femico dell’enorme vulcano a scudo dell’isola di Ambrym, le voci del coro di monaci del Monastero Pechersk di Kiev intonano un possente canto russo ortodosso. Pare che quando Werzog abbia rivisto queste riprese aeree, con cui ha poi deciso di aprire Into the Inferno, abbia capito «in un istante» (lo ha detto lui stesso in uno speech durante il Red Bull Music Academy New York Festival 2017) che l’unico commento musicale adeguato a quelle immagini di lava basaltica stratificata, di ascensione sopra quella colossale, sedimentata opera della natura e del tempo, fosse un coro della tradizione sacra sovietica.
«Se non c'è un legame sonoro, c'è un legame estetico,
vale a dire che quando il legame non è formale, è filosofico».
D. STUBBS, Future Days. Krautrock and the Re-building of Modern Germany
traduzione a cura di Giovanni Festa
Le Berceau de cristal (1976), uno dei film di Philippe Garrel con Nico, sembra a volte una variazione scoperta e futura di Le Sang d'un Poète (Jean Cocteau, 1932), anche quando questo film surrealista appare, in un certo senso, fuori dal tempo. Le loro differenze evidenti – il colore biancastro, a volte arrossato invece del bianco e nero a basso contrasto, l'oppio scambiato con l'hashish e l'eroina (fuori campo), la musicalità torbida e brulicante dovuta ai sintetizzatori di Ash Ra Tempel contro la scintillante musica orchestrale dell'egregio Georges Auric, etc. – non sono rilevanti quanto quello sguardo nell'oscurità. Perché un'atmosfera malsana circonda i poeti maledetti davanti e dietro la macchina da presa. Si manifesta in quelle abitazioni chiuse, in quegli interni stantii, in quelle scene enigmatiche e sperimentali di crimine o noia, in attesa delle muse, della droga e dell'avventura. Le medesime azioni si svolgono negli attici, nelle camere d'albergo, su entrambi i lati dello specchio. Forse c'è anche una debole, segreta reminiscenza tra l'attrice in lutto e la versione contemporanea di Herzog-Kinski del vampiro che era stato immortalato in uno degli anni della peste: Nosferatu come parossismo della bohème.