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  • C’è una scena inBerlino, Sinfonia di una grande città di Walter Ruttmann (1927) dove una ragazzina, gli occhi color ametista, spaurita e epifanica come il coyote diCollateraldi Michael Mann, attraversa, di notte, la strada striata dalla luce dei lampioni e dei cartelloni pubblicitari: un momento prima di sparire si volta verso la macchina da presa (come facevano i borghesi delle vue Lumière, inconsapevoli figuranti e spettatori di cinema che guardavano davanti al vetro dell’obbiettivo, senza saperlo, se stessi). Nei film di questo tipo, il momento epifanico è proprio dato dalla sospensione repentina del montaggio come principio onnicomprensivo di costruzione ritmico-musicale e assimilazione di frammenti di realtà e, per un attimo (come in certe immagini della prima kinopravda di Vertov, altrettanto inesorabilmente ritmica – e «ritmo ritmo ritmo» era la didascalia che Moholy-Nagy inseriva nella sua sceneggiatura per immagini e paroleDinamica di una grande città) abbandonarsi a rievocare il braille aptico della vecchia prosa del cinematografo e dello specchio stendhaliano trascinato lungo il cammino. Non è un caso che proprio in un momento di deriva come questo, dove l’ «intelligenza di una macchina» si opacizza e la narrazione si apre ad un istante di silenzio, la ragazzina con gli occhi di ametista di Ruttmann finisca per ricordare l’Alice di Wenders, altra bambina abbandonata che, in un movimento così simile e così diverso, e preda dell’imperativo di un altro fuoricampo, osserva, dal finestrino di un’auto a nolo, il paesaggio cittadino che scorre davanti a lei cercando di riconoscere la facciata della casa dei nonni.

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