Speciale Berlino 2017

Massimo Causo


altLa scena – a volte, spesso... – è la crisi. E la guardi come un'esposizione placida e oscena del dissidio interiore, o anche esteriore, di luoghi e figure che mostrano e nascondono la loro sofferenza. I tempi sono quelli che sono, del resto, e il cinema da sempre se ne fa carico. La scena è la crisi e il filmare la trasforma in una drammaturgia che interferisce sul rapporto intimo tra luoghi e i corpi, eppure tra i drammi e la forma che assumono: transfert, lapsus, allucinazioni, semplici distrazioni negli spazi della memoria o del presente. La Berlinale 67 volge al termine (scrivo a poche ore dall’Orso d’Oro, hoping in Aki...) e si porta dentro questa scena, esposta in alcuni dei film più belli di un Concorso forse troppo discontinuo.

Massimo Causo


altPartenze dopo l’approdo. Derive fluviali visionarie nell’estrema libertà dell'ignoto mondo amazzonico, dopo l’arrivo portuale in una Ellis Island che diventava costrizione, prigione. The Lost City of Z dopo The Immigrant: James Gray affronta il suo sogno esotico, l’accensione di un film d’avventura (ancora un film “in costume”) seguendo la linea di una fuga prospettica verso l’ignoto, che incarna il solito dissidio grayano tra la realtà che si abita e il sogno che si sente a portata di mano. Il luogo dell’appartenenza (la famiglia, la città, il destino) è lo spazio di una coscienza che sta stretta e la materia del desiderare è sempre lì a portata di mano, intangibile nella sua vicinanza.

Massimo Causo


Berlinale 67, figure in campo in tre film del Concorso: Final Portrait di Stanley Tucci, The Dinner di Oren Moverman e The Party di Sally Potter. C’è prima di tutto lo spazio, che accoglie le mutazioni in corso, lasciando implodere la materia di cui sono fatti i personaggi nel loro ritrovarsi faccia a faccia con la scena, stretti in un’azione che si conclude in se stessa e si consegna al lavorio dei caratteri, all’evoluzione relazionale della drammaturgia. Il setting è teso a segmentare la teatralità dell’assunto in un impianto filmico che implode nella concretezza del set, non tanto il luogo dell’azione quanto l’azione nel luogo: un’implosione di psicologie che dissimulano la drammaturgia nella fatale convivenza scenica e nella implicita connivenza psicologica. L’esclusione del fuori concede alla concatenazione di eventi lo spazio di un faccia a faccia che gioca con la frontalità tra i personaggi che duellano, ma anche tra scena e spettatore. Il film resta in mezzo, quasi un happening, spesso prigioniero di se stesso, di una drammaturgia da sceneggiatura, di una potenza da (over) acting che si affida alla materia grezza e sublime della prestazione attoriale.

Massimo Causo


altBerlinale 67, primi giorni. Tracce al femminile da due registe europee dell’Est, Ildikó Enyedi e Agnieszka Holland, ungherese l’una polacca l’altra, entrambe in fuori quota generazionale, nel senso che non sono certo ultima leva (classe ’55 l’una, ’48 l’altra) come sembra necessario oggi per essere nell’attenzione critica, eppure entrambe capaci di un cinema che ha ancora dentro i segni del rinnovamento di cui, magari marginalmente, sono state portatrici. In Concorso, con On body and Soul la Enyedi e con Spoor la Holland, entrambe hanno segnato questo esordio della Berlinale con due film in cui una sorta di visione magica della realtà, le connessioni tra vita reale e vita spirituale, le transizioni tra relazioni umane e relazioni sociali si coniugano nella traccia di un cinema potentemente visivo, sensibilmente filmico per quanto distante dall’algida materializzazione per così dire realistica della contemporaneità, che preferisce osservare invece di maneggiare, elaborare. Entrambi sono film che hanno a che fare col mistero della natura, con la molteplicità della vita, e nel fare questo elaborano una visione dell’esistente che transita dall’uomo alla società e attraversa la trasparenza visiva del filmare.

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