È possibile girare un film davvero ribelle al fascismo estetico e formale del cosiddetto postmoderno, magari risalendo nel tempo a ciò che vi era prima del cinema, al teatro delle ombre. In O Gebo e a Sombra la finzione è subito palese: dal caos buio antecedente ad ogni creazione vengono fuori mani gigantesche, rapaci, pronte a muovere sulla scena i destini delle figurine, delle quali vediamo, come se al posto dello schermo fosse stato montato sulla quarta parete un telo proto-cinematografico, le loro silhouette, proiettate dalla luce irreale di una lampada ad olio.
«O amore che tutto crei
sublime eterna carità,
la tua fiamma è più forte d'ogni cosa,
più forte della morte.»
(Giovanni della Croce)
La sensazione di trovarsi di fronte a un’opera epica sull’esistenza è evidente già dall’inizio di Millennial Rapture; il mito entra prepotentemente nelle vicende individuali e le stravolge seguendo la magnifica prevedibilità del ritornello “si vive. Si muore.”: in una grotta arroccata nell’oltre mondo, Izanami brucia dando alla luce Ho-Masubi, il dio del fuoco, origine di ogni distruzione.
Spesso non si sente la stanchezza, una volta entrati in Darsena (dove ronza, rimugina all’improvviso, addirittura accenna un goffo passo di danza, la stampa, in coda a Korine), e si resta lo stesso a occhi spalancati (nonostante il poco sonno, il pasto frugale, la cappa di umidità che forma sul volto un sudario di occhiaie), di fronte allo schermo, come vivificati, nutriti, dalla farandola di immagini brulicanti, nostro malgrado.
Su tutto, lo straodinario impiego del contrappunto musicale. E in particolare la sequenza, già conquistatasi uno spazio di diritto nelle future antologie di manualistica cinematografica, che fotografa con lucida spietatezza l'inabissarsi delle protagoniste oltre i limiti del decoro morale causticamente commentato da Everytime di Britney Spears.
L'opera di Harmony Korine mostra il lato ferino, orgiastico, brutale, che cova al di sotto del superficialmente innocuo e patinato immaginario pop-giovanilistico.
La Storia avanza intruppata e trascina dietro di sé una carovana di straccioni, esuli, nobili decaduti, ognuno portatore di un frammento di vissuto, o dell’immagine di un volto (magari dell’amore perduto) su cui la camera indugia come a voler ricomporre un quadro cui manca sempre un dettaglio per essere compiuto. Dalla Storia si fugge andando oltre le Linee di Wellington, fortificazioni tanto imponenti da essere leggendarie, descritte come appartenenti a un mito, quasi irreali quindi insuperabili: dinanzi a loro la storiografia si ferma e lascia il posto al fantasmatico.
Che senso ha realizzare un film che ripropone gli scricchiolii, i primi segnali di cedimento interno, di un sistema, quello neoliberista, di cui stiamo già assistendo al collasso? Che poi questo sistema, nonostante l'evidente sfacelo, stia attraversando la crisi, da lui stesso generata, senza perderne l'egemonia, è un altro discorso.
Ramin Bahrani con At any price firma un'opera anacronistica, fuori tempo massimo, sia per il discorso affrontato che per l'iconografia utilizzata.
Sognare i termini della disgiunzione, e del soffocamento (si dovrebbe sognare solo a occhi spalancati, di fronte a una sinfonia tarkovskiana), equivale allo svegliarsi in una stanza ravviata dal temporale, oramai rappreso dentro uno scuro riverbero d’alba, da cui parte la striscia di sangue sull’asfalto. Kim Ki-duk fa ancora della poesia sangue, Pietà, sulla strada di quel rigore “digitale” che era già di Arirang e confermando lo spostamento della sua ricerca etica, dai rapporti amorosi (governati, come si sa, dalla coercizione, dalla violenza, da un senso di carcerazione e di perdita spesso irrevocabile) a quelli che si instaurano all’interno della società, in nome della profittazione e del sopruso.
La straziante e lucida confessione di Arirang era il preludio al soffocamento di Pieta: Kim Ki-duk non smette di elaborare questo discorso disperante sulla lacerazione attraverso l’incisione dei corpi, il senso di colpa che si abbatte sulle generazioni e scarnifica l’umano.
La mancanza di pietà travestita da solidale partecipazione alla sofferenza degli altri è l’aspetto più efficace per descrivere l’attuale sistema sociale fondato sulla violenza del debito. Sopravvivere al bisogno significa rinunciare necessariamente a qualcosa; l’umanità subalterna nascosta in bui e metallici sotterranei cede ciò che le avanza, la parte di corpo ancora funzionante, utile al sistema.
La descrizione dell’uomo indebitato non può quindi che eccedere nella esibizione del dolore, nello spargimento del sangue che massacra gli affetti più cari e condanna a una sopravvivenza insostenibile. È una visione che precipita progressivamente sottoterra, costringendo a spalancare gli occhi mentre il nodo stringe la gola, taglia il respiro, abbandona l’aria. Il denaro è il gancio che tiene insieme la solitudine e l’assenza degli affetti, la mancanza e la paura della perdita, il senso di colpa e la vendetta, la condanna e la morte.
Kitano non è morto, sebbene ci sia qualcuno che dica il contrario da cinque anni, da quando è uscito Kantoku banzai!, il film con il quale ha provato a suicidare la propria immagine gloriosa, già sezionata e frammentata (forse per sopportarne il peso un po’ alla volta) in Takeshis’.
Outrage beyond è oltre il semplice vilipendio alla gloria del filmaker, è la contraddizione di non voler fare un film attraverso la sua messa in opera.
Fuori, l’arco delle giornate, dello stanco via vai, ruminare, ritornare, l’odore di pioggia, è per lo più sentimento di privazione, mancanza delle immagini, del loro spessore diafano, danzato, ridondante, che gronda spazio, passaggi di luce tra foglie e una sinfonica, solitaria erranza; fuori si passa il tempo cercando di dare senso all’assenza (di immagini), a un’attesa come infantile che misura da sola il sé, e il se. L’erranza apre To The Wonder, capolavoro di Terence Malick, e già dall’inizio non se ne vorrebbe più uscire; lirico incedere d’esseri (tre api perse su un soffitto) nel freddo atmosferico, sempre minacciato dalla dispersione, disaffezione, da una sedimentazione di lontananze.
Dopo il Maggio francese arriva un été brûlant, la stagione in cui vengono bruciati i sogni rivoluzionari di ogni giovane generazione. Come fosse uno scorcio impressionista, il sogno appare: una ragazza vestita di bianco passeggia in un bosco e fa entrare in quadro il suo giovane pittore. Egli prova a farla sua, ma la visione gli sfugge via. Il ragazzo tenta allora di inseguire la bellezza attraverso la lotta contro il potere che deturpa il volto di ciò che gli si oppone: fa di un quadro un manifesto politico mentre un graffito propagandistico lo compone come fosse un collage performativo.
Prima di tutto e soprattutto è l’enorme talento. Un talento capace di coniugare la magniloquenza mainstream hollywoodiana con una complessità di scrittura propria del cinema d'autore più radicale. E il risultato più portentoso di questo difficilissimo equilibrio espressivo continua a rimanere The tree of life. Impresa prometeica, vera e propria cosmogonia universale, afflato di trascendenza che aveva scaturigine dall'immediata contingenza; film generoso, sovrabbondante. Manierista, ma di un maniersimo denso e dolente. To the wonder è la sterile ripetizione di questa maniera, affascinante ma pur sempre ripetitiva, in cui compaiono tutti gli elementi della poetica del regista, forse, ancor più elevati a potenza (su tutti il totale azzeramento della costruzione narrativa, della progressione drammaturgica, per lasciare completo spazio alla riflessione spirituale).
Sfuggire i cliché e capovolgere il senso comune delle convenzioni. Questi i talenti della regista Solveig Anspach, islandese trapiantata in Francia che sa descrivere le piccole cose con lo sguardo incontaminato di chi sa osservare le linee del reale. Così, l’incrocio di due gru nel cielo di Montreuil ha posto le basi per Queen of Montreuil (presentato nel programma delle Giornate degli Autori), storia stralunata e imprevedibile di Agathe e della sua famiglia improvvisa e improvvisata, che le si stringe attorno al ritorno dal Vietnam, dove il marito è morto lasciandola sola. Ma la solitudine va cercata in questa casa piena di oggetti e di fiori, con le finestre che si aprono ad accogliere tutti e dove, pare, confluiscano strade verso luoghi immaginari di pura poesia.
Il film di Ciprì è un’interrogazione intelligente sull’obbedienza arcaica che trascende in sacrificio della carne. La società italiana attuale si riflette in una famiglia siciliana preistorica attraverso la tragedia di un conflitto generazionale che non può trovare una soluzione differente dal martirio del giovane corpo inetto disadattato dislocato del figlio.Occupare lo spazio non basta a essere corpo, la materia deve trovare una giustificazione attraverso il dispendio di se stessa, l’esibizione di una dolorosa confessione indotta dallo spettatore della tragedia: che si tratti della bambina uccisa in un attentato mafioso, o del fratello - interpretato prima dal giovane Fabrizio Falco e poi del maturo Alfredo Castro -, la presenza del figlio scompare in funzione di una storia incombente che lo vuole strumento sottomesso a delle regole incomprensibili, inchiodato a delle sovrastrutture alienanti (Famiglia, Stato, Chiesa) rese attraverso rappresentazioni oniriche e ironiche che ricordano gli sketch stranianti di cinica memoria.
Come in ogni film in cui viene descritta una comunità chiusa e integralista, il gioco combinatorio fra i personaggi segue l’avvilupparsi del reticolo dei codici e delle meccaniche intorno a una predestinata vittima sacrificale. Appare quindi una vergine 18enne, circonfusa di una luce aurorale che polverosa le accarezza il bianco del vestito, del collo e delle guance, come in un quadro di Monet.
«La sfera pubblica si privatizza nella coscienza del pubblico che consuma; la sfera pubblica diventa la sfera di pubblicazione di biografie private, sia che essa porti alla luce le casuali vicende del cosiddetto “uomo della strada” o quelle di stars deliberatamente costruite, sia che si travestano con una maschera di privatezza e si rendano incomprensibili per eccesso di personalizzazione sviluppi e decisioni di pubblica rilevanza. Il sentimentalismo verso le persone e il corrispondente cinismo verso le istituzioni che ne derivano con socio-psicologica ineluttabilità, limitano poi naturalmente la capacità di un dibattito critico nei confronti del pubblico potere, quand’anche fosse ancora possibile.»
(J. Habermas)
70 mm sono forse anche pochi per contenere, in una sola inquadratura, tutta la possanza epica del film di Anderson: eppure grazie a questo formato la nitidezza dell’immagine è tale che nessun particolare può sfuggire, tutto è sempre a fuoco, lampante, chiaro. È chiaro che non c’è uomo che non possa vivere senza padrone, che ognuno aspetti il proprio messia che gli dia un posto dove stare, un indirizzo al suo agire, in una parola, un senso, uno purché sia.
Il furore iconoclasta di Ulrich Seidl tocca, in questo film, una durezza e una spietatezza adamantina. E, così come non concede attenuanti ai suoi personaggi, non permette fraintendimenti agli spettattori. L'esasperazione dei toni e delle situazioni è da leggersi in questa prospettiva; i sui film sondano i punti deboli di una comunità, il dramma sociale, l'endemica irrequietezza evolutiva che porta gli antagonismi a venire allo scoperto. Come una peste, il cinema di Seidl è un’alterazione, un’esagerazione, un’ipertrofia; crudele, tutt’altro che consolante, esorta a guardare con onestà e coraggio ciò che sta al di sotto della sovrastruttura civile, dentro il collasso morale. È un contraccolpo che annienta la falsità, rappresentata, in questo caso, da una fede completamente svuotata di senso, reificata a feticcio, ridotta a suppellettile.
Sono passati quasi due anni da quando Mario Monicelli decise di porre fine alle sue sofferenze e farla finita con la vita. Oggi nel film documentario Monicelli. La versione di Mario – presentato a Venezia 69 nella sezione "Classici" – lo ricordano con affetto, ma senza alcuna retorica, cinque registi, Mario Canale, Annarosa Morri, Felice Farina, Wilma Labate e Mario Gianni. Il racconto è affidato alla voce inconfondibile dello stesso Monicelli, cui fanno pendant foto, immagini di repertorio e le testimonianze di quanti hanno avuto di frequentarlo, frutto di un lungo e accuratissimo lavoro di ricerca (del resto, a Canale e Morri si devono alcuni tra i più importanti documentari sul Cinema realizzati negli ultimi anni, tra cui ci piace ricordare almeno Marcello una vita dolce, Marco Ferreri, il regista che venne dal futuro, Vittorio D.).
Lido, rado via vai da primo giorno, e sole a picco sulle teste, alle due del pomeriggio, a rischio di insolazione. Squali a parte, iperbole di catastrofi, tutte insieme: una rapina (con morto), un maremoto, squali appunto, famelici, vaganti tra i reparti di un supermercato allagato; cavo ad alta tensione che sfrigola a pochi millimetri dal pelo dell’acqua; assassini appollaiati sugli scaffali, tra le merci in macerie, pronti ad accoltellare, sparare (con ghigno); e cavalcata improvvisa di ragni pazzi dai condotti di areazione; insomma, tutta una casistica e un bestiario (in cui non mancano serpenti d’acqua) nell’acquario di sagome animate, pupazzi straripanti, che è Bait 3D di Kimble Rendall; a parte questo (rozzo) baraccone di divertimento, la cosa migliore vista finora in questa Mostra è il capolavoro di Michael Cimino, I cancelli del cielo, nella versione integrale di quasi quattro ore, che ridà sostanza a quell’epica dell’America violenta e sentimentale, come inscatolata invece (ma in qualche modo affiorante ancora) nella versione passata nel 1980 nelle sale. Dissertazione straordinaria non già limitata al contesto storico di riferimento (il versante nord-orientale degli Stati Uniti, proiettato verso l’ovest, tra il 1875 e il 1903), bensì pienamente calzante con il contemporaneo, con l’appannaggio, come si sa, delle borghesie abbienti (senza meriti, se non quello dell’appropriazione indebita) a discapito di maggioranze affamate (senza demeriti, che non siano quelli relativi al biologico germinare, come sempre).
In sottotraccia scorre il tema misteriosissimo di tanto teatro tragico greco, quello della predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri. Un tema che investe tanto la dimensione intima, personale, quanto quella collettiva, generazionale. E «non importa», come scriveva Pasolini, «se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti. È il coro che si dichiara depositario di tale verità». E la colpa è stata di credere che la storia neocolonialista, liberista fosse l'unica storia possibile; che la povertà fosse un male assoluto. È stato il trionfo dell'assolutismo consumista, dei meccanismi di mercificazione attraverso i quali il modello capitalista è diventato l'unico riferimento possibile.
Un dato di fatto; un dato perverso. Quello contro cui è costretto a scontrarsi Daniele Incalaterra, che ritrovatosi in eredità 5.000 ettari di foresta vergine in Paraguay, acquistati dal padre sotto la dittatura di Alfredo Stroessner, decide di restituirli al popolo originario, i Guarnì.
Un uomo e una donna raccattano indizi, frammenti, situazioni per comporre un’immagine che per metà film è solo suggestionata, suggerita: l’immagine del tradimento, degli oggetti del desiderio che poi si compongono tra loro, s’incastrano e la cui visione è insostenibile, persino per il balcone che dovrebbe reggerli in scena. Una sodomia alla finestra, come quella in Crash, o (solo suggerita, suggestionata) in Tokyo decadence e immancabile qui a Venezia (l’anno scorso con Shame e The invader), con i corpi che si consumano, cercano l’annullamento del peso di sé fino a precipitare nel vuoto orgasmico.