intervallo

Sognare i termini della disgiunzione, e del soffocamento (si dovrebbe sognare solo a occhi spalancati, di fronte a una sinfonia tarkovskiana), equivale allo svegliarsi in una stanza ravviata dal temporale, oramai rappreso dentro uno scuro riverbero d’alba, da cui parte la striscia di sangue sull’asfalto. Kim Ki-duk fa ancora della poesia sangue, Pietà, sulla strada di quel rigore “digitale” che era già di Arirang e confermando lo spostamento della sua ricerca etica, dai rapporti amorosi (governati, come si sa, dalla coercizione, dalla violenza, da un senso di carcerazione e di perdita spesso irrevocabile) a quelli che si instaurano all’interno della società, in nome della profittazione e del sopruso.

Lasciando da parte analisi di macropolitica o assiomi relativi alla speculazione finanziaria su scala planetaria o massmediale, il regista coreano impianta nella minuta carne dell’affettività familiare, filiale e dell’ostilità da compravendita, la sua riflessione sul concetto di debito, di sfruttamento, di oscena sperequazione. Ed è da questo meccanismo di sofferenza atroce imposta agli umili corpi (affamamento, storpiamento, violentamento perpretato dai superiori) a un livello terragno, anzi si potrebbe dire sotterraneo (viste le botteghe claustrofobiche in cui si svolge parte del film), che scaturisce il sangue – l’etica riconduce alla sfera dell’umano, dell’amore, della pietà appunto, che è il terreno su cui si espleta la vendetta e il tipo di distanza/vicinanza dall’altro – per comparire poi come scia ininterrotta dell’espiazione, laddove Kim Ki-duk si conferma uno dei migliori costruttori di finali (sospensione e disegno, ideogramma di ciò che era contingente) e in genere uno dei maggiori registi-poeti in circolazione.

L’intervallo di Leonardo Di Costanzo, nella categoria Orizzonti, pur essendo molto interessante, sembra un’occasione persa, affidandosi troppo alla sceneggiatura e sottovalutando forse la dimensione, come dire, icastica, dello scenario, che avrebbe potuto invece, allungando il film di una mezzora, dare spunti inediti di contemplazione. In effetti il film è tutto ambientato tra i ruderi misteriosi di un vecchio collegio, e tra la folta e selvatica vegetazione che l’attornia, i quali però cedono il passo, nell’equilibrio della messa in scena, alle motivazioni politiche, civistiche del regista, rappresentando la contenzione di una giovane ragazza da parte di un clan camorristico e l’amicizia tra lei e il suo carceriere diciassettenne, tra screzi e ingenue solidarietà tipiche della loro età. L’originalità del film sta proprio in questo innesto di una storia di ordinario disagio (di solito appannaggio dell’impegno) dentro un ecosistema adatto alla dilatazione figurale e alla formulazione simbolica, l’intrico di sterpi, arbusti, rampicanti, nell’oscillazione di raggi solari e piovaschi; e calcinacci, acquitrini nei sottoscala, camerate in rovina, pareti ragnate su cui è affissa la foto di una ragazza suicida che si dice si aggiri ancora per le stanze, ed effettivamente sembra aleggiare quando si fa sera e si deve tornare a casa, dentro una città luminescente.