Quando arriva il momento del numero autunnale - dopo le scorribande estive nei festival: bellissimo Locarno, tra l'altro senza l'assillo delle prenotazioni; affannosa Venezia da cui sono tornato spossato mentalmente e frustrato a furia di prenotare per proiezioni che spesso risultavano disertate (sic.): urge di ripensare a questo meccanismo (magari tornando al passato); ne va della sopravvivenza della Mostra - mi prende la solita malinconia, nel presagio delle immancabili retoriche foglie a crepitare e a ingiallire il tardo pomeriggio tra i tetti, e delle castagne la domenica a pranzo dai parenti. Ecco, dopo le scorribande, al primo soffio di vento, un istinto al ripiegamento, alla dimensione domestica: come la volontà di un appassimento mentre la congerie di cose continua «a essere la stessa, stupefacente e tetra» (Huysmans).
«La Nature est un temple où de vivants piliers
Laissent parfois sortir de confuses paroles;
L'homme y passe à travers des forêts de symboles
Qui l'observent avec des regards familiers.
Comme de longs échos qui de loin se confondent
Dans une ténébreuse et profonde unité,
Vaste comme la nuit et comme la clarté,
Les parfums, les couleurs et les sons se répondent.
II est des parfums frais comme des chairs d'enfants,
Doux comme les hautbois, verts comme les prairies,
— Et d'autres, corrompus, riches et triomphants,
Ayant l'expansion des choses infinies,
Comme l'ambre, le musc, le benjoin et l'encens,
Qui chantent les transports de l'esprit et des sens».
(C. Baudelaire, Correspondances)
«Dall’altra parte delle acque scure», stando all’epilogo del precedente film di Hintermann su Terrence Malick, Rosy- Fingered Dawn, c’è tutta una teoresi sulla materia cinematografica, sul suo portato di luce, di ombre attraversate dalla luce: rimandare al doppio aurorale, alla sintesi, in un momento, del dì nella notte, si connota oggi, pensando al più recente The Book of Vision di cui lo stesso Malick è produttore, in un periodo storico quanto mai determinato dal criterio dell’assolutizzazione dei punti di vista (dell’intransigenza del proprio modo di vedere le cose senza apertura alcuna al confronto), si caratterizza proprio come idea creante, spazio cinetico, estetico, di attuazione di un progetto, che è prospettiva, visione, rêverie di un mondo possibile. Così il dualismo tra orizzonte del «visibile» e del «visto» (Roberto De Gaetano, Il visibile cinematografico) è trasposto da Hintermann dal campo più propriamente percettivo a quello teorico, filosofico, toccando per certi versi degli aspetti focali, attuali, sui quali si ritiene debba concentrarsi l’interesse della critica.
*Una prima versione di questo articolo è apparso su «Il Manifesto» del 15 settembre 2022.
Cosa ci lascia Jean Luc Godard? Quale eredità tratta direttamente dal bacino straripante e straziante del Novecento? Tra le tante cose, io direi la consapevolezza che non si possa fare cinema se non attingendo al cinema stesso – e assecondando la natura cinetica, cinematografica del mondo –, alla congerie di linguaggi che nel cinema s'intrecciano, si scontrano, si contrappuntano per alludere, attraverso questa materia immaginale spuria, all'esistenza, a stadi di esistenza, gradi di segnificato sia pure fugace. È proprio la neutralizzazione del significato, del significato univoco in favore della coesistenza di senso, di sensi di marcia dei segni, il fulcro di questo cinema, di questa filosofia.
L’altra notte (mi verrebbe da aggiungere, automaticamente, la data, zelo inevitabile in un testo sulla memoria e la sua scrittura, ma non la ricordo), quasi in dormiveglia, cercando di capire come iniziare queste riflessioni, mi è venuto in mente all’improvviso William Hurt-Sam Farber quando, in Fino alla fine del mondo (1991) di Wim Wenders, registra ricordi per la madre cieca Jeanne Moreau-Edith. Registra immagini in soggettiva. Cioè, al cinema, in prima persona.
(Traduzione di Giovanni Festa)
Nel 2009, dopo una lunga carriera come regista, Alain Cavalier ha presentato uno strano prodotto audiovisivo, vicino – per il suo stile minore, l'enunciazione estremamente personale e ciò che registra – al diario e al saggio. Irène appartiene in questo senso ad un certo spirito d'epoca, che si definisce, a partire dal passaggio del secolo, per un rinnovato e crescente interesse per forme intergeneriche simili, realizzabili grazie alla tecnologia video e alle sue caratteristiche, come la rapidità tecnica, la riduzione dei costi economici durante la registrazione e la modifica di suoni e immagini in movimento.
«Credo di non fare niente di male annotando qui, di giorno in giorno, con estrema franchezza, gli umilissimi, insulsi segreti di una vita peraltro priva di mistero». Scrive così il prete protagonista di Diario di un parroco di campagna di Georges Bernanos, nella traduzione di Stefania Ricciardi per i tascabili Bompiani. E così, con queste esatte parole, vergate su un quaderno e inquadrate con uno zoom-in subito dopo i titoli di testa, ma allo stesso tempo anche pronunciate dalla voce over del parroco di Ambricourt, comincia il film di Robert Bresson che ne è la trasposizione cinematografica.
Ero in debito col Martin Eden di Pietro Marcello, che altrove definii uno splendido mezzo film, avanzando qualche riserva sulla seconda parte (pur ricca di cose interessanti). Nel rivederlo, faccio ammenda.
È più lenta la vita o la sua scrittura? Ma non si potrebbe dire anche il contrario? È più rapida la vita o la sua scrittura? La seconda, almeno, scorre per restare. La scrittura come carta moschicida sulla quale lasciare aderire la vita.
«[…] Girati, e non importa quanto lontano andrai, tornerò qui […]»
Amir Eid, Cairokee, Ya Abyad Ya Eswed
La tensione alla conoscenza che il processo interno alla memoria genera, inserendosi in quella che si potrebbe definire un’ontogenesi dell’immagine – e da lì diventa traccia, principio: ἀρχή, fondamento di tutte le cose – percorre tutta la poliedrica produzione di Mario Martone da molto tempo, quando già opere teatrali come I Persiani di Eschilo, rappresentata al Teatro Greco di Siracusa con musiche di Franco Battiato, erano in qualche modo il segno di una ricerca che si sarebbe fatta via via più evidente; che già allora conduceva uno studio finalizzato a restituire la forma originaria dell’oggetto rappresentato attraverso la distinzione dei tre cori, innestati sui tre pilastri espressivi del «gesto», della «parola» e della «musica» (come si evince da un’intervista del 10 aprile 1990 su Il Mattino), coerentemente con l’intento etnografico di acquisire il quadro di un popolo, per mezzo dell’arte; e che ora, con Nostalgia, unendo gli estremi di quella triade antropologica che è linguaggio, storia, dimora, contraddistingue il perpetuarsi di un ritorno, del suo dolore.