L’altra notte (mi verrebbe da aggiungere, automaticamente, la data, zelo inevitabile in un testo sulla memoria e la sua scrittura, ma non la ricordo), quasi in dormiveglia, cercando di capire come iniziare queste riflessioni, mi è venuto in mente all’improvviso William Hurt-Sam Farber quando, in Fino alla fine del mondo (1991) di Wim Wenders, registra ricordi per la madre cieca Jeanne Moreau-Edith. Registra immagini in soggettiva. Cioè, al cinema, in prima persona.

Più esattamente si tratta di conversazioni con i parenti: nient’altro, quindi, che home-movies, piccole schegge da “cine-amateur” (direbbe Brakhage) con, in più, il prestigio della visione difettosa che, togliendo dettagli, permette di aggiungere senso. Affinché questa migrazione di “impulsi cerebrali” sia possibile, William Hurt utilizza un complesso strumento di ripresa che, insieme alla macchina costruita dal padre (Max von Sydow-Henry Farber), è capace di innestare direttamente le immagini nel cervello della donna, permettendole di vedere. Meglio permettendole L’atto di vedere, che è il titolo del libro che contiene le «metafore della visione» di Wenders. Cos’è che vede o vedrà in effetti la madre? Non sono forse, queste conversazioni già passate, i ricordi del figlio? I ricordi permetterebbero, in un certo senso, di recuperare la vista? O, ancor di più, di vedere per la prima volta? E questi ricordi, per affiorare non hanno bisogno di un supporto? Qualcosa come un’immagine? Un’immagine che non sia nient’altro (giusto) che un’immagine, certo, e insieme, un’immagine giusta, come diceva Barthes correggendo il senso della frase di Godard («un’immagine che sia nello stesso tempo giustezza e giustizia»)?

Home movies

Anche Barthes (nella meravigliosa seconda parte de La camera chiara) era alle prese con dei ricordi e delle immagini. Non per la madre viva, ma della madre morta. Il supporto era assai più stabile del flusso confuso mosso e coloratissimo di Sam Farber: si trattava di alcune foto in bianco e nero che stava riordinando. Appunto fondamentale. Barthes voleva forse riordinare un mucchio irrelato di immagini? E se avesse voluto fare proprio questo, ci sarebbe riuscito? Jonas Mekas nell’incipit programmatico di As I was moving ahead occasionally I saw brief glimpses of beauty (2000) accenna proprio a questa impossibilità, dicendo che quando cominciò a unire fra loro i pezzi di pellicola che compongono il film (di quasi cinque ore), ossia a montarli, la prima idea fu quella di disporli cronologicamente (ed è ad una cronologia, presa però contropelo, che si affiderà, come vedremo, Barthes); poi ci pensa meglio e decide di montarli insieme a caso, nella forma in cui li incontrava, perché non sa come situare correttamente ognuno dei pezzi che compongono la sua vita. E che diventano subito Home scenes, cioè home movies. Mekas filma ossessivamente affinché «nulla vada perduto» (è lui l’ultimo dei kinoki, tanto che nel picnic girato a Central Park gli amici passano la bottiglia di vino o la fetta di pane imburrato non a lui, ma verso la macchina da presa); Barthes, oppresso dal dolore di un «essere perduto per sempre», sperando (all’inizio senza crederci: è troppo proustiano, diffida del potere dell’immagine) che un’immagine possa aiutare a ritrovarlo.

Anche Barthes sa che «tutte le foto del mondo formano un labirinto». Ma in questo esercizio ascetico ha una guida: la madre, come “beau souci” e Arianna. E in un certo senso quello che fa è condurci anche lui in un home movie fatto di fotografie (anziché di fotogrammi): la madre da giovane, che cammina lungo la spiaggia, foto che permette al figlio di ritrovarne l’andatura, la “salute”, il modo di camminare; la madre in una foto del 1913, con un cappello di piume, i guanti, la biancheria fine che sale dalle maniche. In entrambi i casi si tratta di immagini che non riescono a restituire, però, una totalità: se prima la donna è ridotta ad una andatura, nel secondo è diventata una costellazione di accessori, che Roland può ritrovare, adesso, sul sofà e che, senza che lei li adoperi, non sono che gli oggetti, irrelati, di una natura morta. Non erano, questi, che frammenti, «solo la riconoscevo per frammenti», dice, brandelli di storia (essendo la storia il tempo che ci ha preceduto). E poi aggiunge: «la storia è isterica, solo si forma se qualcuno la osserva e per osservarla è necessario essere escluso da essa». Queste prime immagini della madre pongono il semiologo davanti ad uno scacco: non sono nient’altro che immagini. Senza resurrezione viva. Senza il glimps of beauty di Mekas.

Poi, all’improvviso, si imbatte in una foto «assai antica», «cartonata», «con i bordi smangiati di color seppia» dove, proprio come in una polaroid dove l’immagine affiora lentamente, ecco apparire la madre in piedi, vicino ad un piccolo ponte di legno in un giardino d’inverno con tetto di cristallo. All’improvviso, davanti a quest’immagine che possiede il prestigioso retaggio auratico dei dagherrotipi, Roland ritrova la madre, la cui realtà vivente torna a incontrare per la prima volta in un ricordo involontario e completo: dall’immagine qualsiasi passa, miracolosamente, alla visione dell’essere unico. E questo attraverso l’immagine non della madre, ma della madre quando non è ancora sua madre, ma una bambina. Ecco così che anche Barthes incontra un metodo, vertiginoso, di montaggio. In una sequenza virtuale, ha ritrovato la madre procedendo all’indietro, partendo dall’immagine della spiaggia (il giorno prima della morte) per giungere al Giardino d’Inverno (quando era una bambina). E Roland scopre, così, nel momento vertiginoso del riconoscimento, di averla ritrovata per perderla due volte. Nel Diario di Lutto aggiunge «confusione di funzioni. Durante mesi, fui mia madre. È come se avessi perduto mia figlia. Esiste dolore maggiore?».

Anche Richard Ford, nel suo libro Tra loro dedicato ai genitori morti parla di una serie di istantanee, «minuscoli quadretti smerlati in bianco e nero», simili a quelli toccati, con tenerezza infinita, dal semiologo. La madre aveva comprato una macchina fotografica Brownie e li fotografava insieme, padre e figlio: «un uomo grosso con un soprabito scuro che prima mi tiene per il braccio poi mi fa camminare sul marciapiede davanti alla nostra casa e nel cortile della scuola; chino su di me nella mia automobilina a pedali; più tardi io seduto sulla sua macchina, che sorrido affacciato al finestrino con un berretto da baseball come se fossi appena arrivato. In queste foto vive l’ombra di mia madre». Sempre sulle fotografie aggiunge poi che esse «recano sempre l’impronta di ulteriori conoscenze e necessità dello spettatore».

Il film della regista argentina Augustina Comedi, El silencio es un cuerpo que cae (2017) si basa anch’esso su un archivio di immagini. A differenza di Jonas Mekas, la cineasta non si affida al caso, ma le organizza (trasformando il flusso irrelato di immagini nella storia di una vita); e differenza di Barthes, invece di prendere la storia contropelo, inserisce la vicenda del padre morto a poco più di quarant’anni per un incidente, in una struttura circolare. Come in Barthes questo suo viaggio a ritroso ha a che fare con il lutto e il suo lavoro; come in Mekas si tratta, in larga parte, di home movies (filmati dal padre). Come Barthes, i frammenti di immagini del padre sono frammenti di Storia; come fa Mekas, il padre non lascia mai la macchina da presa, «filmava tutto il tempo». Come in Ford i genitori si sposano tardi: ma, nel caso di Agustina, prima non si conoscevano. La madre non sa nulla del passato del padre. Tra loro, come vedremo, non c’è solo un figlio, come in Ford, ma un “segreto”.

Nel penultimo romanzo di Vladimir Nabokov, Cose Trasparenti, il protagonista, Hugh Person, osserva quattro album di foto. Non sono quelli della madre o del padre ma della futura moglie (che poi ucciderà involontariamente), ordinate dalla madre di lei secondo un criterio cronologico. Dalla innocente nudità dei primi anni, in bianco e nero, alle foto a colori che appaiono alla fine del secondo album, «per celebrare la muta adolescenza della ragazza, con i suoi vestiti chiassosi». Nel terzo album vede, nelle foto, con un effetto straniante, le immagini della casa dove si trova adesso: i cuscini giallo limone e nero del divano all’altro estremo della sala; il quadretto con la farfalla disseccata sulla mensola del caminetto; Il quarto album inizia con immagini più caste: la ragazza con un impermeabile rosa, con brillanti. 

Il libro di Ford è dedicato alla “doppia” biografia dei genitori (ed è anche, naturalmente, una autobiografia); parlerà, all’inizio della biografia della madre, di «separatezza congiunta» che si rispecchia nel montaggio a dittico; fra le due biografie ci sono delle differenze: quella del padre si estende nel passato, quella della madre si allarga verso il presente. Tra loro allude all’intromissione di Robert ma anche all’irriducibile singolarità di ognuno di loro. Si tratta di un libro curioso, dove i due memoriali scritti in tempi diversi (nel 1981 la biografia materna, subito dopo la morte di lei; più recente, scritta nel 2015, quella del padre) che parlano di due persone molto diverse tra loro, sono posti uno dopo l’altro e corredati da un interessante repertorio di immagini, alcune delle quali risalgono alla Grande Depressione e sono assai suggestive.

Ford termina l’incipit scrivendo: «in ogni caso, tuttavia, entrare nel passato è un’operazione incerta, dal momento che il passato cerca sempre, riuscendovi però solo a metà, di fare di noi quello che siamo». Nella Postfazione allude a un dipinto di Brueghel, La caduta di Icaro: Icaro sprofonda in mare dopo essersi avvicinato troppo al sole con le sue ali posticce e la sua sorte passa inosservata ai contadini che stanno arando lì vicino: i momenti più importanti della vita di ognuno non vengono notati dagli altri, «ogni cosa ci volta le spalle», dice Auden. Non voltare le spalle agli avvenimenti, scrivere la storia di chi è passato inosservato è il compito del narratore. Oppure, filmare tutto.

Il volto che si vede nella prima fotografia del libro, amabile e carnoso, è quello del padre di Robert, Parker, e il romanzo inizia descrivendo uno dei suoi, festeggiatissimi, ritorni a casa (è un commesso viaggiatore), intorno ai primi anni ’50; assenze e presenze saranno un fattore importante nei rapporti fra padre e figlio. La seconda foto viene descritta così:

Ho una fotografia: mio padre, in piedi, nel locale con i commessi; cassette tutte intorno, traboccanti di cipolle, patate, carote, mele. È un negozio dall’aspetto antiquato. Lui porta il suo grembiule bianco con la pettorina e guarda l’obbiettivo con un sorrisetto sulle labbra. I capelli neri sono ben pettinati. È un bell’uomo dall’aria comune e l’aspetto competente e sveglio, un giovanotto in cammino verso qualcosa di meglio.

All’inizio del film Agustina Comeni ci mostra, in fermo immagine, una delle pochissime immagini del padre (per una volta si trovava davanti e non dietro la cinepresa) rivelandoci cosa il fermo-immagine, in realtà, sia. Non solo un arresto nello scorrimento ma una sincope nella memoria che provoca una specie di mulinello: è un alone d’immagine (sfocata, interstiziale), non è una sagoma ma un “buco”, il solco lasciato dalla presenza quando affiora nell’aria curva della memoria. Scrive Nabokov in un passo della sua autobiografia «Ho viaggiato all’indietro con il pensiero – e il pensiero si affievoliva a mano a mano che procedevo in regioni remote dove ho brancolato alla ricerca di una qualche uscita segreta per scoprire alla fine che la prigione del tempo è sferica e senza sbocchi». Se il tempo è una prigione, il risveglio della coscienza è costituito da una serie di lampi intermittenti, piccole folgorazioni che permettono la fatale distinzione fra l’io e il mondo. Le memorie del grande scrittore russo sembrano un vero e proprio home movie.

Pensiamo all’immagine, probabilmente della madre in campagna, sul finire dell’estate, immersa in una violenta luce diurna. Questa sostanza fluida e lucente che la avvolge non è altra cosa che l’elemento del tempo. All’improvviso Vladimir bambino si ritrova a camminare in mezzo ai suoi genitori (come il piccolo Robert Ford in una foto), la madre, ventisettenne avvolta di bianchi vaporosi e il padre, in splendente uniforme di guardia a cavallo, indossata, come dice, per scherzo, dato che aveva terminato da tempo il suo servizio militare, anche lui leggermente sfocato. Entrambi stanno passando dall’anonimato e dall’amorfo del mondo infantile alla presenza mentre il bambino si trovava “tra i due”.

Anche nella prima sequenza del film Agustina si trova tra la madre e il padre, in una campagna inondata di sole. Solo che il padre, come vedremo, passerà dalla presenza (già sfocata, come quella del padre di Nabokov, sulla quale è già stato impresso, in un certo senso, il segno della morte) all’amorfo. La vita di Jaime (così si chiama il padre della regista) non ha niente di particolare: si è sposato a quarant’anni dopo un passato da omosessuale. Eppure. Agustina intervista gli amici e le amiche di lui, alcuni di loro parte del grupo Kalas, irriverenti animatori di un locale travesti di Cordoba che hanno sofferto i soprusi e le torture della dittatura militare (e in effetti, prima del film andrebbe visto Playback, il corto che la regista, partendo da materiale found footage girato dagli(lle) stessi(e) performer, dedica proprio al mondo-Kalas, dove, fra corpi sudati e luci verdi, le “dive” interpretano in playback canzoni pop durante notti di incanto tutte loro, tutte queste dive, falcidiate poi dall’aids).

La Storia entra così nella storia della vita di un uomo qualunque. Nello stesso tempo Jaime filma ossessivamente in VHS la sua vita familiare. Kracauer dice che l’obbiettivo che divora il mondo è il segno della paura della morte: accumulando fotografie su fotografie (nel caso di Jaime, videotape su videotape) si vorrebbe bandire quella morte che è compresente in tutte le immagini della memoria. Però, cosa filma l’occhio che filma? Una festa di bambini; una cena in casa; le vacanze; una recita di Agustina; ossia filma, attraverso le immagini anonime della vita quotidiana, in un certo senso, il rimpianto di ciò che scorre parallelo e invisibile come vita perduta. Lo sguardo di Jaime è uno sguardo svogliato, che filma il decorso temporale delle cose (già) trasparenti che lo circondano attraverso una piatta e sciatta registrazione casalinga. È la figlia che riesce, a partire da questo accumulo di detriti, a ritrovare un senso (la ricerca del senso -inteso come ciò che rimane – è proprio ciò che distingue il montaggio dalla mera registrazione) attraverso il montaggio che ricombina in maniera imprevedibile i frammenti di realtà portando alla luce l’inatteso come supplemento. Supplemento che è, nello stesso tempo, una ricerca di buchi e faglie che la cineasta-montatrice riempie con tutta una serie di materiali collaterali: le polaroid e i filmati dei viaggi negli USA e in Marocco; le testimonianze (le interviste della regista agli amici e alle amiche del padre); infine, il materiale in Super 8 della stessa regista che mostra una serie di scene emblematiche che, attraverso la fiction, approfondiscono la biografia paterna.

Vediamo così bambini che giocano tra loro, allusione all’infanzia di Jaime; ragazzi che lottano (mentre si accenna al licenziamento del padre) allusione all’adolescenza, all’incontro con l’altro come conflitto; giovani che ballano, richiamo alla scoperta del corpo e al profilarsi di un orizzonte “altro” di desiderio; alcuni muratori che lavorano a un ponte a cui si aggiungono inquadrature di un braccio teso, di un martello, di un chiodo, allusione cristologica mascherata che ricorda Kenneth Anger; ma, anche, allusione ad una idea di mascolinità e alla presenza del pericolo (gli uomini si trovano in bilico sull’abisso). Queste immagini “apocrife” possono quindi considerarsi come tappe, fittizie, della vita del padre. Dove manca il documento, la regista si affida quindi alla fiction, al potere della ricostruzione poetica. Il risultato è una biografia frammentaria, improvvisamente scissa in due. Questa scissione esistenziale (fra un prima e un poi, fra il tempo degli amanti e quello della famiglia) è restituito, nel film, attraverso l’uso del montaggio parallelo, alternando le immagini di un viaggio di famiglia a Disneyland (non vediamo le attrazioni, ma i tre in albergo) con una delle ultime feste del gruppo Kalas; uno di loro compie quarant’anni e chiede agli altri di esibirsi in un “numero”; l’ex-compagno del padre, Nestor, si taglia i baffi che portava “alla Freddy Mercury” e si esibisce, già gravemente malato, in un ultimo ballo en travesti.

Al fermo immagine di Nestor segue, non a caso, la Pietà di Palestrina  – mentre la voce di Agustina racconta quando, mentre la stava accompagnando a scuola, il padre scoppia a piangere dopo aver ascoltato per radio la notizia della morte di Freddy Mercury. Agustina non poteva sapere che Nestor era morto il giorno prima – e una sfilata Disney. La vita e il suo doppio prima trovano espressione nel montaggio alternato e poi la “piena” del dolore e del pathos della morte terminano in un ballo carnevalesco. Seguono immagini di un rodeo, immagini sfocate della madre incinta (come in Brakhage) e, di nuovo, la giornata in campagna dell’inizio. Jaime ha tenuto in mano la cinepresa fino a un attimo prima di morire. Si vede la sua caduta da cavallo e, dopo, il nero.

Agustina aggiunge un’ultima sequenza. Prima si lascia filmare dal figlio, che le chiede a sua volta di filmarlo (come accade anche, in maniera flagrante, in Sportin’ Life di Abel Ferrara). Agustina, cine-fils, diventa, a sua volta, cine-mère. Filma il figlio, Luca, mentre sta disegnando (uno scarabocchio, un “disegno senza disegno” come direbbero i curatori di una mostra recentemente vista a Roma) e gli chiede poi cos’è il meraviglioso. E il bambino le risponde «vedere quello che non si è mai visto per la prima volta. Come un leopardo vivo. Libero». «E che significa essere libero?» gli chiede di nuovo la madre. «Significa non stare in una gabbia». E il cinema, secondo Benjamin, non era quella forma d’arte capace di rompere la gabbia dell’esistenza con la dinamite dei 24 fotogrammi al secondo? Il cinema (anche quello svogliato, malfatto, con una Panasonic) apre a nuove possibilità, se non di vivere, come nel caso di Jaime, di vedere e raccontare, magari senza volerlo o saperlo, una vita sommersa e il suo doppio.

In place where there is nothing

«Quanto è piccolo il cosmo (il marsupio di un canguro basterebbe a contenerlo), che cosa misera e meschina se paragonata alla coscienza umana, a un solo ricordo personale e alle parole per descriverlo». Questa frase di Nabokov (cito a memoria) sembra perfetta per descrivere il cinema di Jonas Mekas, il cineasta che non fa che riprendere e mostrarci paradisi perduti: le immagini di un picnic nel bosco e della figlia Oona che gioca con le margherite; i tavolini di ferro battuto in un caffè francese dove si sarebbe potuto sedere Cortázar; una strada d’America ricoperta della stessa neve sporca che Benjamin aveva visto in Russia; un lago circondato da un alito di nebbia; il compleanno di Oona (e Jonas che dice «Oona si è sposata, è felice a Brooklin») poi la didascalia «Home scenes» e Jonas che aggiunge «però ora sta con Sebastian» (e in effetti si vedono i due fratelli piccoli giocare insieme sul divano). A che cosa si riferisce, allora, questo ora? Alla differenza, come abbiamo visto in Agustina Comeni, fra tempo della vita e tempo dell’immagine?

Come è ingiusto dire “nothing happens in this films” se ad accadere non è nient’altro che la vita stessa, e possiamo finalmente abbandonarci a uno sguardo che ha smesso di produrre senso per interpretare il visibile come musica, onda sonora, festa mobile e dove, davvero, filmando il quotidiano si tratta di vedere ciò che gli altri credono di vedere, mentre Jonas ammette di aver  incontrato profondità sempre più spaventose “sotto di lui” (come Rimbaud divenuto bateu ivre che scrutava, mentre lo sguardo in soggettiva perdeva il controllo, le «penisole andate» e «come un sughero danzava sui flutti» senza rimpiangere «l’occhio insulso dei fari» che, in questa sua caduta vertiginosa dovrebbero indicare una direzione, un porto salvo) mentre l’auto corre impazzita verso un chiarore (glimpse significa “intravedere” ma anche “scorcio” fra gli alberi). Credo che le immagini di Mekas siano davvero vicine al Preludio di Wordsworth, il primo poeta che è già un cineamatore, con quelle soggettive sfinite in mezzo alla natura quando tutto è ancora all’inizio e la vita è come un lancio di dadi, un azzardo, un’avventura di pirati. Ma davanti alle immagini di Mekas viene anche in mente Rousseau che in un brano delle Confessioni annota (questa lunga citazione sarebbe opportuno, forse, leggerla accanto all’incipit de la Recherche di Proust):

Ricordo tutte le circostanze dei luoghi, delle persone, delle ore. Vedo la domestica o il servo all’opera nella stanza, una rondine entrare nella finestra, una mosca posarsi sulla mia mano, mentre recitavo la lezione: vedo tutta la disposizione della camera dove eravamo; lo studio del signor Lambercier a mano destra, una stampa raffigurante tutti i papi, un barometro, un grande calendario; alcune piante di lampone che, da un giardino molto elevato nel quale la casa s’immergeva nel retro, venivano a ombreggiare la finestra e a volte passavano dentro.

Mekas in una delle sue didascalie laconiche come haiku scrive «keep looking for in places where there is nothing». In Cose trasparenti Hugh Person torna in Svizzera dove era stato con la moglie che ha ucciso durante una trance epilettica otto anni prima; la memoria, scrive Nabokov, segue il suo cammino privato. Si inoltra prima nel bosco, poi si imbatte in un campo pieno di pietre che credeva di ricordare (lo sguardo è in soggettiva: sembra una delle immagini del bosco di Mekas: solo che la moglie Hollis, qui, diventa il fantasma di una donna morta) però il vecchio fiume dove si erano bagnati i piedi e il ponte di rotto Hugh non riesce ad individuarli. La radura è diventata, da alcova degli amanti, un posto dove “non c’è niente”. Person non è Mekas. Non sa che per “vedere” bisogna “riprendere” il mondo, cioè fargli una scenata intesa come discorso amoroso, tornare a prenderlo non più con l’occhio sovrano e distante che non partecipa mai davvero a ciò che vede (o lo fa alla corretta distanza) ma con l’occhio pesto, vertiginosamente tattile, sensuoso, pazzo che tocca e sfiora assecondando una modalità aptica del visibile. «Rain and Thunder, aug. 17, 1974» recita una delle sequenze di As I was moving ahead… con il canale di scolo che sembra quello di una foto di Moholy-Nagy virato in azzurro, il profilo dei palazzi slavati dall’idea del diluvio, l’orlo dei parapetti che sembrano elementi sfocati di un quadro di Whistler e il dettaglio, che sarebbe piaciuto a Ivens, dello spalto bianco, informale, attraversato dalla pioggia.

All’improvviso lo sguardo di Jonas sembra abbandonare questa febbre di contatto per diventare esterno, per collocarsi, apparentemente, fuori dal visibile, davanti alla finestra albertiana rigata di pioggia di casa sua; casa, heimat, piccola patria (l’angolo con le piante, il termosifone, il palazzo di fronte) dove lo sguardo, per un momento si siede, diventando da nomade, stanziale. L’occhio ha abbandonato il suo vagabondaggio nell’infinità prossimità del visibile? Ritornano, forse, quelle artificiali leggi prospettiche aborrite da Brakhage? No di certo! Questo occhio tecnomorfo ha semplicemente – dopo il vagabondare dentro il cuore pulsante del mondo –  preso le distanze per vedere meglio o, semplicemente, per poter vedere. E poi il suo non è esattamente un sedersi, ma qualcosa come un ricollocarsi, un calibrare meglio le ottiche per affacciarsi di nuovo con rinnovata foga di occhio cannibale, vorace, nel caos. Il mondo, in Mekas, è sempre una cosa mossa (numerosissime sono le riprese dalla finestra di un treno in corsa); Wenders aggiungerebbe: «per me vedere significa sempre immergersi nel mondo. Pensare, invece, significa prendere le distanze» (e pensare in Mekas significa “scrivere”: da qui l’importanza delle didascalie).

«Keep looking for in places where there is nothing»: potrebbe essere il titolo della filmografia di Jean-Claude Rosseau. Per Rosseau il confino, il lockdown, quando non ci viene imposto, occorre inventarselo. Rousseau sa, da un lato, che in ogni stanza di hotel, in ogni angolo qualsiasi di strada, abita un Angelo sterminatore. E, dall’altro, che il luogo più estremo di lockdown è il piano sequenza dove, quando si esce, in realtà non si va da nessuna parte (Hitchcock lo sapeva benissimo: in Rope nessuno esce dalla casa dove è nascosto il cadavere). La clausura è una condizione che si vive anche all’aperto, con l’occhio che rimane, programmaticamente, fuori dal mondo, esterno ad esso, pago di una posizione a distanza. Davanti a questi interni anodini si agita sempre, poi, l’ipotesi di una possibile Serie noire (2009): il cortile di un palazzo di cemento con, a lato, una strada a gomito in discesa (una via d’uscita falsa, perché non si tratta della realtà, ma della sua immagine) dove un uomo entra in campo, scrive messaggi al cellulare, di spalle; poi un anziano con cappotto nero; due ragazzi sul motorino (poi la mdp finalmente si muove, sbalestra, e inquadra l’angolo di terrazza invece della strada); la notte, attraversata dai fanali di un’auto. Alla fine tutto finisce in un interno di hotel, grigio, con una lampada accesa (è la stanza illuminata di Nuit Blanche ma potrebbe essere quella di Inland Empire). Sono, questi, elementi dispersi, di un noir? Il grado zero della sua scrittura? Se sapessimo cosa il signore col cane, i ragazzi, l’uomo con il cellulare stiano facendo (a parte vivere la loro vita, che segue chi la vive come un alone, una scia) le immagini sconnesse rivelerebbero una storia. La loro. Il tutto attraversato da frame neri. Che interrompono il flusso delle immagini esponendole, ad ogni istante, alla possibilità della loro sparizione: Trous de mémoire.

Prima, a proposito di Mekas, si parlava di occhio tattile: quello di Rosseau è un occhio diverso, che sempre cerca di produrre una distanza fra sé e il mondo, per poi correggerla continuamente, sottoporla a verifica. È un occhio estremamente sapiente e colto e vigile che vuole (ma più che di volontà si dovrebbe parlare di un automatismo gentile, di una serena passività simile a quella dei monaci zen) permettere al mondo di mostrarsi. È l’occhio il cui ideale non è il poema del visibile, ma la veduta (e Veduta si chiama un film del 2010 che mostra Firenze dal giardino di Boboli davanti ad un’altra strada scoscesa: Rosseau usa la cinepresa come il pittore vedutista il suo cavalletto e la sua camera oscura). Che occhio paradossale quello che, non rinunciando alla sua posizione esterna, vuole avvicinarsi al mondo, ma lo trova svuotato, Senza Mostra. Svuotato non significa senza presenza umana. Ma significa che l’uomo ha perduto la sua presenza, che è data dalla “storia”. Forse è vero, allora, che Venise n’existe pas (1984) eccetto da una finestra che mostra un angolo di laguna, non troppo lontano da quello di Identificazione di una donna; la stessa finestra, chiusa ma senza imposte, per metà coperta da una tenda trasparente (che sarebbe piaciuta a Micheal Snow); un interno con letto. «Se si fosse affacciato alla finestra, se avesse compiuto questo movimento, se si fosse arrischiato a cadere o a lasciar cadere la cinepresa, avrebbe visto, avremmo visto al di là della cornice, le isole abitate, le chiese, e i palazzi dove le barche vanno ad attraccare». Qui l’occhio di Rosseau non ha ancora appreso i segreti della distanza sovrana. Lascia che le cose accadano senza di lui ma è ancora timido. Per questo, alla fine, la visione del quadro (Sokurov, Elegia del Viaggio!) con la laguna sulla quale lascia cadere il velo sottile della tenda, ci colpisce: lo sguardo sta apprendendo a ricercare pochi fatti stabili, sicuri. 

In Festival (2010) girato a Torino, la macchina e l’occhio si dividono: Rousseau (come già aveva fatto, per esempio, proprio in Venise) entra in campo, esce, si serve degli spazi che occupa, li abita (il letto della stanza d’hotel è sfatto; si sdraia, nudo, sul divano; si accomoda, con l’impermeabile addosso, sulla sedia), e nello stesso tempo, essendo luoghi di passaggio, di transito (non-luoghi verrebbe da dire) non gli appartengono; quindi attende. Non fa nulla. Guarda. Viene alle mente di nuovo Nabokov quando dice che, se ci concentriamo su un oggetto materiale, l’atto stesso dell’attenzione («act of seeing with one’s own eyes» direbbe Brakhage) può provocare la nostra caduta involontaria nella “storia” di quell’oggetto. Rousseau ha appreso proprio il segreto di questa corretta distanza: sa bene, come direbbe Nabokov, che una leggera pellicola di realtà immediata si estende sulla materia naturale e artificiale e chi vuole rimanere nel quotidiano, nel presente, non deve rompere questa pellicola sottilissima. Mekas (e Brakhage) la rompono continuamente e, lacerandola, come Stephen Dedalus davanti al campanile del Belfast Office, come il Narratore di Proust con la sua madeleine, come il poeta di sette anni di Rimbaud, si provocano epifanie. Rousseau al contrario è come se questa pellicola si sforzasse di non rovinarla, e, con delicata empiria e pazienza infinita, stendesse appena il suo sguardo sul suo dorso trasparente, «cose trasparenti, sulle quali brilla (scorre) il passato».

Troppo forte è, davanti a queste immagini di Rousseau, costruite con la sapienza di Vermeer, degli olandesi, la voluttà del fermo immagine. Proviamo per esempio con un angolo di stanza di albergo (l’albergo di Torino dove morì Pavese) con la porta semiaperta (Rousseau lascia sempre uno spazio aperto dove le figure possono, in maniera del tutto illusoria, entrare e uscire); le pareti bianche, e una porzione (materica, tattile), di muro scrostato; un divano a righe verdi e bianche; sul divano, una giacca, un cappotto e un cappello di feltro; sul lato destro un termosifone con, sopra, un telo bianco; le mattonelle di marmo. Come in una pagina di noveau roman qui «ogni oggetto è pertanto lo specchio di tutti gli altri». Utilizzando uno spunto da Fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty potremmo dire che quando guardo il cappotto e il cappello, io gli attribuisco non solo le qualità visibili dal mio posto di osservazione, dal mio (per usare una metafora cinematografica) punto di presa, ma anche di quelle che il muro, il termosifone e la porta socchiusa possono vedere dai loro. La faccia laterale è la faccia che il cappotto mostra al termosifone, la piega del cappello è ciò che il cappello mostra al soffitto e, nello stesso tempo, l’angolo posteriore del divano è la faccia che esso mostra alla porta socchiusa, in un reticolato di sguardi anonimi che il mondo delle cose indirizza a se stesso. Nello stesso tempo si scopre che ciò che guardiamo, l’immagine, ci guarda a sua volta, ossia la visione che il vedente esercita la subisce altresì da parte delle cose. L’immagine di un interno qualsiasi è sempre matrice di una narrazione possibile perché essa (ancora Merleau Ponty) si riflette, si umanizza e si pensa in me.

Nello stesso tempo quest’interno qualsiasi di un albergo torinese ci fa venire in mente Clelia di Fra donne sole quando si toglie il soprabito e, fuori campo, si prepara il bagno, mentre davanti a noi rimane il letto intatto. Anche lei (come immaginiamo faccia Rousseau), non ha telefonato a nessuno e nessuno sa che alloggia in quell’hotel. È, apparentemente, sola. E nella stanza a lato, intanto, una ragazza, Rosetta, sta tentando il suicidio. E, naturalmente, viene in mente l’immagine di Pavese mentre scrive, prima di farla finita (in una stanza a sua volta troppo simile a quella di Rosetta e Clelia) «non fate troppo chiasso». E non è, infine, un interno di hotel che ricorda quelli di Rousseau quello visitato dal protagonista di Cose Trasparenti di Nabokov alla fine del libro? Hugh cerca la stanza che aveva occupato con la moglie e, dato che non ricorda esattamente quale fosse, osserva i numeri affissi sulle porte fino a fermarsi davanti alla stanza 313. Entra. Sul comodino ci sono una serie di oggetti: un pacchetto nuovo di sigarette; un orologio da viaggio; una scatola con dentro la statuetta brillante di uno sciatore; una tovaglia dello stesso colore, azzurro pallido, della coperta. È tutto come quella volta di otto anni prima. E su questi oggetti Hugh scivola lentamente, fermandosi sulla loro pellicola con sguardo delicato. All’improvviso, però, l’hotel prende fuoco. L’ultima visione di Hugh è un libro, o una scatola incandescente, diventati trasparenti e vuoti. Cose trasparenti. Che esistono tra uno stato all’altro. Hugh, senza saperlo, è stato prima Rousseau e dopo Mekas. La scrittura della memoria è diventata scrittura del disastro.

Se per Hugh non ci sono punti di fuga, ne esistono allora, per Rousseau? In Festival una finestra, dalla quale, nel balcone di fronte, una donna fuma; la strada sottostante, di notte (che fa venire in mente quella, filmata durante il lockdown, della casa romana di Abel Ferrara sempre in Sportin’Life); un quadro con un bizzarro gioco dickensiano; la sala ristorante, azzurra, una sala cinematografica, rossa. Infine, il mare aperto. Quell’occhio raffinatissimo, che guardava il mondo a distanza, ha finalmente incontrato il suo punto di fuga? L’ultima immagine del film è un angolo di strada davanti alla stazione di Torino visto dall’alto. Un altro luogo di transito, anodino, qualsiasi, mentre colui che guarda si scopre rimosso, in una dissoluzione deliziosa dove, come scrive Nabokov ne L’originale di Laura, in un ultimo estremo punto di tangenza con Rousseau, «mentre siedi rilassato su questa comoda sedia (il narratore batte alcuni colpi sui braccioli) e incominci a distruggere te stesso, la prima cosa che percepisci è una sorta di dissolvimento che sale dai piedi verso l’alto». Una cosa trasparente, sulla quale la memoria, a sua volta, scrive con inchiostro simpatico. Dissolvenza. Bianco.

 

Testi citati

R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Torino 2003.

- Dove lei non è, Torino 2010.

R. Ford, Tra loro, Milano 2017.

V. Nabokov, Cose trasparenti, Milano 1995.

J-J. Rousseau, Le confessioni, Milano 2008.

W. Wenders, L’atto di vedere, Roma 2002.

M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Milano 2003.

V. Nabokov, L’originale di Laura, Milano 2009.

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