A dimostrazione che tutto è cinema, anche se quello che vorrei dire è che è Poesia (l'ho già detto altre volte, sulla strada che da Schelling porta a Nietzsche e ad Heidegger ecc.), un ambito più generale, una risacca di cose, ricordi, assenze, che si coinvolge, si sconvolge su di sè lasciando brandelli sanguinanti sul selciato e ricomponendosi come se nulla fosse, e in effetti è; tanto più generale da abbracciare un qualche universo sconnesso, basculante, con le sue dimensioni, punti di vista, in cui le cose hanno senso nel senso dello sguardo profondante, dilatante - se si fissa lo sguardo, solo se si fissa lungamente lo sguardo sulla materia, quella prende a vibrare, brulicare in sibilo, in visibilio, ché non è che la realtà sia, esista senza che la si debba immaginare: ecco tutto, ecco, tutto è questione di immaginazione, se no niente esiste - nel senso dei sensi che ne captano e ne traducono il dolore e l'estasi soffocanti.
È già da qualche anno che in Francia si fa largo un cinema fulgido, fiammante per quanto laterale - una specie di acrocoro animato da iniziati, da dei mistici scapigliati o altrimenti imbonitori della mise en scène - che si può definire “dream-cinema” oppure, per restare alla lingua d'origine, “cinéma-rêve”: un regime di sopra-realtà, di personaggi sonnambolici, lirici, vaganti come spettri in teatri di posa, in prosceni spogli, di cartone e anditi ingombri di chincaglie, o al contrario sgangherati, furenti, ridicoli nei loro eccessi e nelle loro pose, che avanzano, magari attraverso le strettoie di Parigi lasciate aperte nel mezzo dell'ingombro, del peso della realtà.
Appartiene agli amanti, la notte, come cantava Patti Smith in un brano molto noto donatole da Springsteen, non a caso innestato sulle immagini di quella prodigiosa fantasticheria erotico-subacquea del comandante Jean in L’Atalante che ha aperto per vent’anni Fuori orario. La notte, la “sacra, ineffabile, misteriosa notte” cui Novalis ha rivolto i suoi Inni e Jarmusch rimesso l’arte e l’amore dei suoi vampiri (la musica underground di Adam, i libri di Eve in Only Lovers Left Alive). È in questa dimensione, in questo regno grondante di desiderio, di musica, di poesia e di fantasmi, che si consuma L'Âge atomique di Héléna Klotz. Che inizia con il buio fuori dai finestrini di un treno in movimento verso Parigi, il vagone stipato della forza d’attrazione tra due giovani uomini che parlano appunto di pezzi da ascoltare e degli Stone Roses, dopo che una stralunante versione elettronica di In the ghetto si è impossessata per qualche istante della scena, smaterializzandola.
C’è un che di rassicurante nel sapere che dopotutto, dopo tutti i passivi nichilismi e cinismi di certo cinema mitteleuropeo, vaghi per l'Europa una nuova generazione di registi entusiasti e malinconici, ironici e lirici allo stesso tempo, smodati soprattutto rispetto ai canoni di equilibrio iconico-narrativo che vigono nel cosiddetto cinema d’autore; capaci di reinventare non solo la propria tradizione mediterranea, ma anche quella più dialetticamente europea, almeno a partire dalla comune base cogitante illuminista e arrivando a un postmodernismo che, fuori da citazionismi a sé e dentro la rianimazione e la mutazione della carne letterario-cinematografico-musicale, si presenta come l'unica forma di umanesimo possibile, anche contro certi richiami all'ordine realistico (io direi più che altro, descrittivo-mimetico) di cui s’è letto qua e là nei mesi passati.
La nuit c'est l'oublié du jour
Pace non cerco, guerra non sopporto
Tranquillo e solo vo pel mondo in sogno
Pieno di canti soffocati. Agogno
La nebbia ed il silenzio in un gran porto
[…] La vita è triste ed io son solo
O quando o quando in un mattino ardente
L'anima mia si sveglierà nel sole
Nel sole eterno, libera e fremente
(Dino Campana, Poesia facile, in Il Quaderno)
La notte è sembianza del giorno. Rimembranza. Ricostruzione e rivitalizzazione del giorno in un altro universo di simboli e significati. Essa non appare come la fine di tutto, come un sonno in cui non c’è dato «essere», creare, agire, dunque vivere, figurando invece l’inizio di una nuova esistenza, di un cosmo che transita, scorre, sopra le cose del mondo e nel cui corso – durante il sogno, la veglia, oltre la mezzanotte dei sensi – è possibile l’incontro, l’amore, la soddisfazione di aneliti inappagati. E se si è poeti affinché si riesca a “doppiare” la vita nel senso (duplice) che ha il termine, riproducendola e allo stesso tempo andando più in là, sperimentandone diramazioni e aperture, si stanno facendo largo, in una certa frangia di cineasti europei, alcune visioni estreme, radicali, dirompenti e distanti da un codice prescritto ma prossime ai generi (e al genere) e non dissimili da quest’idea di poetica.
Vérité c’est faux
Les étoiles ont des soeurs jumelles dans les yeux des louves
Moi je n'ai pas d'étoile
Le ciel est immobile dans la mer
Moi je n'ai pas de mer.
Moi je n'ai pas de corps mais je cherche un voile
Pour voiler mon apparence de corps
Je cherche un voile imperméable
Aux regards de la vérité
Car je ne sais pas mentir et j'ai trop peur qu'un de ces jours
Elle m'apprenne que je souffre
Car alors je n'aurai pas le mensonge
Pour me dire que c'est faux.
Il cinema di Mandico (autore di un unico lungometraggio, più una serie paratatticamente compatta come un fregio fluorescente, di corti e mediometraggi) postula e mima, in un detour ansioso e continuo, movimenti di discesa nel profondo e, per questo, si serve di una “camera stilo” che permette visioni internali “per contatto” come si farebbe togliendo dal niveo braccio di un angelo un guanto parecchio aderente (e non era un guanto ad ossessionare Breton in Nadja? E non erano guanti di plastica quelli che Heurtebise aveva regalato a Orfeo per fargli attraversare lo specchio?), feticismo dell’estremità che diviene immagine-calco del braccio perduto. Quali immagini, questo dispositivo microscopico e fantasmatico, filmerebbe? Sarebbero a colori o in bianco e nero? Affiorerebbero figure o osserveremmo particelle, muffe, pulviscoli come in un quadro dell’ultimo, cosmico, Kandinsky? Il piccolo dispositivo di ripresa non diventerebbe, allora, sottomarino del capitano Nemo, che proprio da un boccaporto assisteva alla fioritura di un paesaggio d’altrove?
«I sogni sono la letteratura del sonno. Anche i più strani coinvolgono dei ricordi. Il migliore di un sogno evapora il mattino. Rimane...il fantasma di una peripezia, il ricordo di un ricordo, l'ombra di un' ombra.» (Jean Cocteau)
Quando ci si immerge nel cinema di Bertrand Mandico è un dolce inabissarsi, uno smarrimento ipnagogico che precede la catarsi nella vertigine onirica; si apre il velluto purpureo del sipario e il palco si anima di creature fantastiche, ibridazioni fantasmagoriche, piante carnificate e fiori eroticamente sensuali, il maschile e il femminile uniti in un unico genere, dove il corpo anelante è l’unico protagonista.
Corpo totemico dell'instabile universo pan-sessuale genito da Bertrand Mandico è l'immancabile Elina Löwensohn, Valentina, Barbarella dei tempi nostri, che con la sua presenza fisica attraversa tutto l'universo mandichiano conferendogli con la carne reale una sorta di continuità ontologica sul piano immaginativo, avvertibile al di là delle diverse identità sceniche che assume.
C’è un doppio sguardo, frantumato dal taglio netto sulla dualità del soggetto, sovrapposto sul fascio di luce arrivato dall’alto, pure specchiato, che è di Hannah Höch nel suo Autoritratto con Crack (1930, Berlinische Galerie), al quale si ha l’impressione di poter accostare l’idea di cinema di Bertrand Mandico – astro nascente di una nuova tendenza francese, consacrato dai «Cahiers» – nelle specificità tecniche che gli sono proprie: metafora à rebours di un discorso sull’arte che riflette su di sé, sulle possibilità e sugli strumenti che ad essa sono connaturati; paradossale, vibrante, intensivo dream work che era stato delle avanguardie, ora reinterpretato nelle modalità dissacranti del ghigno, o del balbettio, quando non afasia, oppure al contrario dall’urlo, dal fluire emorragico, metafilmico, di liquidi che tingono lo schermo, del graffio furente sugli occhi.
Già al tempo dei Rencontres d'après minuit (2013) di Yann Gonzalez ipotizzavo l'inizio, così incerto, forse del tutto sognato, di una sorta di poetica - evanescente, appannata, sfumante nel prorpio originario niente - del sogno, nei primi anni Dieci di questo nuovo secolo, quando del resto già Héléna Klotz aveva presentato a Berlino L'Âge atomique (2012) ed evocato il notturno, traslucido palpaitare della giovinezza in corpi così senzienti, dolenti, anelanti alla propria pienezza, alla propria estasi, da non reggere a questo peso e trascolorare in fosforescenza, veglia, lacrima brillante, cioè in musica, nell'ondeggiare dei synth, del dream pop, dell'elettronica eterea, malinconicamente retro.
All'interno di quel corpo di film tenuti insieme dall'emergere, dal delinearsi, anche dall'evaporare di una poetica del sogno – quello che io chiamo cinema-rêve o dream cinema –, che va dall'inizio degli anni Dieci (dall'Âge atomique di Héléna Klotz) e arriva a Jessica Forever di Poggi e Vinel (e alle Bêtes Blonde di Matray e Walther), se Mandico rappresenta il delirio, cioè il grado massimo di onirismo (soprattutto in Ultra pulpe), con inferenze di grottesco e sadismo, Poggi e Vinel sul versante opposto sembrano perseguire una dimensione incerta, transeunte, di quasi-sogno, in cui vige un'alta emotività di tipo adolescenziale che caratterizza i protagonisti.
Traduzione di Mariarosa Di Marino
“Nous poursuivons un cinéma enflammé, un cinéma pour les rêveurs transpirants, les monstres qui pleurent et les enfants qui brûlent”. Questa frase è un estratto di Flamme, il manifesto che voi due avete firmato sui Cahiers du cinema nell’agosto del 2018 assieme a Yann Gonzales e Bertrand Mandico. Un mese dopo, Jessica Forever veniva presentato a Toronto. La parola mostro ricorre spesso nel film e le fiamme divampano in modo letterale sullo schermo. Praticamente una corrispondenza perfetta tra intenti e risultati…
Le Bêtes blondes, fuori dall'imperativo, dall'ansia di corrispondere ai caratteri di una realtà mimetica per via di sceneggiatura, narrazione, il disegno ponderato di soggetti, perfettamente agenti dentro la storia; sono spettri, fantocci cangianti che vagano in un interregno di segni, un caos di presagi, avvisaglie di una trama che non si realizzerà se non nel suo giocoso e macabro girare a vuoto, nella sua endemica, concentrica apertura a quell'universo di opzioni, virtualità, coreografie in immediato annullamento, che attende ai margini del mondo empirico per essere significato.
Se penso a film che rappresentino il nostro tempo, concitato, tecnocratico, eppure ancora ferino; e che lo mimino attraverso il linguaggio, il gesto cinematografico, mi viene in mente un'opera prima lucente, sonante, passata per il Festival di Locarno qualche tempo fa, Verão Danado del portoghese Pedro Cabeleira – estasi techno-pasoliniana di un'ultima estate, con l'ariosità e la trasparenza dell'immagine in trepidazione, respirazione, e cioè la sacralità della presenza, della movenza anche disperata, alla fine della giovinezza – e Nuestro Tiempo di Carlos Reygadas, in concorso a Venezia lo scorso anno, attualizzazione di un'educazione sentimentale (che alla fine non è che il dis-adattamento dell'individuo alla vita) già abbozzata in Post Tenebras Lux, tra conflitti, impossibilità comunicative, perversioni propedeutiche all'eternazione dell'amore.
Se l'etimo della parola Tempo è collegato, come sembra, al dividere, al separare, il "nostro" tempo si identifica forse per una divisione, per una separazione, generate da un eccesso di con-divisione. Esistono molte specificità per cui il tempo in cui viviamo possiamo chiamarlo specificamente “nostro”, ma per Carlos Reygadas la più importante è quella che ce lo rende estraneo, o comunque davvero poco “nostro”.
Un’idea del cinema. Un’idea che ne rivela il suo strano e affascinante destino: poter essere la forma che più di ogni altra lavora la materialità del mondo, e poterlo fare attraverso la quasi totale immaterialità delle sue immagini, digitale o analogica che sia. Questa stranezza è, lo si sa bene, la potenza stessa della settima arte, che spazza via ogni prevalenza del narrativo rispetto alla potenza del mondo, che fa piazza pulita di ogni simbolismo davanti alla flagranza del reale che si dispiega di fronte alla macchina da presa. Ambivalenza costruttiva, feconda. I corpi, il mondo sono lì davanti ai miei occhi, eppure essi al tempo stesso non sono più.
Punto primo. La prima coincidenza de Il traditore ci riporta sui sentieri battuti del rapporto di lunga durata tra Marco Bellocchio e Bernardo Bertolucci, che si spinge persino oltre la prematura scomparsa di quest’ultimo. Tra i due c’è sempre stata e continua ad esserci una segreta, sottile, sotterranea concomitanza che va ben al di là della conclamata e creata ad arte competizione o conflittualità. Una segreta corrispondenza piuttosto continua a legarli.
«Su di noi
il tempo ha già giocato, ha già scherzato
ora non rimane che
trovar la verità […]».
Parla piano, Vinicio Capossela
Quello che sappiamo del nostro vissuto, riconoscendolo in ultima istanza come tale, è prevalentemente un’impronta perdurata dall’esperienza del passato. Arresa dell’essere e della coscienza al tempo, il quale si fa crogiolo di tracce, segni, immagini assimilate dal mondo e riproposte in una diacronia imperfetta fatta di momenti sempre nuovi e, allo stesso tempo, già vissuti. O ricordati, per l’appunto, trascinati al presente in nuove potenziali versioni di loro stessi; richiamati alla memoria in modo “circolare” nel tentativo di decifrare – come farebbe un occhio fotografico che tenti la messa a fuoco – l’immagine sfuggente che si è frapposta tra la cosa e la sua passata percezione. La prima ricerca umana possibile è, dunque, quella che scava nei ricordi. Di un soggetto sempre più esitante rispetto al reale, così condotto all’indagine mnemonica e alla sfida del riconoscimento dell’oggetto in una sorta di “passato-presente”.
La prospettiva di riflessione che riguarda le modalità con cui il film “adesca” il tempo, cioè il modo con cui lo mette in rappresentazione per contenerlo entro i limiti della propria durata di proiezione, ci offre una prima opzione di lettura su quel multi testo stratificato e organizzato per irruenti accumuli visivi che è Non C’è Nessuna Dark Side, opera prima di Erik Negro, presentata nella sezione Satellite dell’ultima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro.
C’era una volta il cinema equivaleva per Sergio Leone a “c’era una volta il mito del cinema”. Il racconto della non lunga vita dello straordinario reinventore poetico del sottogenere spaghetti-western è un cordiale e minuzioso inanellamento di innumerevoli e spesso divertenti episodi dell’entusiasmo e del mestiere di cineasta per un intervistatore francese, Noël Simsolo, componente, con lui, di una sorta di famiglia di cinefili (o ciné-fils, figli di cinema), frequentatori, in quindici anni di amicizia (fra gli anni Settanta e Ottanta), di festival, di incontri mondani e professionali di varia natura, e di scorribande notturne per le strade delle capitali europee, in primis Parigi.
Il nichilismo, da Machiavelli (l’oscena tragicità del potere) a Shakespeare (“La vita… è un racconto narrato da un idiota, pieno di grida, strepiti, furori senza significato alcun!”), già appare nella letteratura a ridosso dell’esordio della modernità rinascimentale. E, più tardi, se conosce il suo culmine nell’“età della crisi” con scrittori come Poe, Dostoevskij e Kafka, nel cinema del Novecento ha un inatteso rappresentante in Alfred Hitchcock. La tesi illustrata da G. Canova nel saggio d’apertura del volume scritto a più mani Alfred Hitchcock.