C’era una volta il cinema equivaleva per Sergio Leone a “c’era una volta il mito del cinema”. Il racconto della non lunga vita dello straordinario reinventore poetico del sottogenere spaghetti-western è un cordiale e minuzioso inanellamento di innumerevoli e spesso divertenti episodi dell’entusiasmo e del mestiere di cineasta per un intervistatore francese, Noël Simsolo, componente, con lui, di una sorta di famiglia di cinefili (o ciné-fils, figli di cinema), frequentatori, in quindici anni di amicizia (fra gli anni Settanta e Ottanta), di festival, di incontri mondani e professionali di varia natura, e di scorribande notturne per le strade delle capitali europee, in primis Parigi.

Il mémoir è stato pubblicato in Italia a trent’anni dall’improvvisa scomparsa del regista romano-napoletano (S. Leone, C’era una volta il cinema. I miei film, la mia vita, a cura di N. Simsolo, tradotto da Massimiliano Matteri per Il Saggiatore, 2018, dopo l’uscita, tra l’altro, sui “Cahiers du Cinéma” nel 1999, ma l’intervista fu conosciuta già nel 1987), quando il suo cinema è più che una leggenda, e le sue opere sono riuscite, in modo omogeneo, ormai agli occhi sia del pubblico che della critica, e dovunque, a “scompaginare – secondo il suo obiettivo – ogni tipo di archetipo” (cfr. Prefazione di Simsolo, p. 11). E non solo nell’ambito della sua attività di “traghettatore tra il cinema popolare di ieri e quello di domani” (ibidem), ma anche, in assoluto, nel contesto della realtà profonda della sua ricerca stilistica come autentico artista (“Lo studio dei suoi film mostra come ammicchi in continuazione all’astrazione formale, sempre tenendo gli occhi ben aperti sul cinema e sull’umanità”, ivi p. 12).

Si può dire che ideologicamente Leone sia stato, come egli medesimo definisce Pier Paolo Pasolini, “un anarchico moderato che voleva conservare la propria libertà di pensiero, e quindi, si opponeva alle dottrine” (p. 90): tant’è che “per me il comunismo – dice – non è tanto un’ideologia quanto una religione” (ibidem). E, in un aneddoto, dedicato a Guglielmo Giannini, sfiora addirittura un qualche interesse per L’uomo qualunque (una sorta di anteprima, nel dopoguerra, dell’attuale M5S?). Comunque, la ricostruzione della sua biografia è dedicata da Leone, nell’ampia parte centrale del libro-intervista, alla storia della sua più tipica produzione filmica, e all’evoluzione dei generi alquanto stravaganti (Leone, con gusto densamente barocco, gioca molto con le apparenze, e perciò con lo “stucco” e la “cartapesta”) da lui particolarmente coltivati: dalle sceneggiature, coi dettagli sempre saporosi delle vicende delle sue firme dei peplum – negli ultimi anni Cinquanta e dietro l’influenza dell’invasione di certo cinema americano ultrapopolare in antichi costumi greco-romani – e dalla regia del suo Il colosso di Rodi (1961) alla direzione sorprendentemente innovativa del ciclo western all’italiana a partire dal 1964 (Per un pugno di dollari) fino Giù la testa (1971): tramite cui prende forma, ancora una volta, ma con una schietta ironia e inerme nostalgia, uno specifico mito del cinema. Lo skyline ideale degli episodi in qualche modo di questo Far West (la guerra spietata tra famiglie di pionieri e di proprietari terrieri, il banditismo nel mondo dei cowboy messo alla corda da avidi cercatori di taglie, la guerra di secessione, il drammatico groviglio della vicenda delle ferrovie che corrono verso il Pacifico, la rivoluzione messicana alla frontiera yankee) viene sconvolto, in Leone, da pistoleri solitari, cinici e affascinanti (fra tutti gli altri formidabili interpreti svetta, come si sa, Clint Eastwood), messi a risolvere più che una leggendaria epopea le aporie di un enigma violento e nichilista (che influenzò, tra gli altri, il cinema di Kubrick e di Peckinpah), senza più patria e senza bandiera. Dunque, il mito del cinema che coincide e in qualche modo quasi caricaturalmente, e con stilizzata virulenza (alla giapponese), vive e insieme si spegne – nel nulla – come il mito dell’America.

Tutto ciò s’intreccia con la ricerca formale, dove un ruolo preminente ha il rapporto con la musica delle colonne sonore (geniale Ennio Morricone, p. 123) e con la insistente dimensione del ricordo (ancora p. 12 della Prefazione). Tuttavia, il culmine del mito dell’America mostra l’altra sua faccia con il capolavoro di Leone, l’ultimo suo film, C’era una volta in America (1984), attraverso il tema classico del proibizionismo secondo il canone del gangster-movie. Qui – mentre torna sotto altre spoglie il trattamento anch’esso barocco della trivialità e della tenerezza – la malavita americana è vista attraverso la particolare e originale angolazione della mafia ebrea, ma è ricordata a partire da spunti di un vero e proprio romanzo di formazione (è un romanzo che nel suo sviluppo, come nel western, vede emergere – a parte Noodles/De Niro – “tipi” goldoniani piuttosto che personaggi), in cui prendono corpo la trepida scoperta dell’amore (col motivo musicale di Annapola) e il suo contrario, il culto strafottente del denaro e del sesso: che a sua volta accompagna le due passioni ineliminabili dell’adolescenza, cioè l’amicizia e la viva solidarietà (cfr. ancora il valore musicale del tema di Deborah), tra compagni di strada poco più che miserabili fanciulli, poi spietati delinquenti.

Ma gli elementi strutturali di un’epica, che è anche dolorosa e intimistica, sono dati dai fattori stilistici condotti dal sogno, e da una qualche e quasi proustiana manipolazione del tempo, sicché, lo scenario involontariamente neorealistico e documentario si contrappone e alla fine viene dissolto dal sogno legato al tempo, in una cifra che trova nell’episodio della fumeria d’oppio il suo cuore di struggente intensità. E il grande regista, quasi in conclusione, fa questa considerazione: “La fine del mondo. La fine di un genere. La fine del cinema. Per me è proprio questo. Sperando che non sia davvero la fine. Preferisco pensare sia il preludio all’agonia. Tuttavia, c’è una sorta di speranza nello sguardo finale di De Niro. Come a dire: - Se avete capito che con film come questo si può salvare il cinema, amate i film e andate a vederli -. Sì, è la fine di un genere. Sì, è la fine della sicurezza. Sì, è la fine di un mondo. Ma non è la fine di un sogno” (p. 192).

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