È nel continuo palesarsi di un’ombra, nel suo espandersi attraverso gli spazi vuoti eppure quasi claustrofobici delle stanze e dei locali, della notte riversa sul cemento dei palazzi, dei corridoi deserti di un ospedale, che David cerca, con tenera inconsapevolezza, di uscire dal bozzolo buio della sua adolescenza.
Montanha (nella Settimana Internazionale della Critica) di João Salaviza dimostra ulteriormente quanto il cinema portoghese, senza tante storie, riesca a essere espressivo, manipolando, anzi lasciandosi manipolare dalla luce, che assume uno spessore cubico; e dal suono impregnante di bisbigli, sibili, stridori lontani, la superficie porosa dell’immagine.
Come in una incisione ulteriore delle Carceri d'invenzione di Piranesi, il film di Bellocchio si sviluppa attraverso moltiplicazioni e sdoppiamenti che sfuggono (e sfuggendo paradossalmente lo affermano) un tempo specifico, sfasano lo spazio del piccolissimo-vasto mondo bobbiese e scompaiono nell'inconcepibile che abbaglia.
Il selfie soddisfa due esigenze attuali: da una parte, si presenta come tentativo di risposta alla domanda «chissà come mi vedono gli altri?», domanda da cui traspare una certa insicurezza del soggetto e del suo sguardo, travolti entrambi da un flusso di immagini dal quale cercano di emergere per affermare il proprio esserci; e quindi, in seconda istanza, il selfie ci dà l’illusione che ogni istante della nostra esistenza sia degno di essere vissuto e immortalato, sortendo però l’effetto contrario: se ciascun momento è importante nella stessa maniera in cui lo è il successivo o il precedente, allora non lo è davvero nessuno. Il selfie si pone allora sia come ipotetica soggettiva di un fantasmatico altro che ci osserva (e forse ci giudica), sia come contributo involontario alla proliferazione dell’indistinto immaginale dal quale tentiamo di sottrarci.
Non essere cattivo è destinato ad essere l'ultimo film di Claudio Caligari. Malato da tempo, l'autore si è spento prima ancora di apporre il sigillo del final cut alla propria opera.
Forse, nella storia del cinema italiano, Caligari - a dispetto dell'esigua filmografia - si può ben designare come uno dei pochi eredi del magistero pasoliniano. Non solo nelle intenzioni o nelle dichiarazioni programmatiche: il suo cinema racconta storie di borgatari ed emarginati (i drogati, transessuali, barboni e papponi di Amore tossico, oppure i rapinatori "proletari" de L'odore della notte) con un'intensità che sfugge il rischio della serigrafia.
Anche Non essere cattivo assume a modello il cinema dell'autore di Accattone, raccontando la storia di due tossicomani e spacciatori del litorale romano.
Un al di là e un al di qua, due tempi e spazi che ininterrottamente si avvinghiano l’uno sull’altro, nel cinema di Bellocchio. Le porte si aprono, i corridoi vengono attraversati e siamo dentro; non sappiamo cosa abbiamo visto, chi, un fantasma, un vampiro, un morto, un vivo ma la presenza di questi personaggi quasi si preannunciano nella loro assenza, nel fatto stesso di non esistere affatto. Bobbio è il quadro sognante, “è tutto qui” il mondo in cui si annida la polvere del tempo, tempo che si concretizza sempre in immagini ben definite, riviventi nel sogno.
Un attimo prima di scomparire nel vuoto, il figlio sorride al padre. La vicenda della famiglia Puccio coinvolta nell’organizzazione di una serie di sequestri nell’Argentina degli anni ’80 è nel film di Trapero il pretesto per indagare la fallibilità dei rapporti, o meglio, i ripetuti tentativi di interrompere dei legami di asservimento. La Storia è la scena dalla quale si diramano altri sistemi di influenza che coinvolgono, in un processo di inarrestabile corruzione, il rapporto vittima-carnefice, padre-figlio, famiglia-Stato. Ogni specifico sistema è l’esempio di un servizio dovuto e reso ad un organismo panottico, in apparenza felicemente funzionante (i riferimenti al Kynodontas di Lanthimos sono evidenti) in cui il dettaglio imprevisto inceppa il piano, fa crollare l’organizzazione, affonda il contesto sicuro nel quale ricevere un ruolo.
Si rimane affascinati dal film di Guadagnino come lo si sarebbe dalla visione di una figura femminile che è stata per troppo tempo bella ma che si ostina a mantenere una sua aura da donna fatale, e a viverci dentro, a indossare abiti sgargianti e zirconi lucenti, incurante del tempo che passa e del sentore di morte, e che vede nella sua civetteria fintamente fatua un rifugio dall’evidenza della realtà delle cose.
Un toro fosforescente corre in un’arena oscura. Due ombre a cavallo lo fiancheggiano, e in un attimo lui è a terra. Il tonfo della caduta è coperto dagli applausi del pubblico.
Amos Gitai, dopo The Arena of Murder, torna a fare i conti con l’assassinio di Rabin, episodio che segna la fine brutale dell’utopia, il progetto di pace tra Israele e Palestina. Del resto per lui l’atto di filmare ha sempre coinciso con l’essere al servizio di una memoria collettiva o col farsi eco di una catastrofe. La prospettiva adesso non è più quella dell’universo intimo e caotico, ma della coscienza collettiva.
«L'immagine filmica non è il mondo, né un'immagine specchio, ma il risultato di un lavoro di messa in scena che produce un simulacro (del) visibile.»
Partire da questa considerazione di Francesco Casetti per riflettere su un film di Frederick Wiseman, ovvero di uno tra i massimi documentaristi di ogni tempo, può sembrare un paradosso. Eppure, lo stesso autore ha sempre rifiutato la succitata qualifica, preferendo invece paragonarsi ad un romanziere dell'Ottocento. Addirittura, in un'intervista afferma: «mi considero semplicemente un regista che gira film drammatici basati su eventi reali.»
In occasione di un compleanno di Gropius, ognuno dei maestri del Bauhaus gli dedicò un disegno ispirato ad un’unica fotografia in bianco e nero, ritraente un grammofono appoggiato sul davanzale di una finestra e rivolto ad una piazza piena di gente in ascolto. Klee raffigurò una tromba di grammofono dalla quale veniva fuori una freccia rossa che puntava un solo grande orecchio posto in alto, unico referente in scena, sparite la piazza e la folla.
«Un medium sa quando assopirsi.
Lasciamolo dormire.»
È questo potente, ineludibile senso “della fine” che pervade Francofonia di Alekandr Sokurov, che è soprattutto progetto, lavorazione: un film en train de se faire; “un film in corso di realizzazione”, di cui non si vedrà la versione definitiva, ma solo frammenti, apparizioni, lacerti sparsi. È più cinema che non film. Un’elegiaca opera di montaggio che celebra la scomparsa di un certo modo di vedere, pensare, e interpretare il cinema (e la modalità specifica in cui “quel” cinema aveva configurato il mondo), capace, allo stesso, di sorprenderne la forza rigenerativa che lo sta facendo rinascere, diverso eppure in continuità con sé stesso.
Apoteosi di donne incinte come alto feticcio filmico, sessuale; corpo femminile che si fonde senza inibizioni, in piena liberazione, all’estraneo (il padre è assente), a cui aggrapparsi nel caos o nella dimenticanza (di orizzonti). Una è quella di Banat di Adriano Valerio (nella Settimana della critica), Clara posta sotto la luce di una stamberga di Banat appunto, in Romania, mentre torce il ventre sopra Ivo (ma la scena più bella, tra le più gioiose viste finora, è quella in cui lei canta Se t’amo t’amo di Rossana Fratello: il resto è fragile, forse verboso, non so…); l’altra, Geise, nel film di Gabriel Mascaro (Orizzonti), che s’accoppia con Iremar su un tavolo di una fabbrica di vestiario, in una penombra che però svela la realtà tanto carnea, proprio atomica, dell’amplesso, quanto, ad esempio, è anodino e dimenticabile quello tra Nia e Silos in Equals (in concorso) di Drake Doremus.
Due anime s'incontrano nella notte: Ivo è in partenza per la Romania, un posto da agronomo che lo attende; Clara si è appena trasferita, in una settimana ha perso lavoro, fidanzato e cagnolina della sua padrona di casa.
Il tempo è un nodo. Lega un’idea con un’immagine, un’immagine a un suono, un suono con un ricordo. Ma il tempo, annodandosi su se stesso, mette in contatto in modo inatteso spire a prima vista incongruenti, un’idea con un’immagine emersa per chissà quale associazione, un’immagine con un sonoro posticcio, un rumore con un ricordo che non ci appartiene. Capita quindi di trovarsi immersi in un flusso di visioni che si sottraggono a qualsiasi tentativo di decodificare, di connettere e di legare.