In occasione di un compleanno di Gropius, ognuno dei maestri del Bauhaus gli dedicò un disegno ispirato ad un’unica fotografia in bianco e nero, ritraente un grammofono appoggiato sul davanzale di una finestra e rivolto ad una piazza piena di gente in ascolto. Klee raffigurò una tromba di grammofono dalla quale veniva fuori una freccia rossa che puntava un solo grande orecchio posto in alto, unico referente in scena, sparite la piazza e la folla.
Una forza molto simile emerge da Sobytie (The Event), fuori concorso, di Sergei Loznitsa, una costante tensione tra folla e voce gracchiante in sottofondo. Il film inizia bruscamente con l’annuncio dell’evento cui fa cenno il titolo (il putsch che destituì Gorbaciov nell’agosto del 1991), come a volerci far percepire la brutalità con cui le faglie della storia sono solite presentarsi. Le immagini in bianco e nero sono tutte di repertorio, girate a Mosca e Leningrado, in un’operazione di found footage che ricorda il lavoro già fatto dallo stesso Loznitsa per il suo precedente Blokada. Qui l’attenzione della camera è più che altro rivolta ai volti della folla e alle sue reazioni alle notizie che arrivano da radio, volantini e da alcuni politici locali dissidenti, primo fra tutti l’allora sindaco di Leningrado. Spariscono completamente Gorbaciov e gli alti funzionari del Pcus che lo hanno destituito, non si vede ancora Eltsin, che latita a palesarsi, mentre di sfuggita si intravede un giovane Putin, ancora poco conosciuto. Venuti meno gli uomini di potere, gli unici due attori rimasti in scena sono la folla e la voce.
Le voci da cui provengono informazioni e direttive difatti divengono una soltanto, fino a sembrare un unico suono impersonale, proveniente da un indefinito altoparlante fuoricampo. La folla subisce anch’essa una mutazione, prima famelica di notizie, con i volti e le fazioni ancora distinguibili, poi via via indistinta, prevedibile e meccanica, come se si fosse agglomerata in un unico organo che vibra al messaggio, sempre più martellante, della voce, messaggio che si fa chiaro, spietato, evidente: una dittatura deve finire, ne deve iniziare un’altra, neocapitalista e riformatrice. E in sottofondo, tra il nero e l’altro che accompagna le gradazioni con cui il messaggio si definisce, si ripete in loop La morte del cigno (una morte che sembra non arrivare mai, o che perlomeno non è mai definitiva, come se il cadavere dell’establishment sovietico vagasse ancora), esattamente come il disco rotto di un grammofono, che stordisce a ammalia l’orecchio di un popolo infante, non ancora capace di una voce e di una parola che gli siano proprie.