Giuseppe Gariazzo
Un film di recinti nello spazio dell’immensa natura selvaggia islandese. Una contraddizione che esprime, espande restringendolo in una serie di micro-luoghi, l’isolamento, la fatica del vivere e del sopravvivere, la solitudine e l’incomunicabilità radicate nei corpi delle persone, le parole pronunciate con difficoltà, i silenzi e i gesti, i comportamenti che, ben più dei dialoghi e talvolta sconfinanti in un umorismo trattenuto, anch’esso recintato eppure folgorante, evidenziano antiche o recenti separazioni. Al tempo stesso, quell’isolamento è fonte di fierezza, di indelebile attaccamento a un ambiente respingente ma che non si ha la forza di abbandonare perché quei contadini, quei pastori anziani (a differenza dei giovani che, di fronte a un ennesimo ostacolo, decidono di trasferirsi), non potrebbero risiedere che lì, per loro impensabile adattarsi ai ritmi di una città. Reykjavík è lontana da quella valle dove uomini e animali condividono ogni istante di ogni giorno, fin dai tempi remoti.
Pietro Masciullo
Vita. Quando inizia (?) Mountains May Depart e vedi Zhao Tao ballare al ritmo di Go West, pensi subito a The World e alla sua travolgente voglia di “evadere” dal simulacro del mondo ricostruito in un parco divertimenti. Quando la vedi camminare poggiando lo sguardo sulle cose e portandosi dietro il cinema nella contingente “scoperta” (della memoria) dei luoghi, pensi subito ad I Wish I Knew e alle sue improvvise sopravvivenze di passato, oppure a Still Life e alla personale cartografia immaginaria dello spazio. Ancora, quando la scopri alle prese con due uomini innamorati nel paese di Fenyang, un operaio e un rampante uomo d’affari, pensi inevitabilmente a Platform e ai lenti moti interni della società cinese che oggi stanno cambiando il mondo.
Massimo Causo
L’inversione di segno tra vita e morte incide ogni fotogramma di Kiyoshi Kurosawa, il suo è da sempre un cinema di transizioni a vista, mutazioni in atto che ormai travalicano la traccia horror degli inizi e si confondono in un filmare che discorre con la quotidianità drammatizzata della vita: un po’ romance un po’ Kammerspiel, sempre alle prese con figure in sottrazione di energia, con stati di esondazione esistenziale.
Giona A. Nazzaro
Un viaggio nel tempo sotto mentite spoglie. S’inizia in macchina, nel traffico di Bucarest, città dall’altissimo tasso di traffico. Costi (Toma Cuzi) è ingoiato da un ingorgo, che resta fuori campo, assieme al figlio che è andato a prendere a scuola.
Grazia Paganelli
La storia di un amore impossibile ma inesauribile. Il nuovo film di Hou Hsiao-Hsien The Assassin ci porta nei territori enigmatici del sogno, dove la bellezza si confonde con la crudeltà, ma il silenzio è sempre sinonimo di riflessione e attesa.
(As mil e uma noites – Volume 2, O desolado di Miguel Gomes. Desolato è prima di tutto il regista che non vi potrà accontentare con un seguito pedissequo, e mentre il canto di Sheherazade prosegue e si affastella, è pur sempre un canto di lotta, una nenia incantatrice ripetuta per la propria sopravvivenza, e allora la struttura falsa vieppiù se stessa, dilatandosi e insieme convergendo sul nucleo di un affresco sfrigolante malviventi – che in realtà sono gli ultimi partigiani –, processi a una società intera, mosaici di fantasmi che abitano i sogni delle periferie, e dove anche i cani devono affrontare il proprio doppio.)
Un ragazzo di Fenyang, recita il titolo dello straordinario documentario di Walter Salles dedicato a Jia Zhang-ke. E proprio come in Xiao Wu e Platform, si riparte sempre da lì, da Fenyang. Come se non si potesse che tornare sempre a casa, pur nella consapevolezza (come non evocare Nick Ray?) che a casa non si può tornare mai.
Grazia Paganelli
Un film femminile su una società matriarcale governata dagli uomini. Suona come un paradosso il tema attorno al quale ruota il film di Ida Panahandeh (e con lei molto cinema iraniano). Inserito nella selezione Un certain regard, Nahid è il primo lungometraggio di una regista coraggiosa (fino ad ora ha diretto cortometraggi, documentari e film per la televisione) che riflette sui contrasti di un paese dal tessuto sociale contraddittorio e pieno di storie da raccontare.
Pietro Masciullo
Superfici. Todd Haynes torna ossessivamente a “immaginare” gli anni ’50, il laboratorio (post)moderno che ha cullato la nostra epoca, configurando luoghi e tempi talmente iconizzati dalla cultura popolare da risultare superflua qualsivoglia operazione filologica che ne rintracci un lontano referente. Qui adatta un romanzo di Patricia Highsmith, chiama in causa due donne e la passione non-dicibile che le divora e (im)pone i loro corpi nelle gabbie intime/culturali che le separano. Haynes depura il suo stile e decuplica il lavoro sulla “forma”, si allontana ancora di più dal Paradiso e ci riconsegna un on the road apparentemente cristallizzato nel suo set. Carol diventa così un’esperienza estetica tutta potenziale perché occultata nelle pieghe di un’immagine diventata ormai l’unica “verità” su cui ragionare. Oggi.
Giona A. Nazzaro
Come parli di un paese soffocato da una crisi finanziaria senza precedenti? Come rimetti all’ordine del giorno il cinema senza cadere negli schematismi ideologici che impediscono il farsi di qualsiasi discorso? E ancora, come smarcarsi rispetto all’idiozia dominante (e del cinema e della politica) restituendo al gesto filmico la sua libertà insurrezionale che in questi giorni di festival si rivela clamorosamente assente se si prescinde da Garrel, Desplechin, Apichatpong Weerasethakul?
Giuseppe Gariazzo
Su un’inquadratura sfocata, di un bosco dal quale avanza un uomo, raggiungendo il primo piano e la messa a fuoco della sua figura, si apre Saul Fia (“Il figlio di Saul”), lungometraggio d’esordio del trentottenne cineasta ungherese Nemes László. Un’inquadratura, come tutto il resto del film, collocata in un formato desueto, ristretto, con i bordi alonati che ricordano il 16 mm se non il Super 8, e il cinema muto. Non a caso quest’opera sorprendente di Nemes, assistente di Tarr Béla sui set di Prologue e L’uomo di Londra, è stata girata in pellicola: “era il solo mezzo per preservare un’instabilità nelle immagini”, afferma il regista. E l’instabilità fisica della pellicola – fino a ritrovarvi quello che il digitale ha bandito, ovvero la fragilità, la precarietà, e quei puntini luminosi che si insinuano tra un fotogramma e l’altro come germi che si nutrono di essa e che la nutrono – è, diventa un segno profondamente semantico, nel quale Nemes affonda il suo sguardo nel descrivere, come mai si era visto prima, la lunga morte, il suo lungo processo, in un campo di concentramento.
Massimo Causo
Nel controcampo della morte
Non c’è un’unica disposizione del filmare. Fare Cinema è declinare l’idea nella sostanza della materia, attraversare la fatica del dire: Gus Van Sant ne è consapevole da sempre, come ogni grande autore, e il cammino che intraprende in The Sea of Trees ne è la prova.
Lorenzo Esposito
(Una certa tendenza del cinema contemporaneo: la struttura come specchietto per le allodole. L’apparenza di una scrittura che finge di svilupparsi su strati, i quali, invece di accumularsi, saltano tutti nel vuoto, inseguendosi come onde infrante sugli scogli. Così il film è nel risucchio, non ti aspetta, danza all’indietro e di lato, e mentre ti affanni, ormai quasi cieco, ti assesta pugnalate, ti deride, scherno e schermo delle immagini. E fa bene. The Lobster di Yorgos Lanthimos, svuotato d’amore, disseccato, crudelissimo, cinico, fa di questa non-planimetria la geografia fantastica di un cinema futuro. E ora piantatevi un coltello negli occhi).