Massimo Causo

altL’inversione di segno tra vita e morte incide ogni fotogramma di Kiyoshi Kurosawa, il suo è da sempre un cinema di transizioni a vista, mutazioni in atto che ormai travalicano la traccia horror degli inizi e si confondono in un filmare che discorre con la quotidianità drammatizzata della vita: un po’ romance un po’ Kammerspiel, sempre alle prese con figure in sottrazione di energia, con stati di esondazione esistenziale.


Kishibe no tabi (Journey to the Shore), il suo nuovo film visto al Certain Regard di Cannes 68, raggiunge uno stadio opposto alla collocazione alternativa tra vita e morte che è alla base di questo percorso: un po’ come avveniva in Doppelganger, ma sostituendo la tonalità sentimentale a quella surreale, Kiyoshi Kurosawa disperde la relazione funzionale tra ciò che attiene alla realtà e ciò che proviene dalla spiritualità, e la consegna a una sorta di dissolvenza incrociata tenuta a vista, in cui coesistono i tempi della vita e della morte. La storia d’amore interrotta dalla morte consegna una donna e un uomo a una separazione che viene però negata: la dissociazione tra il prima e il dopo si lascia travolgere dal riapparire dell’uomo recentemente scomparso accanto alla sua compagna. Non uno spettro e nemmeno un revenant, ma una presenza spirituale che si traduce in un reciproco accompagnamento. Lui sta accanto a lei nella gestione del dolore, lei segue lui nel percorso verso un altrove che non ci compete. L’inversione del canone orfico si traduce in un coinvolgimento pieno del rapporto logico tra lo spazio e il tempo dell’esserci e dell’andare. E’ nello spazio di questo astratto transito che Kurosawa costruisce con dolcezza la funzione di un film che si stempera nella sua non appartenenza a nessun luogo, genere, personaggio, tempo…

Cinema fantasmatico allo stato puro, che costruisce un attraversamento perpetuo, un transito continuo, affidandosi alla assenza del tempo reale, alla inconsistenza della materialità. Lo stesso luogo teorico del narrare, la sostanza del rapporto tra la materia e la sua astrazione ideale, diviene un terreno vago in cui il film mantiene aperta ogni possibilità funzionale del gioco tra vita e morte.

altUn lavoro simile, settato però rispetto alle tematiche del proprio cinema, lo fa del resto anche Naomi Kawase con An (anche questo al Certain Regard), in cui assume il gioco simbiotico tra le età differenti (l’archetipo biografico di corrispondenza è, per lei, il rapporto interrotto col padre e la figura sostitutiva della nonna) e lo gioca nella funzione nutritiva praticata come prassi relazionale e comunicativa. Una vecchia donna che ha sempre vissuto senza famiglia, ospite di un lebbrosario, si offre come cuoca per aiutare nel suo lavoro di pasticciere un uomo che la famiglia non ce l’ha più.

L’oggetto transazionale (i dolcetti An del titolo) è la funzione di una relazione che traduce – come sempre nella Kawase – la sostanza della tradizione culturale nella realtà delle emozioni che vibrano nello spazio e nel tempo di corpi, luoghi, spiriti. Il film, che ha una dimensione più classica rispetto al cinema solitamente impalpabile della regista, cerca per l’appunto uno spazio di transito nella collocazione sulla scena di età differenti che convergono nel luogo della relazione trattenuta come fuori dal tempo: il dolcetto An, la cottura della marmellata indispensabile alla sua riuscita, contiene la tensione di una dinamica tutta interna alla costruzione di una relazione resa sempre presente, contemporanea rispetto al prima, all’ora e al poi.