Saggi di cultura cinematografica, protesi verso il proprio altro, filosofia, semiologia, letteratura, politica, ecc., per (cercare di) inquadrare lo stato delle cose.
Cosa inaspettata, è uscito l'ultimo Godard in Italia (in pochissime sale, tanto che con Uzak ce la siamo creata l'occasione di vederlo, il 15 dicembre 2014, in 3D: pubblico inaspettatamente numeroso venuto da città lontane, esotiche, inesistenti...), con tutto il corollario di aberrazioni che il film s'è portato appresso, nonostante sia un film che faccia la storia (non solo del cinema) o forse le storie, les histoires du cinema: un ingiustificato 2D, visione anodina e filologicamente (filosoficamente) errata, e addirittura la versione streaming; cioè merda-in-pixel spicciata sui monitor di una cinefilia sedentaria, collezionista compulsiva di film, di edizioni, storie come feticci, souvenir d'italie; come non fossero intrinsecamente coinvolte, queste storie (ma ne basterebbe una, definitiva, un solo film tarkovskiano o godardiano o ericiano da vedere e rivedere inserendolo nella propria giornata, per chiedersi fino a che punto lo si possa tradire, non certo il film, quanto quel grumo dialettico pulsante e rutilante nel tempo, quella sintesi universale di cui l'opera sarebbe, sempre, semplice strumento), nel contingente refrattario eppure cadente, nel sanguinoso progresso, regresso delle cose.
Il primo consiglio di Martin Scorsese a Willem Dafoe ai tempi de L’ultima tentazione di Cristo – “Vedi Il vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini” – non anteponeva alla recitazione questioni stilistiche, ma probabilmente cercava di saltare a piè pari il rischio dell’illustrazione, e si sforzava di concentrare la Storia nell’intensità irraccontabile di una sbavatura minima dello sguardo, una distrazione infinitesimale che però diventasse testimonianza del rimosso universale (spesso, nel racconto della vita di un poeta, si crede di dover fare il resoconto di un mistero, scambiando appunto la didattica con l’illustrazione, e ci si dimentica di filmare proprio questo impercettibile spostamento dell’occhio, cioè si rinuncia a illuminare tutte le successive incarnazioni del mistero stesso, troppo complesse e fulminee, e davvero circolanti a una profondità inaccessibile dell’inconscio, che riguardano il rapporto fra il corpo del poeta e il corpo della parola). Scorsese indirizzava dunque Dafoe verso la possibile incarnazione di uno spazio fisico puro, cioè verso il luogo misteriosamente fragile e pericolante (dove spesso fragilità si maschera di potenza) che siamo soliti chiamare cinema.
Nel rivederlo, Pasolini di Abel Ferrara mi fa ancora l’effetto d’un film oscuro e sgradevole, tra l’altro inadeguato sul piano produttivo. E tuttavia, l’operazione da cui nasce continua a sembrarmi importante, direi fondamentale, non tanto per “capire” Pasolini come intellettuale e poeta, quanto per la disorganica coerenza (si, una contraddizione in termini) con la quale ci conduce passo passo verso l’inesorabile, ossia verso l’orrore dell’annientamento d’un corpo vivente.
Pasolini di Abel Ferrara, o i Pasolini di Ferrara, è un esempio eclatante di film proteiforme: prospetta almeno due versioni del poeta e del suo corollario di materia letterario-cinematografica. La prima, quella proiettata al Festival di Venezia (e circolata per niente nelle sale), con la sua complessa architettura linguistica, che mostra un personaggio enigmatico, più chiuso dentro le sue elucubrazioni e i suoi enunciati anglofoni (con sprazzi improvvisi d'italiano); la seconda molto più corrispondente all'agiografia pasoliniana sedimentatasi almeno dal '75 a oggi, che segue il poeta nella sua presenza “mimetica” (perfettamente parlata, da Gifuni) dentro una Roma riconoscibile (e perciò come rassicurante, nonostante la violenza che vi regna), molto diversa da quella allucinata ed estranea della prima versione, allucinata per confusione di lingua ovviamente: anche se l'impressione è di assistere proprio a un altro film, a un altro, diverso approccio iconico.
Circa due anni fa, a Bari, durante la seconda edizione di Registi fuori dagli scheRmi, la nostra redazione ebbe modo di conoscere personalmente Shinya Tsukamoto. Il suo aspetto, come il suo porgersi, calmo e gentile, infondevano un senso di tranquillità e pace a chi gli stava intorno; in certi momenti si arrivava quasi a dubitare che potesse essere lui l’autore di opere radicali come Tetsuo, Tokyo Fist o Nightmare Detective. Da sempre, infatti, Tsukamoto ci ha abituato a immagini incandescenti e violente, a suoni metallici e stridenti; egli ha sviluppato negli anni una poetica rivoluzionaria e uno sguardo inimitabile, portando avanti un’indagine estrema sul corpo umano, convinto che solo attraverso quest’ultimo si possa arrivare a ritrarre lo spirito. Il suo è un cinema ibrido, polimorfo, che sotto una pelle cyberpunk nasconde una carne profondamente umanista, incentrato com’è sull’eterno conflitto cultura/natura: la cultura del metallo, la natura dell’uomo.
Intro
Il pomeriggio in cui intervistammo Michel Houellebecq a Venezia in occasione della presentazione di Near Death Experience.
Lui completamente assente guardava il bordo del tavolo davanti a sé. Le domande sembravano scivolare verso i due registi seduti al suo fianco. Le dita gialle di fumo e i capelli consumati come il cappotto grigio/nero che indossava nonostante il caldo. Sorrideva di tanto in tanto, durante le brevi risposte, spesso monosillabiche, alle domande rivolte. Il tono di voce era bassissimo. La traduttrice dovette spostarsi per avvicinarsi un po', senza farsi vedere. Il timore che i registratori non riuscissero a catturare quei sibili.
(Versione originale)
L’Hotel Belvedere si erge fiero ed elegante sulle prime alture del promontorio di Locarno. Ai suoi piedi, un groviglio di strade e vicoli stretti si dirama fino alla Piazza Grande, dove in agosto, durante il Festival del film, un enorme schermo rettangolare viene issato per consentire ad abitanti e visitatori di godere di esotiche visioni sotto le stelle. Se si è abbastanza fortunati, quando il cielo è sgombro da nuvole, i riflessi della luce del sole sulla superficie piatta e cristallina del Lago Maggiore arrivano fin lassù e la vista del paesaggio circostante è davvero magnifica.
La mattina in cui incontrai Alex Ross Perry era uno di quei giorni; la nebbia della sera prima si era dileguata chissà dove e aveva lasciato il posto a un’aria tersa e pulita.
«Mi sono convinto a fare questo film senza ancora avere una storia, ma avendo uno spazio, un luogo: era il 1991, dovevamo girare una puntata di un programma televisivo che facevamo a quei tempi e passammo tutta la notte nel Mercado 4. Ne fui letteralmente affascinato e pensai che fosse una location perfetta per un film, specie di notte, quando è chiuso. Così ho iniziato a visitarlo sempre più spesso, scoprendo infine la figura del caretillero, un personaggio emblematico perché si trova solo lì e in nessun altro luogo, una sorta di “uomo di fatica” (ma anche donne e ragazzini) che trasporta, carica e scarica merci di ogni tipo, ed è vedendo uno di loro che portava delle grosse casse sulla propria carretilla, che mi è venuto in mente di creare una storia su quale potesse esserne il misterioso contenuto».
Nell’articolo (qui la versione originale) ci si interroga circa l’essenziale rapporto tra lo spazio e l’altro a partire dal corpo, ma un corpo speciale, somatico, di presenza e, in particolar modo di presenza nell’immagine. Ci si domanda: com’è possibile l’altro in questo o quel corpo spaziale. Come si spiega l’altro nel corpo simpliciter, eppure imponente all’interno dell’immagine filmica? In sostanza, com’è possibile un altro come Altro nel corpo dell’immagine del cinema? A tal proposito si riesaminano alcune categorie zubiriane, heideggeriane, deleuziane circa lo spazio e il corpo. Con - e a volte contro - queste si pensa ad un modo diverso di concepire il corpo ed è nel Cinema, specialmente nel cinema di Tarkovsky, che si rende possibile un qualcosa di essenziale al tempo della comprensione dell’altro nel suo corpo.
Sono già passati vent’anni dalla morte (prematura) di Derek Jarman e il cinema europeo non ha ancora del tutto assimilato la sua lezione, che resta un unicum per sfrontatezza, energia, slancio visivo. Di fronte a una produzione tanto eclettica – sia sul piano stilistico che su quello tematico – è difficile pronunciare giudizi definitivi, individuare categorie, applicare filtri: Jarman ha saputo ‘bruciare’ l’immaginario della sua generazione dando fuoco alle pulsioni più autentiche (il sesso, la poesia, l’arte), incendiando lo sguardo degli spettatori attraverso una serie di opere fuori misura, capaci di scandalizzare innanzitutto per la messa in quadro di formati diversi e per la convergenza di supporti non canonici1. Super 8, videoclip, tableaux vivants, I-movie, lyric film sono solo alcune delle chiavi d’accesso a un orizzonte di senso stratificato e in progress, di cui oggi rimane lo scintillio di un catalogo vietato ai puristi d’ogni sorta, e consigliato invece a chi ama le ibridazioni.
«Attraverso i piccoli buchi della maschera
non vedevo niente, tranne che molto lontano e molto vicino […]
Il mio sguardo si posava su oggetti inerti e liberi
una finestra, una sporgenza, un angolo di cielo»
(Roland Barthes)
Definiremo la maschera come un dispositivo che provoca un’alterazione sintomale, meglio, una organizzazione seconda dei tratti del volto, necessaria per compiere un’operazione posta sotto il segno del segreto e del pericolo; per il tempo che viene indossata rende colui che ne fa uso un altro uomo, essere, entità.
«Tutto, dice Pavese, accade nel tempo […] ma l’accadere non ha senso per noi se non a partire dalla sospensione del tempo stesso».
(Sergio Givone, Introduzione a Dialoghi con Leucò)
Complice forse la recente visione dell’operaia Marion Cotillard, splendida figura dardenniana fra le strade di Due giorni, una notte, fa un certo effetto rivedere a distanza di anni Risorse umane. Un film, quello di Laurent Cantet, che secondo il Dizionario Morandini è «raro esempio di cinema sul mondo operaio che entra dentro la fabbrica industriale: “si focalizza in un luogo che definisce, nomina il nostro tempo…” (Pietro Ingrao)» (p. 1224, 2006). Un altro “interno” prima dei banchi di scuola di La classe – Entre les murs, un “dentro” che è il lato B di Due giorni, una notte, lo spazio quasi interamente negato nell’ultima opera dei Dardenne. Ma rivedere oggi Risorse Umane fa un certo effetto non solo perché quel «nostro tempo» sembra essersi cristallizzato, non solo perché riesce a dire, limpidamente, del nostro (così lungo che pare eterno) momento storico.
«Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi goffamente imbellettata e parata di abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così, come un pappagallo, ma che forse ne soffre, e lo fa soltanto perché pietosamente si inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario, mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico» (Pirandello 1994, p. 116).
In nessun dove, amata, ci sarà mai mondo se non in noi. (…) La nostra vita scorre trasmutando. E quel ch’è fuori di noi
svanisce in forme sempre più meschine. Dove c’era una volta una solida casa
ecco un’escogitazione tutta di sghimbescio, una creazione
della mente soltanto, come se stesse tutta ancora nel cervello.
Lo spirito del tempo si crea vasti sili di forza, informi,
come l’incalzante tensione ch’esso da ogni cosa desume.
Templi non ne conosce più.
(Elegie duinesi, R. M. Rilke)