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L’Hotel Belvedere si erge fiero ed elegante sulle prime alture del promontorio di Locarno. Ai suoi piedi, un groviglio di strade e vicoli stretti si dirama fino alla Piazza Grande, dove in agosto, durante il Festival del film, un enorme schermo rettangolare viene issato per consentire ad abitanti e visitatori di godere di esotiche visioni sotto le stelle. Se si è abbastanza fortunati, quando il cielo è sgombro da nuvole, i riflessi della luce del sole sulla superficie piatta e cristallina del Lago Maggiore arrivano fin lassù e la vista del paesaggio circostante è davvero magnifica. La mattina in cui incontrai Alex Ross Perry era uno di quei giorni; la nebbia della sera prima si era dileguata chissà dove e aveva lasciato il posto a un’aria tersa e pulita.

Ero arrivato al Belvedere con discreto anticipo rispetto all’orario stabilito e ricordo che fui accolto da un signore di mezza età che, facendomi accomodare in attesa del regista, mi rivolse svogliatamente alcune domande sulla testata per cui scrivo e mi rammentò che la mia intervista non sarebbe potuta durare più di 20 minuti. Il che alla fine si rivelò essere una fortuna, perché Alex Ross Perry, già autore di Impolex (2009) e The Color Wheel (2011), ha tante cose da dire e parla molto velocemente; si ha quasi il dubbio che soffra anche lui di quella sindrome da flusso di coscienza che caratterizza il protagonista del suo ultimo film, Listen Up Philip, presentato nella sezione Concorso Internazionale del Festival1 e vincitore del Premio speciale della giuria.

Nei tuoi lavori è sempre possibile individuare chiari riferimenti letterari. Penso in particolare ad autori come Philip Roth, William Gaddis, Thomas Pynchon. Quanto, e in che termini, la letteratura influenza il tuo cinema?

Completamente. È stato molto appassionante, una sorta di filo conduttore per me, nel tentativo di capire esattamente che tipo di film volessi fare o fossi in grado di fare. Sai, quando frequentavo la scuola di cinema, io, così come molti altri studenti di cinema, ero molto arrogante, molto ossessionato dal cinema, leggevo teoria del cinema, ragionando su tutti i possibili modi di assimilarla, per creare un film in cui tutto costituiva un riferimento a qualche altro film… e per starmene lì seduto a scuola e dire cose tipo “io ho visto più film di chiunque altro, io ne so di più, i miei film ‘trasuderanno cinema’…”. Ma si tratta di un vicolo cieco, senza ombra di dubbio, qualcosa che conduce a un cinema morto, che esiste solo sotto vetro; qualcosa che a me non interessa.
È stato nel momento in cui ho cominciato a essere davvero ispirato dalla letteratura, che ho capito che era questo ciò di cui avevo davvero bisogno per iniziare a spingermi in quella direzione, ciò che mi stava permettendo di venirne a capo, dandomi la possibilità di creare i miei film, quelli per me davvero significativi; film che derivavano, precisamente, da un luogo che altri non è se non la mia reazione a certi autori.

Anche il tuo modo di descrivere situazioni e personaggi ha qualcosa di letterario, con una serie di veloci falsi raccordi che spezzano di frequente la continuità temporale della scena e accumulano dettagli…

Beh, sai, questa è la parte divertente del cinema. Dove puoi usare davvero ogni strumento a tua disposizione, cosa che a me piace molto fare. Con questo non voglio dire che quando sono stato ispirato dalla letteratura, ho voluto realizzare degli adattamenti cinematografici in stile “film Miramax fine anni ’90”.  Sai, io voglio esserci dentro, ed è questo il motivo per cui mi diverto a girare in Super 16 o in 16 mm e a ottenere film molto granulosi. È questo il modo in cui piace lavorare a me e a Sean (Price Williams, ndr), il mio direttore della fotografia. Ci sono un sacco di primi piani, il che è molto cinematografico e divertente nella maniera in cui ti trascina dentro (il film, ndr) e poi in qualche modo permette che il montaggio sia un altro dispositivo che richiama l’attenzione sul fatto che tu stia guardando un film. Sai, quando usi una macchina a mano, giusto a pochi centimetri dalla faccia di un attore, non ti dimenticherai mai che c’è una troupe cinematografica che sta filmando, non ti perderai mai in una sorta di senso di teatralità, saprai sempre che c’è qualcuno che si muove nella stanza. E, insomma, questo è per me l’ultimo aspetto divertente: trovarmi sul set e scoprire tutte queste cose.

altIn Listen Up Philip, estremizzando un’operazione già compiuta in The Color Wheel, mi pare che utilizzi il primo piano per isolare i tuoi personaggi, in questo caso prigionieri del loro narcisismo e del loro ego. L’immagine è un universo chiuso. Non vi sono collegamenti né possibilità di un vero scambio con la realtà esterna. Sei d’accordo con questa interpretazione? Come mai hai usato tanto il primo piano?

Beh, mantenere il personaggio di Philip isolato da un punto di vista cinematografico è stato decisamente intenzionale. Non ci sono molte inquadrature di Philip con qualcun altro, eccetto che per Philip e Ike, che è l’unica persona da cui lui non è realmente isolato. Per la verità, ci saranno appena quattro inquadrature nel film in cui Philip e Ashley si trovano insieme nello stesso fotogramma, il che rende molto difficile trovare immagini di Jason (Schwartzman, ndr) e Elisabeth Moss insieme2, perché era un’idea specifica e pianificata per far sì che Philip sia sempre tenuto a distanza dalle persone. E quando lo vedi, quando vedi le persone con cui sta parlando, loro non sembrano necessariamente trovarsi nella stessa stanza, o che comunque ci sia tra loro poca distanza. Diciamo che questo è uno dei trucchi cinematografici per far vedere allo spettatore ciò che il personaggio dovrebbe star provando.

Anche l’ambientazione, spesso in interni, alimenta questo senso di chiusura…

Giusto, beh, nella mia versione di New York la gente non ha troppo spazio come altrove, si sente stipata. Coppie come Philip e Ashley coesistono in questi appartamenti che sono più piccoli di qualsiasi altra casa o di qualsiasi altro posto in cui si vive nel mondo o nel (nostro, ndr) Paese. Quindi questa specie di claustrofobia, questa specie di ansia che ne deriva, è proprio ciò che il film sta cercando di comunicare riguardo questo luogo.

Il dialogo, che mi sembra avere un’importanza sempre maggiore nelle tue sceneggiature, dunque non è un mezzo per comunicare, ma un modo per esaltare l’egocentrismo dei tuoi personaggi. Sei d’accordo?

L’aspetto rilevante del dialogo in questo film credo riguardi il fatto che Philip e Ike sono personaggi che, inesorabilmente, dicono tutto ciò che gli passa per la mente. Il dialogo, più che ad alludere a qualcos’altro, serve proprio a mostrare che ‘questo tizio sta dicendo esattamente ciò che pensa in quel momento’. Quindi, in un certo senso, tu stai ascoltando il suo flusso di coscienza. Ma, sai, questo flusso di coscienza lui non lo sta mormorando come faceva Elliot Gould ne Il lungo addio… Semplicemente, ti sta arrivando ciò che pensa, tipo: “cavolo, questa gente non mi piace affatto”, e quindi lui dice: “questa gente non mi piace affatto!”. È in questo modo che il dialogo è stato pensato rispetto al personaggio di Philip, che è davvero un tipo senza filtri. Tutto ciò che esce dalla sua bocca è ciò che gli passa per la testa.

altParlando ancora di letteratura… spesso i tuoi personaggi principali sono scrittori: lo è Philip in Listen Up Philip, lo era Colin in The Color Wheel e dovrebbe esserlo Elliott in The Traditions3. E sono anche personaggi che si rivelano, presto o tardi, profondamente soli. È possibile che la scrittura sia la loro maniera per fuggire dalla realtà che sentono ostile? Lo scrittore, in un certo senso, è un autore che attraverso le sue opere crea un mondo tutto suo, dove magari potersi rifugiare…

Ciò che è rilevante riguardo la professione dello scrittore per me, e ciò che penso di aver imparato, che mi porta a definire questi personaggi in una simile maniera, è che (il processo di scrittura, ndr) è qualcosa che si svolge in totale isolamento. Io mi guardo durante il processo di lavorazione a un film e mi rendo conto di quanto tempo passo seduto da solo a casa mentre scrivo la sceneggiatura; poi per un paio di settimane mi ritrovo in giro con 6-10 persone, in base al film, ad esempio nel caso di Listen Up Philip eravamo 70, per tutto il giorno, ogni giorno; e poi di nuovo ti ritrovi da solo seduto nella tua stanza, a curare il montaggio. Quindi questa è la parte del processo in cui tu sei semplicemente seduto in una stanza da solo, tu e ciò a cui stai lavorando. È una cosa molto isolante. Ed è molto interessante che per uno scrittore o un romanziere non ci sia mai un momento intermedio in cui sei circondato da 50 persone. È questo, a ben vedere, vale unicamente per i romanzieri… voglio dire, se sei un giornalista parli con altre persone, viaggi, visiti luoghi, formuli domande, ma se sei uno scrittore, che scrive storie inventate, sei semplicemente lì, seduto nella tua stanza. E questo genere di solitudine mi interessa molto come aspetto che definisce i personaggi. È il motivo per cui sono attratto dai film di Paul Schrader, che esprimono tutti questo tipo di solitudine, in una maniera o nell’altra.
Il suo film Mishima, un film su uno scrittore, è in un certo senso la somma espressione della solitudine da cui egli è attirato. Io penso che i miei personaggi tendano a essere soli perché è qualcosa su cui mi pongo molte domande. Anche quando realizzai Impolex ricordo che provavo questo senso di solitudine. E il fatto che gli scrittori possano essere soli semplicemente perché lavorano per conto proprio mi ha interessato sempre di più.

Anche se i tuoi protagonisti si comportano spesso in maniera odiosa, scontrosa e antipatica, nascondono quasi sempre un’insicurezza di fondo, un lato umano che li distingue dagli altri personaggi che li circondano. Questo vale senza dubbio per Colin e JR, ma può essere esteso anche a Philip e a Zimmerman. Mentre per i primi due, però, sembra esserci una possibilità di salvezza, il finale di Listen Up Philip è più cupo, decisamente meno aperto ad una lettura ottimistica.

Credo dipenda semplicemente dalla storia. Non so se sono necessariamente d’accordo sul fatto che sia questo il messaggio con cui si conclude The Color Wheel, però mi viene in mente ciò che disse Jonathan Franzen mentre rilasciava interviste in occasione dell’uscita del suo libro Libertà: alla gente che gli diceva “questo libro ha un finale piuttosto triste”, lui rispondeva “beh, Le correzioni ha un lieto fine, quindi qui ho voluto fare qualcosa di diverso”. Per come la vedo io, quindi, è un modo che permette di mettermi alla prova, per vedere se ce la posso fare, perché, in fondo, lo trovo divertente. Cioè, non è divertente dire “cavolo, devo davvero fare qualcosa di diverso così da non ripetermi”, ma al contrario lo è dire “mi chiedo se riuscirei a fare questo, e se ci riuscirei con la stessa convinzione che normalmente mi appartiene”. Ad esempio, rispetto a questo film più ambizioso che sto cercando di realizzare l’anno prossimo4 e al mio obiettivo mentre lo scrivevo… mi chiedo se riuscirò a realizzare qualcosa che in realtà costruisca un incessante, speranzoso e positivo finale; e sono molto curioso di vedere se funzionerà perché per me è una sfida riuscire a trovare quel momento finale in un modo che risulti onesto a me stesso. E una cosa che mi piace vedere quando compaiono i titoli di coda. Per citare ancora (il cinema di, ndr) Paul Schrader, c’è una scena in American Gigolò in cui Richard Gere è in galera e tiene appoggiata la mano sul vetro. È un momento veramente triste perché lui sta precipitando rispetto all’inizio del film, dove invece guida la sua bellissima automobile lungo l’autostrada, dove sta benissimo; ora si trova in galera ed è senza speranza ed è preso dallo sconforto, eppure c’è qualcosa che suggerisce che lui sta avendo una sorta di epifania. Per me certe cose possono essere quanto più tristi, misere, avvilenti possibile, ma se c’è un barlume di… è forse questo quello di cui ho davvero bisogno.

altIl discorso invece è diverso per i personaggi femminili del film, specie per Ashley, la quale sembra avere la forza di reagire positivamente a una situazione che la opprime.

Certo, questa è la differenza tra uomo e donna nel film. Cioè, Ike e Philip sono esattamente come li stai descrivendo tu laddove qualcun altro potrebbe dire: “c’è qualche speranza?”. Ma per me la domanda non si pone nemmeno per i tre personaggi femminili: Ashley, Melanie, Yvette. Non potresti mai domandarti se c’è speranza per queste tre donne. È abbastanza chiaro che nelle mie intenzioni siano tutte destinate a qualcosa di meglio. Gli uomini evolvono ma non cambiano, forse le cose possono andare peggio per loro. Le donne, invece, e Ashley più delle altre, hanno davvero fatto un passo in avanti e sono sulla strada verso qualcosa di migliore.

Parlavi di New York poco fa… Penso sia possibile considerare questa città una dei protagonisti del tuo ultimo film. Listen Up Philip inizia e si conclude nelle sue strade. Ma la fotografia e la mancanza di dettagli e di riferimenti temporali nel film, per certi versi, contribuiscono ad astrarre la città, elevandola a luogo di pura finzione (letteraria o cinematografica), dunque non necessariamente corrispondente alla realtà, ma riconoscibile e in un certo qual modo abitabile da chiunque. È quello che cercavi?

Sì, voglio dire, i film che abbiamo guardato per trarre riferimenti sono film newyorkesi, chiaramente non ci siamo limitati solo a questi, ma in particolar modo abbiamo visto molti film newyorkesi, sai, quelli degli anni ’70, ’80 e primi anni ’90. Per me questo è un immaginario collettivo perché (quegli anni, ndr) non li ho vissuti, li ho potuti conoscere unicamente attraverso i film. Quindi ho voluto creare qualcosa che quando la si guarda oggi, nel 2014, risulti familiare, perché la versione di New York che abbiamo inserito nel film è stata progettata secondo un punto di vista molto meticoloso, fin dalla pre-produzione, per farla apparire e sembrare come quella presente nei film anni ’80. Non è destinata a essere una rappresentazione odierna della città ma nemmeno una del tutto fantastica dove ogni cosa è differente come in una sitcom. Questa è la New York di Hannah e le sue sorelle, questa è la New York che trovi in…

Alcuni film di John Cassavetes, magari…

Beh, pensiamo a uno qualsiasi dei suoi film ambientati a New York, a parte Volti… forse è l’unico, sai? I suoi film sono abbastanza… lui fondamentalmente è un tipo di LA, però Ombre è senz’altro ambientato a New York. Anche Blues di mezzanotte, credo, ma non ne sono sicuro.

altA proposito di riferimenti, ieri in conferenza stampa tu e Sean Price Williams avete menzionato Woody Allen e in particolare il suo Mariti e mogli. Guardando il tuo ultimo film, però, mi è venuto in mente anche il cinema di Paul Mazursky…

In realtà non conoscevo molto (il cinema di, ndr) Paul Mazursky. Di recente, però, prima che morisse, c’è stata una retrospettiva dei suoi film a Los Angeles alla quale ho avuto modo di partecipare. Lui era presente una sera e mi è capitato di sentirlo parlare. È stato incredibilmente emozionante e mi sono divertito molto. È un peccato che sia venuto a mancare qualche mese più tardi… Mi ha colpito molto Stop a Greenwich Village, appartiene a quel genere di film per cui stravedo…

È esattamente il film cui pensavo. Visivamente, la New York ritratta in quel film, con i suoi colori opachi e polverosi, mi ha ricordato molto la tua.

È vero, e inoltre, voglio dire… l’immagine di New York, in un film degli anni ’70 sugli anni ’50, per me è come realizzare un film del 2014 sul 1994. Questo è il modo in cui facciamo una distinzione per i nostri riferimenti: quel film ha ricreato chiaramente una New York del passato, semplicemente girando negli angoli giusti e nelle location adatte. È stato favoloso per me, mi piace molto questo genere di cose. Abbiamo scelto meticolosamente sia le nostre location sia il materiale scenico, in modo che nulla risultasse troppo specifico.

Jason Schwartzman deve molto a Wes Anderson: è lui che lo ha scoperto e lanciato. Ho notato che il nome del regista texano figura anche tra i ringraziamenti del tuo ultimo film. E c’è una scena che richiama esplicitamente I Tenenbaum… La sua idea di cinema ha influenzato la tua in qualche modo? Come?

Lui è senz’altro uno dei miei registi preferiti e lo è da molto tempo. I suoi film sono stati molto importanti per il mio percorso di formazione così come per quello di molti miei amici. Ammiro e rispetto tutto del suo lavoro. Penso sia dotato di un talento eccezionale e riesce sempre bene, ma non sono mai stato ispirato dalla sua estetica, che è sua solamente. È così facile da copiare, molti film difatti la copiano, o tentano di copiarla. Ma non puoi copiarla. Rispetto troppo il suo lavoro per dire “voglio fare queste inquadrature simmetriche”. Dal punto di vista stilistico, non penso si possa trovare un film che diverga di più da qualsiasi cosa egli abbia mai fatto (il regista si riferisce al suo film, Listen Up Philip, ndr). Perché, sai, non vi è una sola ripresa meticolosa nel mio film. Voglio dire, sono meticolose nel modo in cui le abbiamo realizzate, ma visivamente (il film) è molto diverso. Al contrario, il suo senso della narrazione è per me fonte di grande ispirazione: trovo straordinario il modo in cui è raccontata la storia ne I Tenenbaum, nuovamente con l’uso del narratore, proprio come faccio io nel mio film. E trovo straordinario il modo in cui tutti i suoi film, come ad esempio Il treno per il Darjeeling, abbiano molto a che fare con la tristezza e l’oscurità, pur essendo commedie in un certo senso. È molto stimolante, ed è il genere di cose che mi appassionano, il modo in cui lui mescola delle battute perfettamente scritte con questo cupo senso di tristezza. Molte persone criticano i suoi film per la loro forma, molte meno sono in sintonia con quello che i suoi film trasmettono e vogliono dire. Qualcosa che per me invece è molto più importante.

altI tuoi primi due lungometraggi hanno una struttura simile. In entrambi, nella parte finale, c’è una scena decisiva che invita alla rilettura dell’intero film e che ne permette la comprensione in chiave drammatica. Entrambe le volte hai usato un piano sequenza, come mai? Che funzione assume questa tecnica nel tuo cinema?

Certo, Godard ne parla a proposito de Il disprezzo. Lui dice che un long take, una volta che supera una certa durata, richiama l’attenzione su se stesso perché, sai, una ripresa normale dura in media 5, 10 secondi; una ripresa che dura un minuto appare già piuttosto lunga; quando ti svegli e ci sono 3, 4, 5 minuti allora dici “wow, qui sta succedendo qualcosa!”. E in entrambi i casi, ma soprattutto in The Color Wheel, c’è un movimento di macchina durante quel long take. E chiunque guarda, dice “fino a quel momento ero così coinvolto che mi sono dimenticato che c’era qualcun altro nella stanza, ma è ovvio che ci sia, c’è un cameraman, c’è un fonico…”. E il modo in cui Godard parla dei long take smisuratamente lunghi, sai, come quelli che ha realizzato in Week-end: non puoi fare a meno di ricordare l’intera macchinazione alla base di questa scena, che può semplicemente andare avanti fino a quando il rullo di pellicola non finisce. E questa è un’altra cosa importante riguardo Impolex e The Color Wheel, ossia che sono stati entrambi girati in pellicola. Per cui quelle riprese in The Color Wheel consumano un intero rullo di pellicola. Questa è un’altra cosa importante per me: rapportarsi col tipo di formato con cui si gira e usarlo per portare avanti queste idee, ossia che c’è una piccola troupe cinematografica che sta girando per il maggior tempo possibile… Sai non è come con un film girato in digitale, dove (una sola ripresa, ndr) potrebbe durare anche 60 minuti, come in Arca Russa, dove abbiamo 2 (ore, ndr) e 15 minuti, o quello che è, di girato (in piano sequenza, ndr). Questa è pellicola e noi gireremo semplicemente la pellicola contenuta in un rullo. Non riesco a spiegarlo con precisione, ma è tutte queste cose insieme: è il modo con cui si rapporta al mestiere, alla creazione di un film, alla tecnicità del mezzo e al formato, la celluloide. Qualcosa che io vorrei cercare di fare organicamente in tutti i miei film. E in Listen Up Philip non vi era alcuna necessità di un discorso di 9 minuti.

Locarno, 13 agosto 2014.


Note

1 Festival del film Locarno, 67ª edizione, 6–16 agosto 2014.

2 Jason Schwartzman e Elisabeth Moss sono i due attori protagonisti che interpretano i personaggi di Philip e Ashley nel film.

3 The Traditions è una serie televisiva realizzata da Alex Ross Perry nel 2013 per HBO, ora in fase di post-produzione.

4 Il cineasta si riferisce a Queen on Earth, pellicola al momento in fase di post-produzione.


Filmografia

American Gigolò (American Gigolo) (Paul Schrader 1980)

Arca Russa (Russkiy kovcheg) (Aleksandr Sokurov 2002)

Blues di mezzanotte (Too Late Blues) (John Cassavetes 1961)

Hannah e le sue sorelle (Hannah and Her Sisters) (Woody Allen 1986)

Il disprezzo (Le Mépris) (Jean-Luc Godard 1963)

Il lungo addio (The Long Goodbye) (Robert Altman 1973)

Il treno per il Darjeeling (The Darjeeling Limited) (Wes Anderson 2007)

Impolex (Alex Ross Perry 2009)

I Tenenbaum (The Royal Tenenbaums) (Wes Anderson 2001)

Listen Up Philip (Alex Ross Perry 2014)

Mariti e mogli (Husbands and Wives) (Woody Allen 1992)

Mishima: una vita in quattro capitoli (Mishima: A Life in Four Chapters) (Paul Schrader 1985)

Ombre (Shadows) (John Cassavetes 1959)

Stop a Greenwich Village (Next Stop, Greenwich Village) (Paul Mazursky 1976)

The Color Wheel (Alex Ross Perry 2011)

The Traditions (Alex Ross Perry 2013)

Volti (Faces) (John Cassavetes 1968)

Week-end - Una donna e un uomo da sabato a domenica (Week-End) (Jean-Luc Godard 1967)