(trad. a cura di Giovanni Festa)
«Non muori perché sei un creatore
O perché sei questo corpo
Sei morto perché sei il volto eterno».
(Adonis, Deserti)
2666: un enigma. Il nome di un film di fantascienza dove le macchine ci dominano, mostri ci attaccano in autostrade perdute e piante crescono all’improvviso, mentre si moltiplicano omicidi senza nome. E c’è sempre un giovane scienziato che sospetta. 2666: è la nostra forma di immaginare il disastro, il western dell’ecodistruzione.
«... Nel mio caso, un Diario serve da supporto alla memoria,
ma soprattutto perché dà alla vita di tutti i giorni
il carattere di un viaggio, di un periplo.
L’erranza, che è il modo naturale in cui la vita si presenta,
assume il significato di un'indagine, di una ricerca.»
R. Ruiz
Nel corso della sua lunga carriera, Raúl Ruiz si è specializzato nella produzione di un'opera di carattere esplorativo, imprevedibile, a volte ermetica ma sempre animata da uno spirito giocoso che unisce il profondo e il lieve, la digressione e la ricorsività, in un combinazione che, tra fascino e perplessità, si presenta allo spettatore come un vero marchio d'autore. Questo Diario, iniziato nel 1993, quando il cineasta cileno aveva 52 anni, e terminato nell'agosto 2011, pochi giorni prima della sua morte, soddisfa le condizioni per contenere, al suo interno (come i tre volumi della sua Poetica del cinema o le abbondanti interviste rilasciate durante il suo itinerario esistenziale) tutti questi aspetti.
327 Quaderni
Jean-Luc Godard suggeriva in un'intervista la maniera in cui un giovane aspirante cineasta potrebbe girare un film: dovrebbe limitarsi a raccontare un giorno della sua vita che, aggiunge ingannevolmente, è quello che James Joyce fece con l'Ulisse. Questa battuta dell'artista ammirato da Ricardo Piglia, fa luce anche sul pensiero dello scrittore e critico argentino.
L’incipit del brano dedicato al Minotauro nel Libro degli esseri immaginari di Borges è folgorante: «L'idea d'una casa fatta perché la gente si perda, è forse più singolare di quella d'un uomo con testa di toro; ma le due reciprocamente s'aiutano, e l'immagine del labirinto conviene all'immagine del minotauro». Nella descrizione borgesiana, il labirinto è sempre abitato, è sempre pensato sotto la forma del doppio, della duplice immagine. La geometria mostruosa di un luogo si accompagna sempre alla mostruosità di un essere vivente e, soprattutto, entrambi sono immagini che si rispecchiano.
Numerose pagine della letteratura argentina sono dedicate a un paradosso: la vita colta in un momento complesso, inesplicabile, al bordo dell’intraducibile che, pure, riesce a trasformarsi in territorio e, quindi, in romanzo (La vie est un roman, chioserebbe Resnais nel titolo del suo film - scritto da Jean Gruault - forse più vicino al dettato del crepuscolo) e a ricostruire un sito che, come dice Borges, è menos documental que imaginativo. Cortázar, come si sa, non finiva mai di interrogarsi sulle leggi segrete della creazione letteraria: come Piglia, come Saer il narratore è, anche, secondo una tradizione esoterica ed erudita – inaugurata da quel grande amanuense che era proprio Borges – «lettore»: ultimo, come si voleva Emilio Renzi-Piglia, ma anche «poeta» come Saer, e, in tutti i casi, «critico» (un racconto emblematico di Cortázar è, in questo senso, Los pasos en las huellas) che abbraccia tutta la letteratura universale scoprendo, alla fine, che non si è fatto altro che comporre, come in un quadro di Arcimboldo con la sua simbiosi paranoica di oggetti, un mosaico di immagini il cui risultato è il proprio stesso volto. Cortázar, si diceva: in Intermedio magico accenna alla forza della poesia e del suo strumento principale, la metafora, capace di penetrare nel mondo delle cose stesse, fuori dalla legge del nome (aborrita anche dall’Eltsir di Proust), e cancellare la singolarità delle cose attraverso il ponte magico del «come», che permette al cervo e al vento (qui Cortázar cita Levi-Strauss) di partecipare (di gioire, verrebbe da dire) di una medesima qualità.
Se è vero che uno degli aspetti più evidenti della letteratura sudamericana del Novecento (stante l'azzardo ad accomunarla entro un assioma, una schematicità che del resto si consustanzia nella riprova entro i territori, le regioni, fino agli ecosistemi più minuti e particolari, casi antropici che si rivelano poi specificamente letterari) è la stratificazione e la coloritura dell'azione, della storia, trame magmatiche, impastate di polvere e sangue, raffreddate da sferze di vento; è anche vero che entro questa plastica degli eventi emerge un tratto formalista che corrisponde all'assottigliamento o disarticolazione di quella plastica (in favore dello scorcio), verso la riflessione e la sperimentazione linguistica.