Luigi Abiusi
Annunciato in uscita per il 23 dicembre 2012, constatata dai distributori l'inconsumabilità di quello che pensavano, forse, potesse essere un prodotto festivo (gli ingredienti sembravano tipici: storia d'amore, attori stagliati nella loro riconoscibile, commercializzabile bellezza, luoghi oleografici, i viaggi - la morte -, eccetera), To the Wonder è stato congelato per mesi, per poi uscire in sala nel calderone incandescente dell'estate, ma insieme, almeno, ad altri film difficilmente piazzabili, di quelli scarni, silenti che fanno sfigurare la bancarella versicolore e gommosa della piazza (ad esempio Holy Motors, La leggenda di Kaspar Hauser, ancora lui; La quinta stagione, ecc.).
Victor Erice
(Versione Originale)
Nel 1994, una proposta della rivista «Cahiers du cinéma» ‒ scrivere di una pellicola a scelta per un libro che intendeva commemorare il centenario della nascita del cinema ‒ portò per la prima volta Jean-Luc Nancy a riflettere sull’opera di Abbas Kiarostami. Il libro non venne mai pubblicato, ma il testo, dedicato a E la vita continua (Zendegi va digar hich, 1992) ‒ unica pellicola di Kiarostami vista a quei tempi dal filosofo francese ‒, fu divulgato grazie alla rivista «Cinémathèque».
Alessandro Baratti
«On peut baiser et baiser encore, mais on ne fusionne pas»
(Bruno Dumont).
Il pressbook di Il n’y a pas de rapport sexuel si apre con queste parole: «Da più di dieci anni HPG [Hervé Pierre-Gustave] registra e archivia i making of delle sue riprese con una camera-testimone piazzata su un treppiede. Originariamente queste migliaia di ore erano destinate a dei siti pornografici per una diffusione in live-cam, vale a dire in “falsa diretta”. È a partire da questa materia bruta che Raphaël Siboni ha realizzato un documentario»1. Ma che cosa ha spinto HPG, pornodivo affermato e pioniere del gonzo francese, ad aprire i suoi archivi privati? E perché un titolo così paradossale per un film di montaggio composto da blocchi di making of che mostrano riprese di film hard? Alla prima domanda credo si possa e debba rispondere assai perentoriamente, senza timore di suonare moralisti: nobilitare il proprio lavoro, riabilitare la natura di un genere comunemente considerato come l’ultima spiaggia del cinema, dominio seriale della sessualità idraulica.
Andrea Bruni
«Se chiudo gli occhi compaiono fosforescenti fioriture e appassiscono e rinascono come carnosi fuochi d’artificio… Mani che sinistramente si chiudono in una luce pallida e assi scricchiolanti su strade di medusa» (Robert Desnos)
«"Oltre ai Monti/ della Luna/ giù nella Valle delle Tenebre/ cavalca, cavalca intrepido",/ così l’ombra gli rispose/ "se vai in cerca d’Eldorado!"» (Edgar Allan Poe)
Gemma Adesso
«Nel tepore della luce rossa, dentro le chiuse aule dove la luce affonda uguale dentro gli specchi all’infinito fioriscono sfioriscono bianchezze di trine. […] Passano nella veglia opime di messi d’amore, leggere spole tessenti fantasie multicolori, errano, polvere luminosa che posa nell’enigma degli specchi» (D. Campana, La notte, in Canti orfici).
La divinazione delle visioni percepite per mezzo di uno specchio è definita catattromanzia e lo specchio, si sa, è il giocattolo preferito da Dioniso: «ecco la folgorazione orfica: Dioniso si guarda allo specchio e vede il mondo» (Colli 2005, p. 42). Il modo in cui un dio si esprime è nell’apparenza.
Giovanni Festa
Nella religione azteca la dea Coyolxauqui non ha le forme tornite della sua epigone mediterranea, Artemide, né, come la bella dea lunare, è nata sulle rive di un fiume.
Ella nasce dal corpo divorato dal fuoco del dio Tecuciztecatl, che si buttò nelle fiamme per creare l’astro notturno, punto lattescente nel cupo cielo primordiale. Inoltre, come attesta un bassorilievo del Templo Major a Città del Messico, il suo corpo è un ammasso smembrato. Suo fratello, il sole, l’ha infatti fatto a pezzi adoperando il Serpente di Fuoco. La dea indossa una cintura di serpenti che le stringe la vita, campanelli le pendono sulle guance e un copricapo a forma di mezzaluna le copre la testa. Sui suoi arti smembrati compaiono piccoli aspidi guizzanti e teste stilizzate di serpente.
Cecilia Ermini
«Mi piace costruire un cinema che richiami i valori della musica e della pittura più che le regole del teatro. Un cinema che non segua una linea narrativa tradizionale ma che crei il racconto attraverso la concentrazione di diverse voci, di diverse immagini, di diversi frammenti, per trarne un mosaico policromo, un concerto polifonico» (Franco Piavoli)
Tommaso Pomilio
Per quanto penetrato da circa due secoli, dal cuore del romanticismo più torbido, nel profondo del rimosso occidentale, e fin dal manifesto tecnico postulato nel 1912 per la teoresi futurista («noi prepariamo la creazione dell’uomo meccanico dalle parti cambiabili. Noi lo libereremo dall’idea della morte, e quindi dalla morte stessa, suprema definizione dell’intelligenza logica»1), l’uomo bio/meccanizzato – assemblaggio di parti bullonate o feticcio, elettrificata sarcitura di necrotica carne – invade ogni centimetro degli schermi cinematografici, all’albeggiare di quella nuova era terminale che possiamo riconoscere negli anni Ottanta. E di lì, sorto dalle frange più deviate e parossistiche dell’immaginario di massa, andrà a installarsi a pieno titolo come protagonista inalienabile del set di fine/inizio millennio; ossia, di terminale in terminale, come il soggetto nuovo imbrigliato nel network della città virtuale, delle sue piazze desertificanti e chiassose: hardware di nuova carne in alta tensione, energia immaginaria iniettabile da una catastrofe di bioporte fino alla purità dei labirinti virtuali estaticamente senza uscita (fra Strange Days e eXistenz). Per riassumersi infine nello spessore smateriato d’una pelle di avatar, di cui rivestirsi nell’intimità d’ogni laptop: entro il battito invisibile d’altro spazio scandito da connessioni senza fili, a riaccelerarsi ad ogni accensione in giri vorticosi di questo (non) nostro oltremondo. Se il soggetto-cyborg affonda la sua invasione d’ultracorpo nel paesaggio, virtuale o concretamente catastrofico, designato dal design d’un’era telematica, è perché viene a trovarsi sempre più al centro ormai del sistema sociale. O forse, perché è in sé figura della rete sociale, assoluta ed espansivamente disponibile e densa di smateriate identità: modulare connettività di soggetti a sé inconoscibili, e che, fermi sulla postazione (cablata o senza fili), si slanciano in forme di dialogicità soliloquianti.
Nicola Curzio
Il Film come un corpo. Qualcosa che muta e si trasforma, in un continuo divenire; che vive (e muore) in ogni istante, in ogni inquadratura, fino a quando lo schermo non diventa completamente buio e si riaccendono le luci in sala. Qualcosa, dunque, che è soggetto alla contaminazione: la contaminazione dello sguardo, prima di tutto.
Luca Romano
Il deserto è l’assenza primordiale del tutto che non conosceremo mai, ma che avverrà e passerà; una percezione indistinta della fine di tutto quello che faremo. Il deserto è nodo e chiodo contemporaneamente.
«Il chiodo è ai sedentari, dove lo pianti resta inchiodato, ultima minimale derivazione edile» (Ferretti 2006, p. 116).
Michele Sardone
Se le baracconate vanno viste nei baracconi, allora il luogo migliore per vedere Il grande Gatsby dev’essere un multiplex. Non è solo un pregiudizio snobistico (del resto inveratosi puntuale in previsione azzeccata), ma una constatazione formulata a posteriori, dopo che la sua visione venisse preceduta da una buona mezz'ora di spot alternati a trailer di film fracassoni: il flusso di immagini pubblicitarie (profumo glamour; auto di classe che sfreccia in una metropoli angosciosamente deserta; l’ultimo tanga alla moda) e sequenze catastrofiche (la furia sovrumana de L’uomo d’acciaio; la fuga umana di World War Z) e infine pubblicitarie-catastrofiche (The Bling Ring, l’ultimo tanga di Paris Hilton) non ha soluzione di continuità con l’inizio della proiezione vera e propria, e solo dopo qualche minuto, quando ci si accorge che la sequenza che si sta vedendo è un po’ troppo lunga per essere un trailer, si viene sorpresi dal film senza essere pronti al suo inizio.
Matteo Marelli
http://www.youtube.com/watch?v=qZePS5JyUOg
Holy Motors è visione senza fine né inizio, da riprendere daccapo, o dal mezzo, nel mezzo, dando nuove direzioni a linee che s’intersecano, come in un labirinto senza vie d’uscita.
Mariella Lazzarin
Motore. Azione. Potere. Tre definizioni o forse sarebbe più appropriato definirli lemmi che si sedimentano tra le pieghe di Holy Motors: un film che dichiara un’esigenza di accumulo imponente interiorizzando da una parte tutto il cinema precedente e, dall’altra, mostrando il rapporto effettivo e complesso tra l’individuo, la società e gli oggetti che abitano la realtà circostante. «Essere e oggetti sono legati» dice Baudrillard «e gli oggetti assumono in questa collusione una densità, un valore affettivo che si accetta di chiamare presenza» (2003, p. 20). Presenze che nel film di Carax diventano esistenze manifeste, oggetti liberati dalla loro funzione primaria in grado di alimentare il loro metabolismo attraverso una nuova soggettività senza limiti ovviamente inversa e contraria dal funzionamento del Reale.
Raffaele Cavalluzzi
«Vai a farti fottere, vecchio coglione!» è l’insulto con cui una badante si congeda dallo scontroso ultraottantenne suo datore di lavoro (Jean-Louis Trintignant), che la licenzia per la sua stupida superficialità nelle cure prestate a sua moglie, una vecchia signora (Emmanuelle Riva) invalidata irrimediabilmente da un ictus. L’oltraggio ha il merito di lacerare quella cortina di ovattata ipocrisia con cui la società avvolge e sostanzialmente distanzia da sé, rimuovendolo, l’emblematico episodio finale per il cui tramite la malattia senile suggella per i due protagonisti di Amour – film di rigorosa tristezza di Michael Haneke – un’esistenza – agli occhi del senso comune – protrattasi forse troppo a lungo.
Francesco Saverio Marzaduri
Poziţia copilului, recita il titolo originale. Stando alla traduzione, “posizione”, ovvero punto di vista, quello “del figlio.” Un figlio, tale Barbu (Bogdan Dumitrache), da annoverare nella già cospicua casistica di giovani irrequieti di cui il cinema rumeno, nella fattispecie quello attuale, è puntellato sino ad essere divenuta tematica tra le più assiduamente costanti. Ma a differenza dei figli “postdicembristi”, questo Barbu, più che altro, sembrerebbe detenere parentela con quella classe sociale appena abbozzata in alcuni illustri precedenti cinematografici (si pensi al fidanzato benestante di una delle protagoniste in 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni), vagamente accennata senza essere indagata a fondo. E anziché un dolente segmento storico, a gravare sulle spalle del giovanotto è un rapporto d’odio, sfociante in un feroce conflitto, con la figura materna.
Tsukamoto Shin'ya
(Versione originale)
Da bambino avevo la testa fra le nuvole.
Visto che non andavo bene a scuola, per fuggire da quelle preoccupazioni scindevo il mio cervello dal corpo e volavo nel mondo della fantasia.
Nel mondo della fantasia ero assolutamente libero, mi perdevo nella storia che avevo costruito nella mia testa. A volte esprimevo tutto questo con delle immagini. Il mio libro di testo diventava tutto nero a causa delle immagini di fantasia che fluivano dal mio cervello.
Giampiero Raganelli
Reduce dall'entusiastica accoglienza a Cannes con il suo ultimo lavoro, Norte, the End of History, Lav Diaz si conferma come uno degli autori di punta del cinema mondiale. Lo abbiamo incontrato a Milano in occasione del festival “La Milanesiana”.
(a cura di Matteo Marelli)
Vincenzo Martino
In occasione della rassegna “Registi fuori dagli sche(r)mi 2” abbiamo avuto modo di ospitare Todd Solondz, tra i più spietati poeti dell'angoscia borghese americana, giunto in compagnia dell'amico/collega Bruce Wagner, celebre scrittore nonché autore di Maps to the stars, sceneggiatura dell'ultimo lavoro di David Cronenberg.