Matteo Marelli

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Holy Motors è visione senza fine né inizio, da riprendere daccapo, o dal mezzo, nel mezzo, dando nuove direzioni a linee che s’intersecano, come in un labirinto senza vie d’uscita.


Il tema del film è già inscritto nella sua genealogia. L’incipit è un’immagine-specchio che presenta gli spettatori di una sala cinematografica: un’inquadratura fissa che fa cortocircuitare schermo e oltreschermo. Si sta, a quel riflesso, come di fronte a qualcosa che sia già avvenuto, o a qualcosa di avvenuto che percepiamo, però, come se stia accadendo in quel preciso momento: un deja-vu (cfr. Agamben 2001, p. 105).
Carax ripropone quasi specularmente l’immagine di apertura di In girum imus nocte et consumimur igni di Guy Debord.

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Ora, però, rispetto all’originale gli spettatori hanno gli occhi chiusi. L’apocalisse c’è stata, la realtà è smaterializzata, e lo spettacolo ormai è sogno e guardiano del sonno della moderna società incatenata che non esprime altro che il proprio desiderio di dormire (cfr. Debord 2006, p. 59). Carax come Debord, che a sua volta riprendeva già Feuerbach, crede che nel suo tempo prevalga l’immagine sulla cosa, la copia sull’originale, la rappresentazione sulla realtà. Del resto come recita la prima tesi de La società dello spettacolo: «tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione» (ivi, p. 53). Lo spettacolo dunque assurge a vera e propria visione del mondo oggettivata. «Non è la sovrastruttura della produzione esistente, non ne è l’elemento decorativo, è il cuore dell’irrealismo della società reale» (ivi, p. 54).
 L’audio del film proiettato, che non scuote il pubblico dalla catatonia, sveglia però Carax addormentato in una camera d’albergo. Lo stacco di regia mostra il regista alla ricerca della fonte originaria di quel suono, che scopre provenire dietro una porta nascosta da una “selva oscura” raffigurata sulla carta da parati della stanza. Superata la soglia, lampi di luce elettrica illuminano l’ingresso nella sala cinematografica. Spazi e arredi altisonanti e tagli di luce riportano immediatamente a mente uno dei luoghi di culto della memoria spettatoriale: il Club Silencio di Mulholland Drive.

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In Holy Motors, così come nell’opera lynchana, quello che avviene in questo contesto è totalmente irrelato nell’economia della trama. Perciò assume un’importanza di rilievo. Anch’esso funziona insieme come anticipazione e causa di uno sviluppo narrativo assolutamente imprevedibile che, invece di risolversi nel finale, porta a una moltiplicazione delle possibilità, a un riavvolgimento di quanto successo in una dimensione altra. Ma soprattutto nel gioco riflettente/riflessivo esemplifica lo statuto simulacrale dell’immagine cinematografica, il suo essere replicante, prodotto di meccanica ripetizione. Si costituisce come unʼevocazione metaforica del dispositivo cinematografico e del rapporto spettatoriale. Ecco che alla luce di questo trovano una loro giustificazione anche gli inserti cronofotografici, sempre inseriti in questo brano di film, di Étienne-Jules Marey: «scrittura fotografica delle modificazioni della forma in funzione del tempo» (Marey in Egidi), ovvero rappresentazione analitica delle fasi successive di spostamento di un corpo, attraverso la ripetizione delle parti in movimento.

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Carax compie un’operazione citazionista che rievoca il senso dei détournements debordiani: riproposizione di “sequenze rubate” intrise di un nuovo significato, all’interno di una ricostruzione dal significato altro. Sfregio avanguardistico interpretabile come dimostrazione d’impudica indifferenza nei confronti del valore dell’autenticità. Nella citazione si innesca lo stesso moto circolatorio, fin qui, più volte indicato come costante strutturale dell’opera. Nel gioco di rimandi il discorso "circola", vale a dire che non va più da un punto all’altro, ma percorre un ciclo che ingloba indistintamente le posizioni di autore e destinatario-spettatore che si annullano vicendevolmente in un meccanismo continuo e inglobante. In definitiva Holy Motors «chiede allo spettatore di mettere in gioco la propria enciclopedia di competenze intertestuali e intermediali per partecipare al gioco dei rimandi, ma allo stesso tempo lo invita a sospendere l’incredulità e a lasciarsi essere protagonista dello spettacolo di cui si sta fruendo» (Pescatore 2006, p. 150).

A conclusione di questo prologo ad alta densità metadiscorsiva c’è lo sguardo in macchina di una bambina. Un gesto d’interpellazione spiazzante, incandescente, perché apparentemente privo di giustificazione diegetica; poi questo viene riassorbito e giustificato all’interno dell’universo finzionale da un controcampo che ci rivela la sua vera natura: si tratta di un’immagine del film proiettato nella sala sino ad ora tenutoci nascosto. In quei brevi attimi che precedono la rivelazione il film evade, straborda oltre i margini consentiti. Di fronte a quello sguardo che reagisce guardandoci ci scopriamo visti. Scopriamo la reversibilità tra noi e l’altro, e cioè la possibilità da parte dell’altro, che noi vediamo guardarci, d’essere soggetto oltre che oggetto del nostro sguardo, e nello stesso tempo la possibilità da parte nostra, che ci vediamo guardati, d’essere oggetto oltre che soggetto di uno sguardo. Non c’è più uno spettatore che domina la rappresentazione, e la domina col suo occhio; c’è invece una circolarità di sguardi che fa del pubblico un elemento della scena e viceversa. Il fatto di entrare in uno sguardo altrui dà luogo ad un momento di autoriflessività (mi vedo visto e insieme vedo il mio vedere); ma soprattutto dà luogo ad un’immersione nel mondo. Veniamo catapultati nella proiezione della proiezione.
In questo universo filmico di secondo grado Carax spinge alle estreme conseguenze la destrutturazione delle forme, vera e propria dominante culturale della sensibilità postmoderna. Costruisce un calembour cinematografico giocato «sulla frammentazione schizofrenica, la molteplicità, la serialità, sulla proiezione di sempre nuovi punti di vista» (Cesarani 1997, pp. 84-85).

La narrazione si arrotola su sé stessa e si presenta sotto forma di una serie di avvenimenti sprovvisti di legami logico-causali, il cui protagonista, Oscar, è un soggetto dalle molteplici forme, privo d’identità distintiva, che ha rinunciato alla propria immagine originaria per interpretare i giochi dei tanti volti assunti. Un corpo impalpabile teso a definirsi nel momento dell’appropriazione del ruolo di volta in volta assegnatogli. Un «ombrofago che si libera della propria ombra divorandola, […] divenendo pellicola neutra facilmente impressionabile da qualsiasi caratteristica di genere» (Naldi 2003, pp. 52-53); un soggetto che si realizza perdendosi, diventando altro per divenire la verità di sé stesso  (cfr. Debord 2006, p. 146). L’identità che ne risulta non è più unitaria e compiuta, ma fluida e mutevole, poliforme e plurale.
È immagine di nomadismo identitario che raggiunge la sua più efficace raffigurazione nella sequenza del motion capture:

motion capture

Il soggetto non è più collocato in un punto dello spazio e del tempo, è moltiplicato negli archivi dei dati, disperso nei e dai messaggi, dissolto e decontestualizzato, poi reidentificato dalla trasmissione di simboli. Crollano i confini ontologici, i mondi si mescolano, le immagini e le fantasie si confondono e diventano reali, e le metafore diventano letterali.
Il corpo di Oscar, così come il corpo filmico di Holy Motors, scopre e mostra che non si basta più, sente l’insufficienza della propria singolarità, subisce il polimorfismo non tanto come condanna quanto come fatale e irresistibile attrazione. Forse «è la stessa trasformazione dell’organismo sociale […] a sollecitare o addirittura esigere dal singolo corpo una pluralità di prestazioni  e di ruoli […] che fanno della schizofrenia non una sindrome patologica, ma la condizione fisiologica della quotidianità relazionale» (Canova 2004, p. 146).


Bibliografia

Agamben G. (2001): Il cinema di Guy Debord, in Ghezzi E. – Turigliatto R. (a cura di): Guy Debord (contro) il cinema, Il Castoro/La Biennale di Venezia, Milano.

Canova G. (2004): L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Studi Bompiani, Milano.

Ceserani R. (1997): Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino.

Debord G. (2006): La società dello spettacolo: commentari sulla società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano.

Naldi F. (2003): I’ll be your mirror: travestimenti fotografici, Cooper&Castelvecchi, Roma.

Pescatore G. (2006): L’ombra dell’autore: teoria e storia dell’autore cinematografico, Carocci, Roma.


Filmografia

Holy Motors (Leos Carax 2012)

In girum imus nocte et consumimur igni (Guy Debord 1978)

Mulholland Drive (David Lynch 2001)


Sitografia

Egidi F.: La ferrea rete di velocità che avvolge la Terra.