Archeologia della memoria ed Etnologia di sé. Lettere, Confessioni, Diari

Giovanni Festa

L’altra notte (mi verrebbe da aggiungere, automaticamente, la data, zelo inevitabile in un testo sulla memoria e la sua scrittura, ma non la ricordo), quasi in dormiveglia, cercando di capire come iniziare queste riflessioni, mi è venuto in mente all’improvviso William Hurt-Sam Farber quando, in Fino alla fine del mondo (1991) di Wim Wenders, registra ricordi per la madre cieca Jeanne Moreau-Edith. Registra immagini in soggettiva. Cioè, al cinema, in prima persona.

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Rodrigo Sebastián

(Traduzione di Giovanni Festa)

Nel 2009, dopo una lunga carriera come regista, Alain Cavalier ha presentato uno strano prodotto audiovisivo, vicino – per il suo stile minore, l'enunciazione estremamente personale e ciò che registra –  al diario e al saggio. Irène appartiene in questo senso ad un certo spirito d'epoca, che si definisce, a partire dal passaggio del secolo, per un rinnovato e crescente interesse per forme intergeneriche simili, realizzabili grazie alla tecnologia video e alle sue caratteristiche, come la rapidità tecnica, la riduzione dei costi economici durante la registrazione e la modifica di suoni e immagini in movimento.

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Domenico Saracino

«Credo di non fare niente di male annotando qui, di giorno in giorno, con estrema franchezza, gli umilissimi, insulsi segreti di una vita peraltro priva di mistero». Scrive così il prete protagonista di Diario di un parroco di campagna di Georges Bernanos, nella traduzione di Stefania Ricciardi per i tascabili Bompiani. E così, con queste esatte parole, vergate su un quaderno e inquadrate con uno zoom-in subito dopo i titoli di testa, ma allo stesso tempo anche pronunciate dalla voce over del parroco di Ambricourt, comincia il film di Robert Bresson che ne è la trasposizione cinematografica.

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Alessandro Cappabianca

Ero in debito col Martin Eden di Pietro Marcello, che altrove definii uno splendido mezzo film, avanzando qualche riserva sulla seconda parte (pur ricca di cose interessanti). Nel rivederlo, faccio ammenda.

Giovanni Festa

È più lenta la vita o la sua scrittura? Ma non si potrebbe dire anche il contrario? È più rapida la vita o la sua scrittura? La seconda, almeno, scorre per restare. La scrittura come carta moschicida sulla quale lasciare aderire la vita.

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Marika Consoli

«[…] Girati, e non importa quanto lontano andrai, tornerò qui […]»

Amir Eid, Cairokee, Ya Abyad Ya Eswed

La tensione alla conoscenza che il processo interno alla memoria genera, inserendosi in quella che si potrebbe definire un’ontogenesi dell’immagine – e da lì diventa traccia, principio: ἀρχή, fondamento di tutte le cose – percorre tutta la poliedrica produzione di Mario Martone da molto tempo, quando già opere teatrali come I Persiani di Eschilo, rappresentata al Teatro Greco di Siracusa con musiche di Franco Battiato, erano in qualche modo il segno di una ricerca che si sarebbe fatta via via più evidente; che già allora conduceva uno studio finalizzato a restituire la forma originaria dell’oggetto rappresentato attraverso la distinzione dei tre cori, innestati sui tre pilastri espressivi del «gesto», della «parola» e della «musica» (come si evince da un’intervista del 10 aprile 1990 su Il Mattino), coerentemente con l’intento etnografico di acquisire il quadro di un popolo, per mezzo dell’arte; e che ora, con Nostalgia, unendo gli estremi di quella triade antropologica che è linguaggio, storia, dimora, contraddistingue il perpetuarsi di un ritorno, del suo dolore.

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