risultati per tag: Domenico Saracino

  • Dal lato oscuro della Luna, quella sua faccia buia e crivellata, sottratta allo sguardo e alla luce, sprotetta e dunque più esposta alla furia meteoritica, a quello non meno impenetrabile e martoriato del cuore umano. Che si tratti di un viaggio interspaziale, dalla Terra a Nettuno, o della spedizione amazzonica di un esploratore alla ricerca di una città perduta, James Gray sa perfettamente che ogni esplorazione scatena inevitabilmente un’implorazione, che ciò che scorre fuori non può che rifluire all’interno, che ogni scoperta porta con sé uno scoperchiamento, lo sgorgare di una materia nuova, ignota.

  • C’è una scena, in questo Joker di Todd Phillips, che è tanto ingiustificata e singolare sul piano del racconto (non aggiunge cioè nulla, né all’intreccio, né alla caratterizzazione del suo protagonista) quanto significativa su quello paratestuale, rivelatrice com’è del senso forse più profondo del film, svelato poi anche da tutta un’altra serie di scelte, che investono non solo la scrittura e il montaggio ma anche la direzione attoriale, il production design, l’impianto visivo. Si tratta di una ripresa di pochi secondi, in campo lunghissimo, delle strade di New York-Gotham City viste dall’alto. Come è naturale che sia per un’inquadratura di questo tipo è l’ambiente a dominare, non ci sono personaggi o volti umani riconoscibili, ma solo automobili che transitano su una normalissima strada metropolitana, irrilevante nell’economia narrativa.

  • Appartiene agli amanti, la notte, come cantava Patti Smith in un brano molto noto donatole da Springsteen, non a caso innestato sulle immagini di quella prodigiosa fantasticheria erotico-subacquea del comandante Jean in L’Atalanteche ha aperto per vent’anni Fuori orario. La notte, la “sacra, ineffabile, misteriosa notte” cui Novalis ha rivolto i suoi Inni e Jarmusch rimesso l’arte e l’amore dei suoi vampiri (la musica underground di Adam, i libri di Eve in Only Lovers Left Alive). È in questa dimensione, in questo regno grondante di desiderio, di musica, di poesia e di fantasmi, che si consuma L'Âge atomiquedi Héléna Klotz. Che inizia con il buio fuori dai finestrini di un treno in movimento verso Parigi, il vagone stipato della forza d’attrazione tra due giovani uomini che parlano appunto di pezzi da ascoltare e degli Stone Roses, dopo che una stralunante versione elettronica di In the ghetto si è impossessata per qualche istante della scena, smaterializzandola. 

  • Traduzione di Mariarosa Di Marino

    Nous poursuivons un cinéma enflammé, un cinéma pour les rêveurs transpirants, les monstres qui pleurent et les enfants qui brûlent”. Questa frase è un estratto di Flamme, il manifesto che voi due avete firmato sui Cahiers du cinema nell’agosto del 2018 assieme a Yann Gonzales e Bertrand Mandico. Un mese dopo, Jessica Forever veniva presentato a Toronto. La parola mostro ricorre spesso nel film e le fiamme divampano in modo letterale sullo schermo. Praticamente una corrispondenza perfetta tra intenti e risultati…

  • «On n'aime que ce en quoi on poursuit quelque chose d'inaccessible. On n'aime que ce qu'on ne possède pas». Non può esserci amore, secondo la celebre asserzione proustiana contenuta nella Recherche, se non in ciò che non si possiede, in ciò che è impenetrato, irrisolto, indecifrato.

  • Di quell’ammasso informe che ci ostiniamo a chiamare realtà, quel poco che gli occhi vedono e le orecchie captano, Antonio Capuano ha sempre cercato l’arcano. Tutto ciò che sta, etimologicamente, dentro l’arca e non fuori; che rimane quindi nascosto, imperscrutato, insondato, almeno finché qualche ape dell’invisibile – per dirla con Rilke – non arriva a bottinare il miele del visibile (che va estratto dai fiori, come da un’arca, appunto) per ricondurlo al favo d’oro dell’invisibile, e cioè il (non) luogo delle storie, delle preghiere, di Dio, di una realtà finalmente completa, perché comprensiva di tutto ciò che sfugge ai sensi.

  • È difficile pensare di poter parlare di cinema e rivoluzione senza che alla mente s’affacci subito il ’68, e più in generale, il radicale sovvertimento che è proprio degli anni Sessanta, con le loro nouvelle vague nazionali e internazionali e le rivolte – formali e tematiche – contro il cinema (e le ideologie) “di papà”. 

  • Quando il teatro (o il cinema, aggiungiamo noi) si disinteressa della mimesi, della drammaturgia o della spettacolarizzazione, ha l’occasione di fare qualcosa di miracoloso: disvelare, far emergere l’aletheia delle cose. Così la pensavano Grotowski o Artaud, ad esempio, il quale per tutta la sua vita ha più volte sostenuto, con forza, la necessità di «ignorare la messa in scena» e di “sopprimere” il «lato strettamente spettacolare dello spettacolo». 

  • Avvolto nel suo impermeabile scuro, Mr. Glass valica la strada con passo trafelato, sghembo, un braccio poggiato sul bastone, l’altro ciondolante, penzoloni. Questo corpo trascinato a forza attraversa centralmente il campo lungo dell’inquadratura, si avvicina alla macchina da presa, mostrando il volto teso, le labbra storte. All’ingresso della metropolitana la figura, stagliata contro il cielo luminoso, si arresta impaurita, mentre uno zoom out verso il basso svela impietoso la discesa oscura, di scale e corrimani tubolari, che lo attende. Vorrebbe soltanto chiedere qualcosa a qualcuno, ma quel qualcuno non è disposto ad ascoltarlo, a fermarsi. E nel tentativo disperato di raggiungerlo, Mr. Glass, l’uomo di vetro, si avventura giù per le scale, conscio, perfettamente, di ciò che rischia a causa della sua osteogenesi imperfetta.

  • Meteors è il primo lungometraggio del regista turco Gürcan Keltek. Un esordio sorprendente che ha sedotto gli sguardi di molti degli spettatori della sezione Cineasti del Presente alla 70esima edizione del Locarno Festival, dove è stato proiettato in anteprima mondiale. Vi si ritrovano rari materiali d’archivio sulle operazioni militari turche della tarda estate del 2015 nelle regioni curde dell’Anatolia orientale, quando, dopo un periodo di tregua e di trattative, la situazione precipitò e la Turchia decise di avviare una feroce campagna bellica contro gli autonomisti del PKK.

  • «Credo di non fare niente di male annotando qui, di giorno in giorno, con estrema franchezza, gli umilissimi, insulsi segreti di una vita peraltro priva di mistero». Scrive così il prete protagonista di Diario di un parroco di campagna di Georges Bernanos, nella traduzione di Stefania Ricciardi per i tascabili Bompiani. E così, con queste esatte parole, vergate su un quaderno e inquadrate con uno zoom-in subito dopo i titoli di testa, ma allo stesso tempo anche pronunciate dalla voce over del parroco di Ambricourt, comincia il film di Robert Bresson che ne è la trasposizione cinematografica.

  • Mentre la macchina da presa volteggia su per il fianco femico dell’enorme vulcano a scudo dell’isola di Ambrym, le voci del coro di monaci del Monastero Pechersk di Kiev intonano un possente canto russo ortodosso. Pare che quando Werzog abbia rivisto queste riprese aeree, con cui ha poi deciso di aprireInto the Inferno, abbia capito «in un istante» (lo ha detto lui stesso in uno speech durante ilRed Bull Music Academy New York Festival 2017) che l’unico commento musicale adeguato a quelle immagini di lava basaltica stratificata, di ascensione sopra quella colossale, sedimentata opera della natura e del tempo, fosse un coro della tradizione sacra sovietica. 

  • Se l’esperienza estetica è la più alta forma possibile di interazione tra gli esseri umani e tutto ciò che li circonda – come ha magistralmente teorizzato John Dewey nel suo testo più noto, Arte come esperienza–, allora potremmo dire che L’expérience Zola, l’ultimo film di Gianluca Matarrese, ne è una sorta di prova audiovisiva, un’attestazione rivelatrice.

  • Partire dall’immagine, dal suo essere manifestazione visiva delle cose in sé, epifenomeno, affioramento. Lasciare indugiare lo sguardo, penetrarle, consultarle, quelle immagini, interrogarle (o lasciarsene interrogare) nel tentativo, direbbe Didi-Hubermann, di “vedere per sapere meglio”. E ancora: inabissarsi nella moltitudine infinita delle forme, farsi naufrago tra i flutti dei rimandi, delle corrispondenze, dei significa(n)ti, con l’occhio mai sazio.

  • Settembre 1921: mentre l’alcol continua a fluire, inebriante, nonostante la proibizione per legge e il jazz, agli albori della sua “età”, «mette in sincope il peccato» (per riprendere il titolo di un articolo un po' beghino uscito il mese precedente a firma della presidentessa del Ladies Home Journal), un gruppo di ricchi hollywoodiani affitta tre stanze contigue nell’albergo più grande della costa occidentale (il "St. Francis" di San Francisco) con l’intenzione di fare una baldoria gatsbiana dopo mesi di lavoro. Una giovane donna finisce per lasciarci le penne su sfondo apparentemente sessuale, gli american tabloid gridano allo scandalo, un ambizioso procuratore distrettuale prende al volo la palla della visibilità nella brama di diventare governatore. È in questo scenario ellroyano che il corpo comico più noto e pagato del cinema muto – Roscoe “Fatty” Arbuckle – si trasforma, agli occhi del mondo, in un corpo grottesco.

  • Paterson, New Jersey. Le vecchie filande in mattoni rossi di Paterson; la Union Works, tra Spruce Street e Market Street, di Paterson; le Grandi Cascate del fiume Passaic di Paterson; il deposito degli autobus di Paterson; gli incroci delle strade di Paterson; Paterson di Paterson.

    Ci aiuta, l’epifora, che potrebbe essere anafora o simploche, poco importa, a restituire in forma scritta quello che Jarmusch fa con l’audiovisivo in Paterson: litaniare la città. Evocare con la litania della parola (o, in questo caso, del visivo) con la ripetizione e l’evocazione diretta, disintermediata, la materia dietro lo spirito, l’immagine dietro l’idea, il referente oltre il segno, la città dietro il panorama. La Paterson di Jarmusch è l’opposto della Tamara di Calvino: non è qualcosa che resta sepolta sotto un “involucro di segni”, da cui uscire senza averla conosciuta. Non esiste in funzione di, nella vaga sembianza di un’altra qualunque città. É fatta di Paterson stessa.

  • Rod Serling, indimenticabile scrittore e sceneggiatore americano, autore e voce narrante di una delle serie televisive antologiche più amate e significative di sempre (The Twilight Zone), è stato per molti versi un esempio mirabile di abilità nel decostruire temi sociali (la paranoia nucleare, il razzismo, l’ipocrisia religiosa e politica, la solitudine, il conformismo e molto altro) attraverso le lenti della fantascienza e dell’horror. Una voce talmente popolare da risultare inconfondibile per il pubblico degli anni Sessanta prima (il periodo di messa in onda è 1959-1964) e Settanta poi.

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