È difficile pensare di poter parlare di cinema e rivoluzione senza che alla mente s’affacci subito il ’68, e più in generale, il radicale sovvertimento che è proprio degli anni Sessanta, con le loro nouvelle vague nazionali e internazionali e le rivolte – formali e tematiche – contro il cinema (e le ideologie) “di papà”. 

Ben lontano dall’essere soltanto un movimento sociale e politico, una ribellione generazionale (i giovani), di genere (il femminismo radicale) e di classe (gli studenti, gli operai) con precise istanze e rappresentanze, il Sessantotto ha rappresentato innanzitutto un ripensamento esistenziale, una dolente ri-discussione dell’autorità, delle disparità, dell’oppressione e dell’obbedienza in ogni loro struttura e configurazione. Un anno simbolico, insomma, che è, allo stesso tempo, una sollevazione del pensiero e la summa di precisi processi economici, politici e sociali riconducibili, di diritto, alla fine del secolo precedente, nonché l’illusorio inizio di un cambiamento di massa – dunque ancora inedito, sotto questa luce, rispetto al passato – che poi, nei fatti, non si concretizzerà mai.

Il ’68 è uno stato mentale, un modo di porsi dinanzi alle asimmetrie del potere e allo status quo che il cinema ha saputo ben incamerare e, per certi versi, indirizzare, favorire, catalizzare. E ci sembra interessante approfittare del tema di questo speciale per riflettere brevemente su una manciata di titoli italiani usciti prima del 1968, alcuni dei quali ingiustamente trascurati, che riteniamo abbiano ben rappresentato, anticipandole, le principali (contrap)posizioni dei moti sessantottini.

CONTRO L’ETICA DEL LAVORO: “I GIORNI CONTATI” E “CHI LAVORA È PERDUTO”


Che gli anni Sessanta siano stati un periodo di forte accelerazione e concretizzazione delle istanze anti-capitaliste e anti-borghesi da lungo tempo circolanti tra varie fasce della popolazione è un fatto ben noto ed evidente. Se usciamo un attimo dalle fabbriche e dalle piazze, dalle manifestazioni e rivendicazioni della classe operaia, e inquadriamo queste energie nella dimensione più ludico-esistenziale, più individuale e controculturale del Sessantotto (evidente soprattutto nel movimento studentesco francese e statunitense), quella più “adolescenziale” e pre-rivoluzionaria, è facile comprendere come la rivolta contro padri e padroni sia innanzitutto un rifiuto della vita che essi sembrano aver scelto per figli e sottoposti: un’esistenza di obblighi, doveri, sacrificio e lavoro in cambio – quando e se va bene – di tranquillità economica, potere d’acquisto, soddisfazione personale e rispetto altrui. Un rigetto, dunque, verso il lavoro e tutto ciò che esso rappresenta nella sua deriva tardo capitalista.

Due film usciti nei primi anni Sessanta, a breve distanza l’uno dall’altro, appaiono a tal proposito esemplari: I giorni contati (1962), secondo lungometraggio che Elio Petri realizza dopo aver già inaugurato con L’assassino, pur se all’interno di una cornice di genere, uno dei temi centrali della sua filmografia e degli anni a venire (il rapporto perverso tra autorità e sudditi) e Chi lavora è perduto (1963), esordio scomodo e inviso ai censori di Tinto Brass.

Sia Cesare, lo stagnaro romano cinquantenne interpretato da Salvo Randone nel film di Petri, che Bonifacio, il giovane disegnatore veneziano appena diplomato protagonista dell’opera di Brass, sembrano aver sviluppato una personale idiosincrasia per il lavoro, il primo dopo aver dedicato ad esso quasi tutta la sua vita, il secondo ancor prima di cominciare. A determinare l’insostenibile insofferenza è in entrambi i casi la morte, fisica o metaforica che sia, avvenuta o vagheggiata. Se Bonifacio entra in crisi prima di un colloquio, mentre cammina solingo per Venezia immaginando le mille, dolci forme della libertà che la futura occupazione potrebbe costargli, l’idraulico dell’Urbe ha già pagato il prezzo del lavoro, trovandosi, carico di rimpianti e terrorizzato dalla morte incontrata su un tram, a lasciare il mestiere per rincorrere una giovinezza che ha ormai perduto e sacrificato.

Salvo Randone in I Giorni Contati

Cesare e Bonifacio anticipano quel “portare il Vietnam dentro di sé” che qualche anno più tardi, all’alba del ’68, Godard avrebbe auspicato per ogni individuo stanco di gioghi, sopraffazioni, autoritarismi. Il Vietnam come la rivolta dell’uomo, di ogni uomo, alla propria parte oppressa, qualunque essa fosse. Entrambi cercano in interiore homine la verità profonda dell’individuo e la via e le ragioni del bisogno e del percorso di liberazione e decondizionamento. Per Cesare quella componente è lo spirito spensierato, smosso, smottato, della giovinezza, dell’ozio giocoso, della scoperta, dell’invenzione, calpestato e sotterrato dall’alienante frenesia della vita moderna, coi suoi ritmi dettati dal capitale, dalla produzione. Per Bonifacio è la condizione giovanile, pre-lavorativa di cui si illude di poter ancora godere, ad libitum; è fare il bagno nudi, abbandonarsi (in)dolentemente ai ricordi, camminare per Piazza San Marco, emblema di ogni illusione di libertà, di pluralismo, d’incontro, di democrazia e, soprattutto, di piacere.

Perché qui, come ovunque, puoi fare davvero solo «ciò che scritto sulle guide, fotografare e farsi fotografare, ammirare e farsi ammirare, fare tutti quello che tutti fanno: ecco la grande regola democratica». L’anarchia è concessa in ben poche e chiare forme e quantità, al massimo nel privato dei propri pensieri, in cui Bonifacio può persino pensare di trasformare un salotto (c’è un riferimento più classico di questo alla borghesia?) in un casotto, un bordello ove trastullarsi con leggiadre donzelle. Pagando questa evanescente libertà a caro prezzo, con la propria stessa salute mentale; esattamente come accade nel film di Petri, in cui Cesare vede avverarsi i suoi peggiori presagi.

Bonifacio nel salotto borghese in Chi lavora è perduto


CONTRO LO SFRUTTAMENTO, L’INDIFFERENZA E IL CINISMO BORGHESE: “I COMPAGNI” E “PRIMA DELLA RIVOLUZIONE”


Accanto ai film che mostrano un ripensamento dell’occupazione lavorativa in termini esistenziali, ce ne sono altri, come I compagni (1963) di Mario Monicelli che fanno del lavoro un campo di battaglia di civiltà, di rivendicazioni sindacali e giuridiche, dunque di interesse collettivo e di progresso umano. Mettendo in scena le agitazioni e gli scioperi degli operai dell’industria tessile torinese di fine Ottocento, Monicelli e Age-Scarpelli abbracciano idealmente i settantamila elettromeccanici che avevano scioperato a Milano tre anni prima e portano sul grande schermo le istanze sindacali che esploderanno poi nell’autunno caldo del ’69 e che culmineranno nell’emanazione dello Statuto dei Lavoratori nel 1970.

Ed è importante che al prof. Sinigaglia, uno dei protagonisti del film, l’intellettuale esperto di lotte sindacali che guida idealmente e operativamente gli operai del film, venga dato il volto di un divo come Marcello Mastroianni, già lanciatissimo ormai dalle collaborazioni con Fellini e in particolare da La Dolce Vita (1960) e , uscito a febbraio del 1963, una decina di mesi prima de I compagni, che venne distribuito alla fine dell’anno. È al suo volto assieme calmo, quasi rassegnato alla sconfitta, da intellettuale stanco e narciso (tipico dei ruoli poc’anzi ricordati) e trascendente, proiettato verso una vittoria ideale, immateriale, atarassica, capace anche di guizzi beffardi (come sarà, di lì a poco, nel cinema di Petri, prima in Todo Modo e poi, in modo assolutamente sorprendente in La decima vittima), che viene affidato il ruolo più importante, quello dell’indispensabile leader della rivolta.

Mastroianni in una delle inquadrature più belle de I compagni

Spetta a lui – ma anche a Renato Salvatori e all’indimenticabile Folco Lulli – l’onere di rappresentare la ribellione allo sfruttamento, al cinismo ipocrita della borghesia, al lavoro inteso come mezzo di profitto, di arricchimento di chi detiene il capitale; concezione nata con la separazione dei lavoratori dai loro tradizionali mezzi di sussistenza e quindi dal loro “naturale” stile di vita per assoggettarlo alle leggi del mercato, richiamate più volte dall’intreccio (il proprietario della fabbrica si lamenta coi suoi sodali dell’incapacità di far fronte, venuta meno la produzione, alle commesse). È un uomo alienato, l’operaio cui Monicelli guarda, che non si riconosce più nel risultato del proprio lavoro e si sente dunque estraniato, isolato, demotivato. Un essere a totale disposizione del capitalista, contro cui non potrà che insorgere.

A differenza dei casi precedenti, in cui ad interrogarsi e ad ammutinarsi sono perlopiù uomini del popolo (uno studente che si esprime in dialetto veneziano, uno stagnaro, gli operai), in Prima della Rivoluzione (1964), sicuramente uno dei film più citati, insieme a I pugni in tasca (1965), per parlare di opere che anticipano il ’68, Bertolucci opta per un’altra strada, che sarà poi anche di Bellocchio, l’anno successivo: affida la critica alla borghesia e il tentativo di emancipazione ad un giovane che appartiene proprio a quella classe sociale. Ma a differenza del film di Bellocchio, in cui la rivolta non ha alcun appiglio ideologico, nell’opera di Bertolucci i tumulti del protagonista, Fabrizio, trovano supporto nell’impegno politico rappresentato dall’amico Cesare (interpretato, tra l’altro, da Morando Morandini), insegnante e militante comunista. È in questa dimensione ideologica, oltre che nella scandalosa relazione incestuosa con sua zia, che Fabrizio trova le ragioni e gli spazi stessi della sua rivolta, che rimarrebbe, altrimenti, soltanto psicologica, edipica.

Ciò non significa però che la dimensione politica assuma dei connotati sostanziali o si estrinsechi in un’azione collettiva dalle conseguenze concrete, riformanti. Come in tutta la filmografia bertolucciana, infatti, gli impulsi radicali finiscono per capitolare dinanzi ai richiami all’ordine, alla conservazione del sistema borghese. E così Fabrizio chiude la sua parentesi politica e amorosa per tornare nell’alveo delle aspettative sociali e famigliari ricongiungendosi con l’ex fidanzata, conforme alla linea.

Fabrizio e Cesare in Prima della rivoluzione

L’innovazione, l’affrancamento, sta piuttosto nella forma, che come già ravvisabile in Chi lavora è perduto, si stacca dal realismo ontologico dei maestri neorealisti – ancora evidente nei (primi) film di Petri e di Monicelli a cui si è fatto cenno – per inseguire un’(est)etica che guarda alla Francia della Nouvelle Vague e per trasporre sul piano visivo un’inedita (rispetto all’immediato passato) sfiducia nel visibile e nel rappresentabile, una certa mancanza di inquadramento ottenuta per mezzo di un uso sapiente del fuori campo e del montaggio (a titolo d’esempio citiamo l’intera sequenza delle cadute in bicicletta di Maurizio, il compagno di Fabrizio che poi morirà suicida), del jump cut o dei piani super ristretti (in Brass), incapaci di visualizzare, di totalizzare.


CONTRO I COLONIALISMI: “QUIEN SABE” E “REQUIESCANT”


Alta borghesia, capitalismo e sfruttamento non riguardano soltanto fabbriche ed operai, salotti e ricchi uomini d’affari. L’avida sete di profitto non ha mai conosciuto confini nella storia dell’uomo e i capitalisti, i potenti del mondo, non si sono mai limitati ad opprimere e schiacciare le classi subalterne dei propri territori, andando piuttosto alla ricerca di risorse e manodopera ben fuori dalle proprie frontiere nazionali.

Nello stravolgimento dello status quo propugnato dai rivoluzionari italiani ed europei degli anni Sessanta non poteva certo mancare uno spirito internazionale anticolonialista e terzomondista, le cui basi ideologiche erano state poste dal Marxismo e ora ripartivano con forza proprio dalle aree sottosviluppate (Frantz Fanon, padre del terzomondismo, veniva dalla Martinica, isola colonizzata dai francesi nel ‘600), andando affermandosi con sempre maggiore forza in Europa e Stati Uniti, dove trovavano vigoroso supporto teorico in alcuni economisti di orientamento marxista come Paul Marlor Sweezy e Ernest Mandel.

C’è una doppia direttrice, dunque: una porta le istanze anticolonialiste dalle colonie ai Paesi colonizzati; l’altra riporta l’accoglimento di tali istanze da parte dei principali intellettuali europei (I dannati della terra, il grande libro-manifesto scritto da Fanon ha la prefazione di Jean-Paul Sartre). In tutta Europa è in atto una riflessione sulla necessità di aprirsi al confronto con i movimenti di decolonizzazione che, nel frattempo, imperversavano in tutto il mondo, da Che Guevara a Mao, e moltissimi pensatori scelsero di impegnarsi a sostegno dei movimenti di liberazione (nel cinema basti pensare a Godard e a tutto il collettivo Dziga Vertov, ad esempio).

In Italia il punto di partenza sono le considerazioni sulla questione coloniale nate in seno al Partito Comunista d’Italia (così si chiamava finché nel 1943 divenne Partito comunista italiano) e le idee sulla questione meridionale che Gramsci affida ai suoi Quaderni. Pasolini, marxista e comunista, da sempre amico di Sartre, è uno degli intellettuali italiani più impegnati nell’esaminare la dialettica tra Nord e Sud del mondo, tra l’antico mondo contadino e il moderno universo industriale e non è un caso che Carlo Lizzani (ex fascista, detrattore del calligrafismo, allievo di Rossellini, neorealista innamorato della Resistenza, poi infine intellettuale marxista-comunista) lo scelga nel ruolo di un prete pistolero rivoluzionario in Requiescant (1967), uno dei western italiani più esemplari se si parla dell’afflato utopico-rivoluzionario che caratterizza il rinnovamento del genere in quegli anni, portato avanti da altri registi come Sergio Sollima, Damiano Damiani, Sergio Corbucci, Giulio Petroni.

Così come non è un caso che nel ruolo del giovane pistolero messicano rimasto orfano che dà nome al film ci sia Lou Castel, l’attore comunista e attivista di sinistra che era già diventato simbolo del cinema della contestazione incarnando il personaggio di Alessandro nel capolavoro pre-sessantottino di Marco Bellocchio, uscito due anni prima di Requiescant.

Disparità sociale, giustizia, lotta per la libertà – tutti temi caldi della stagione che sfocerà a breve nel vero e proprio ’68 – sono temi serpeggianti all’interno del western lizzaniano, che non lesina critiche alla società e messaggi in favore dei più poveri e diseredati, non ultimo scegliendo come eroe un umile e remissivo messicano, apparentemente apatico e per nulla coraggioso, che si lega la pistola in vita con una misera corda invece che con il cinturone tipico del western classico. Del resto fu Lizzani stesso, come riportato da Alberto Crespi nel suo recente, ormai indispensabile, Storia d’Italia in 15 film, a dichiarare in un’intervista del 2004, che «[…] c’erano tanti di quei film sulle lotte contadine, tanti copioni non realizzati sullo sfruttamento delle classi subalterne, che il western fu una grande metafora in cui far rientrare tutto questo “rimosso” del nostro cinema».

Quando Requiescant ritrova la sorellastra Princy e scopre che è costretta a guadagnarsi da vivere come prostituta sotto il controllo degli uomini del potente Ferguson, la sua missione per liberarla si intreccia inestricabilmente con la vendetta personale (Requiescant scopre che quando era piccolo Ferguson e i confederati avevano tradito e ucciso la sua famiglia, il suo popolo) e con la rivolta collettiva caldeggiata dal prete pistolare don Juan-Pier Paolo Pasolini. La lotta contro il potere è dunque una faccenda personale e collettiva, privata e politica.

Requiescant (Lou Castel) affronta Ferguson

E anche in Quién sabe? (1966), forse il tortilla western (una definizione che, come spaghetti western, mantiene tutto il suo portato di sprezzante stereotipia razzista, e dunque sarebbe forse da rivedere) dai connotati politico-rivoluzionari più evidenti, Damiano Damiani non risparmia certamente investiture simboliche e rimandi alla questione meridionale, alle rivoluzioni e al terzomondismo, argomenti di cui si il suo cinema si era già occupato (basti pensare alla Napoli del corto Voci di Napoli o alla Procida de L’isola di Arturo) e continuerà ad occuparsi (tutto il filone dei film ambientati in Sicilia, a partire dal suo film sciasciano Il giorno della civetta).

I peones e campesinos messi in scena da Damiani, così come il personaggio del Santo, fratello del Chuncho, interpretato dall’icastico Klaus Kinski, sono animati da quello stesso fervore catto-comunista (come già notato da molti critici) che sembrava concentrato nel don Juan di Requiescant e come lui vogliono combattere per Dio e per il popolo. E cos’altro è il sicario interpretato da Lou Castel se non un avido e cinico individualista, capitalista (gringo, americano) che combatte e uccide senza alcun ideale? Un ricco che inganna e cerca di corrompere il vero rivoluzionario amico del popolo, il folle e dinamitardo El Chuncho, magnifico personaggio affidato all’estro sanguigno di Gian Maria Volontè. Che nel finale – senza dubbio uno dei più apertamente sovversivi e filo-rivoluzionari della storia del cinema – “deve” (perché, chiede il gringo; quién sabe? Chi lo sa o chissà, risponde ridendo allucinato il rivoluzionario) ucciderlo e rispedirlo, morto, inerme, negli Stati Uniti, lasciando i danari ad altri popolani come lui, con l’invito di spenderli in dinamite.

Gian Maria Volontè in Quien Sabe?

Un augurio che, mettendo definitivamente in relazione rivoluzione e bombe, non fa che predire ciò che la storia d’Italia a venire riserverà.

Tags: