UZAK 18 | primavera 2015

Luigi Abiusi

Luigi Abiusi

altSenza retorica: ma è cominciato il primo festival di Cannes della storia senza la presenza, sia pure latente, di Manoel De Oliveira. Non dirò nulla di economia cinematografica (e letteraria, filosofica) di questa scomparsa, appunto evitando il risaputo, e perché altri ne parlano in questo numero di Uzak, come sempre fitto di cose: su alcuni dei registi che più ci piacciono (Martin, Larrain, Frammartino, Soderbergh), su altri sempre controversi (Seidl, Haneke), tutto uno speciale dedicato a un film importante, tra i più importanti dell'anno, Vizio di forma di Paul Thomas Anderson; e appunto una sezione rivolta a De Oliveira, che non può che straripare, anche rispetto al "genere", vista la forma ibrida, tra saggio e poema, usata da Bruno Roberti, già autore di un libro splendido Manoel De Oliveira. Il visibile dell'invisibile uscito appena un anno fa; e gli altri due articoli a firma di Cappabianca e Bruni, che riescono a delineare un profilo d'altronde irriducibile. Poi le interviste agli autori ospitati nella quarta edizione di "Registi fuori dagli sche(r)mi", tra maestri e talenti emergenti, poliedrici, come la Klotz, della quale attendiamo il nuovo film prodotto da Jacque Audiard.

Bruno Roberti

Bruno Roberti

Uno

La Valle delle origini o le ali che sbucano dal terreno: acque superiori e inferiori, un cinema elementale. «Ema torna all’acqua perché viene dall’acqua. La sua morte è come una rinascita. Ecco perché è così gioiosa. Con l’acqua, la vita può continuare. Mi piace il suo rapporto istintivo con la natura, il biologico, l’animalità. Lei trascende costantemente la realtà, invece gli uomini non hanno ali.» (de Oliveira a proposito di Vale Abraão)

Alessandro Cappabianca

Alessandro Cappabianca

altPiù che viaggiatore di terra (magari in treno: Singolarità di una ragazza bionda; o in auto: Viaggio all’inizio del mondo), de Oliveira, come pellegrino della memoria, sembra essere stato specialmente un regista-navigante, in armonia con il suo imprinting portoghese (enigma di Cristoforo Colombo: era davvero nato a Genova?) – quando non riteneva, ovviamente, come nel Quinto impero, di limitarsi per tutto un film ai pochi metri quadrati d’un palcoscenico, sul quale cogliere i movimenti più impercettibili degli attori e della mdp, a partire da una condizione di frontalità d’ascendenza teatrale. Allora re Sebastiao ci viene mostrato nel suo castello, prima della folle impresa africana, preda di dubbi e incertezze, avversato dalla maggior parte della Corte, beffeggiato dai giullari – e tutto questo dopo che l’impresa (la disfatta) africana era già stata mostrata in NON.

Andrea Bruni

Andrea Bruni


alt«Ci sono moltissimi uomini che sono più infelici di te: questo non ti dà un tetto sotto al quale abitare, d’accordo, ma la frase è sufficiente perché ci si possa trovare riparo durante un temporale»
(Georg Christoph Lichtenberg)

«Ad una domanda circa le sue impressioni sul cinema, Kafka rispose: “È rapido. Pa! Pa! Pa! Pa! Pa!”. Per lui non c’era tempo per pensare a quel che accadeva. Per quello sono arrivato a fare un altro tipo di cinema, un po’ più ragionato, interiore, profondo..
(Manoel de Oliveira)

 

Daniele Dottorini

Daniele Dottorini

altIl lavoro del film. La frase sembra semplice ma è in realtà ricca di sfumature che offrono straordinari spunti ad ogni operazione critica, soprattutto laddove ci si voglia liberare da una applicazione stantia e meccanica della politica degli autori. Il lavoro del film si mostra entrando nelle pieghe di un’operazione creativa che a volte si colloca a lato di un film, o che non è necessariamente legata al farsi del film stesso. È questo il senso di un’officina particolare che è o può essere un laboratorio filmico. Pensare al cinema come un’officina, un lavoro del film che è anzitutto materiale, il lavoro delle immagini.

Pietro Masciullo

Pietro Masciullo

altIl passato – le immagini trasmesse dalle generazioni che ci hanno preceduto –
che sembrava in sé conchiuso e inaccessibile,
si rimette, per noi, in movimento, ridiventa possibile.
(Giorgio Agamben)






Stefano Casi

Stefano Casi

altCi sono molte parole nel teatro di Elfriede Jelinek. Un’ipertrofia verbale che diventa ipertrofia visionaria e rispecchia l’atrofia della moderna società borghese. Un convegno a Bologna si è addentrato, per la prima volta in Italia, nel labirinto testuale della scrittrice austriaca, con studiosi, traduttori e artisti. È stato un vero happening, che ha scandito con la riflessione e il confronto il “Festival Focus Jelinek”, ideato e diretto da Elena Di Gioia, in corso in tutta l’Emilia Romagna fino al prossimo marzo.

Alberto Libera

Alberto Libera

altPer Aristotele il concetto di mimesis – inteso come impulso a riprodurre – caratterizza l’uomo. Per Ricoeur, la mimesi è contemporaneamente strumento di comprensione, configurazione e infine ri-creazione.
Una peculiare tipologia di mimesi archeologica è il substrato da cui origina Inherent Vice, tanto nelle pagine di Thomas Pynchon quanto attraverso lo scorrere dei fotogrammi dell’omonima trasposizione di Paul Thomas Anderson.

Nicola Curzio

Nicola Curzio

alt«Il passato non è mai morto. Non è nemmeno passato» (William Faulkner, Requiem per una monaca)

«Il ricordo di una certa immagine non è che la nostalgia di un certo istante» (Marcel Proust, Dalla parte di Swann)


Matteo Marelli

Matteo Marelli

alt

In un paese dove la meraviglia è vanto
Dove sognando passano i giorni ma non l'incanto
Dove sognando muoion le estati e il loro manto.

(Lewis Carroll)







Raffaele Cavalluzzi

Raffaele Cavalluzzi

altA pensarci bene, non dovrebbe essere una sorpresa quella del Grande Gatsby di Baz Luhrmann: lo sfrenato automanierismo del regista australiano, dopo l’apice straordinario raggiunto con Romeo + Giulietta di William Shakespeare, e divenuto regola con Moulin Rouge, ora torna a confermarsi con quest’ultimo film trasposto dal capolavoro di F. Scott Fitzgerald. Tuttavia le cose non filano così lisce e prevedibili, perché, a sovradimensionarsi, rispetto al plot originale, qui vi è un senso che riguarda direttamente l’identità poetica affidata al suo romanzo dal geniale scrittore americano, ma che rivela, paradossalmente, anche il profilo profondo della “maniera” luhrmanniana: la scrittura filmico(-letteraria) come “grande falso”.

Roberto Chiesi 

Roberto Chiesi 

altL'assassinio di Pasolini - una tragedia finora rimasta senza soluzione e al tempo stesso emblematica per la sua stessa oscura enigmaticità - com'è noto è stato un evento determinante nell'imprimere definitivamente i crismi del mito alla figura, alla vita e alla storia dello scrittore-regista. Oggi, a quasi quarant'anni dalla sua scomparsa, Pasolini (la sua figura e la sua opera) è al tempo stesso un mito romanzesco, ossia un personaggio da romanzo, e l'autore di un'opera immensa, che viene studiata da tutte le angolazioni perché centrale e imprescindibile nella cultura italiana dell'ultimo secolo.

Raffaele Cavalluzzi

Raffaele Cavalluzzi


altIn qualche modo, nella filmografia di Margarethe von Trotta, si alternano opere di forte intensità ideologica e opere di altrettanta densità esistenziale. In Hannah Arendt, il film dedicato alla grande filosofa tedesca allieva di Martin Heidegger, le due tendenze sembrano concentrarsi in un unico punto di focalizzazione. Ciò nondimeno è opportuna, preliminarmente all’analisi del rigore estetico assunto dalla tensione etico-intellettuale della pellicola, qualche – necessariamente succinta – considerazione sul contenuto.

Matteo Marelli


altÈ difficile cercare di raccontare il binomio RezzaMastrella (Antonio Rezza/Flavia Mastrella). La girandola di definizioni, pur ingrandendo la propria rosa, continua a mancare questo Giano Bifronte della scena spettacolare, che in ogni sua espressione porta avanti una rigorosa destrutturazione delle forme (teatrale, cinematografica, televisiva, letteraria): l’esistenza della regola per RezzaMastrella significa la possibilità di scoprire nuove prospettive da aberrare. L’approccio esegetico, tormentato dalla lentezza e dalla gravità argomentativa, poco si adatta ad inquadrare il loro rappresentare latitante e performativo, febbrile e volutamente frammentario, che «rinuncia al filo del discorso, che poi è lo stesso filo che ti strozza» (p. 78)1.



Leonardo Gregorio



altDal video di Frozen, ad attirare i poli Chris Cunningham (videomaker radicalissimo) e Madonna (corpo, icona, star), a Mirrors di Floria Sigismondi per Justin Timberlake; dal «pionieristico lavoro di Vincent Morisset su Neon Bible (2008) degli Arcade Fire, considerato il primo video musicale interattivo della Storia» (Pacilio 2014, p. 33), fino all’Hype Williams di Stupid Hoe per Nicki Minaj e al Xavier Dolan di College Boy per Indochine. Immagini, suoni, invenzioni, sperimentazioni, realismi, deformazioni.

L’AG Rojas di Hey Jane per Spiritualized e il duo DANIELS di Simple Math per Manchester Orchestra, il collettivo Megaforce di The Greeks per Is Tropical e CANADA di Ice Cream per Battles feat. Matias Aguayo; l’Harmony Korine di Living Proof per Cat Power e il Gaspar Noé di Love in Motion per SebastiAn. Dall’arte fondamentale, rivoluzionaria e irraggiungibile di Michel Gondry, «il più grande videomaker di sempre» (ivi, p. 40) a Romain Gavras, «regista di clip più importante di questi ultimi anni» (ivi, p. 132) e al suo Bad Girls per M.I.A., «miglior video a oggi del terzo millennio» (ivi, p. 182); il Jonathan Glazer di A Song for The Lovers per Richard Ashcroft e lo splendido Garth Jennings di Imitation of Life per i R.E.M. fino al successo planetario da miliardi di visualizzazioni su YouTube (videoclip diretto da Cho Soo-hyun) del brano Gangnam Style di Psy.

Luca Romano

Luca Romano

altAll’incirca nel 1839, in Francia, viene presentato per la prima volta il dagherrotipo. L’ambizione, il sogno, è di riuscire a catturare la realtà, di fermare l’attimo bellissimo. Il risultato dei primi lavori è, però, ancora scuro, la luce si ferma e si impressiona sulle lastre, ma bisogna star attenti a non inserire scritte, perché nei primi dagherrotipi l’immagine era specchiata. L’attimo fatto di luce si ferma e diventa immortale. Abbiamo ancora, ad oggi, uno dei primi dagherrotipi, forse il più famoso per via dell’autore: Edgar Allan Poe. Il futuro è la fotografia, il cinema, il movimento, fermare l’attimo, fermare gli attimi, i minuti, le ore.

Luigi Abiusi

Luigi Abiusi

alt
«[…] Vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte […]»
(J.L. Borges, L’Aleph)






Vincenzo Martino

Vincenzo Martino

«Forse noi […] siamo solo miliardi di calcoli nel rene di un corpacciuto animale, la sua colica senza fine, i quagli petrosi del suo difficoltoso smisurato emuntorio; e galleggiamo cosi nell’etere e piscio che gli si impantana per tutti i meati e lo fa gloriosamente ululare di dolore nel silenzio degli spazi eterni.» (Bufalino 2012, p. 14)

Michele Sardone

Michele Sardone

Balázs racconta il caso, accaduto nei primi anni del Novecento, di una ragazza che non era mai andata al cinema e che, all’uscita dal suo primo film, descrisse, ancora pallidissima e turbata, la sua visione così: «Orribile: ho visto uomini fatti a pezzi; la testa, i piedi, le mani, un pezzo qui un pezzo là, in luoghi diversi» (Balázs 2002, p. 25).

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