Luca Romano
All’incirca nel 1839, in Francia, viene presentato per la prima volta il dagherrotipo. L’ambizione, il sogno, è di riuscire a catturare la realtà, di fermare l’attimo bellissimo. Il risultato dei primi lavori è, però, ancora scuro, la luce si ferma e si impressiona sulle lastre, ma bisogna star attenti a non inserire scritte, perché nei primi dagherrotipi l’immagine era specchiata. L’attimo fatto di luce si ferma e diventa immortale. Abbiamo ancora, ad oggi, uno dei primi dagherrotipi, forse il più famoso per via dell’autore: Edgar Allan Poe. Il futuro è la fotografia, il cinema, il movimento, fermare l’attimo, fermare gli attimi, i minuti, le ore.
Ma le prime immagini sono ancora molto scure e l’attimo, pur fermandosi, non è ancora e mai l’attimo fermato, è sempre e ancora un altro attimo, l’attimo di chi guarda, e la foto cambia di vista in vista, di stanza in stanza, di museo in museo.
Chi è fotografato si guarda e ha paura, non si riconosce. La posa è di diversi secondi, il tempo necessario per impressionare la luce, per fermarla. È la propria immagine che spaventa, la posa rivela qualcosa di chi è fotografato. Susan Sontag scrive che «Brassaï attaccava quei fotografi che cercano di cogliere alla sprovvista i loro soggetti, nell’erronea convinzione di poter rivelare qualcosa di speciale sul loro conto […]. Non esistono momenti decisivi» (Sontag 2004, p. 33).
Ed è su questa scia che l’immagine si è ritratta e protratta principalmente attraverso la posa, spontanea o imposta, del soggetto e basta guardare negli occhi Edgar allan Poe per notare la sua assenza, esattamente come potremmo vedere noi stessi distanti da quello che siamo, nelle foto che ci facciamo. Ma il ritratto così come la foto, più si avvicina al reale più spaventa perché si avvicina all’immagine di noi che non siamo più.
Nadar scrisse che Balzac si rifiutò a lungo di farsi fotografare affermando che:
Nello stato naturale ognuno era composto di una serie di immagini spettrali a strati sovrapposti sino all’infinito, avvolte in membrane infinitesimali... Poiché l’uomo non è mai stato capace di creare, cioè di trarre qualcosa di immateriale da un’apparizione, da qualcosa d’impalpabile, o di fabbricare dal nulla un oggetto – ogni operazione dagherriana avrebbe di conseguenza agguantato, staccato e consumato una delle membrane del corpo sul quale puntava. (Sontag 2004, p. 136)
Quasi l’immagine fosse in grado di sottrarre vita alla vita. Strati d’esistenza dall’uomo.
Così dal dagherrotipo in poi, tralasciando la parte mistica, il desiderio della fotografia d’esser rappresentazione del reale è incessante quanto il suo allontanamento dal reale stesso. Nella posa, atteggiamento di finzione classico, ritroviamo la realtà della finzione, la realtà del soggetto. Il dagherrotipo diventa il precursore dell’attimo eterno, differente e omologo della realtà.
Ma se il rapporto tra il dagherrotipo e il tempo è l’atto fondante della creazione dell’immagine che nasce dalla luce e dal mondo, il suo stesso essere rappresentazione diventa progettualità del soggetto sul tempo. Edgar Allan Poe rimane immobile per lasciare la sua immagine ferma nel futuro, non certo nel passato, egli stesso immagina un mondo in cui quella immagine possa esistere. Così vediamo in Mr. Turner di Mike Leigh, lo stesso Turner rimanere immobile per aspettare che la luce catturi la sua immagine; lo stesso Turner si rende conto della portata, principalmente temporale della scoperta.
Nello stesso modo, oggi, più di 150 anni dopo, e molti sviluppi tecnologici dopo, il rapporto soggetto/tempo attraverso l’oggetto artistico si ripropone medesimo. E se per molti l’immagine riprodotta di sé incuteva timore, se ancora oggi scartiamo i selfie in cui sembriamo al di fuori dei canoni, in cui siamo meno rappresentati di come vorremmo essere rappresentati, è perché avvertiamo la temporalità dell’archiviazione (la dimensione temporale dell’oggetto) insita nella fotografia e nel filmato, ma con lo sviluppo delle tecnologie questa disponibilità all’archiviazione dell’immagine è sicuramente determinante nella creazione dell’immagine stessa. Per questo i mondi immaginati ad esempio in Black Mirror, ci sembrano così temibili e molto poco auspicabili.
Ed è proprio in alcune puntate della serie che lo storage delle immagini e dei video, diventa totalizzante. In Ricordi pericolosi (S01 e03) ogni uomo arriva ad avere una archiviazione totale di ciò che vede e sente; la possibilità di scorrere la propria vita a piacimento implica però l’assenza totale del presente, gli occhi si girano e il tempo passato sostituisce il presente in una forma di sinestesia temporale. L’archiviazione diventa però un vorticare continuo sulle stesse immagini, su quello che si è vissuto, su quello che si è stati, il ruolo dell’immagine è quello di far crollare completamente il rapporto temporale, così che i due protagonisti, marito e moglie, arrivano al divorzio e quasi alla follia.
Stesso procedimento sull’immagine e sull’archiviazione, quindi sul tempo, abbiamo in Torna da me (S02 e01), puntata nella quale uno dei due protagonisti muore e un software (poi hardware) è in grado di ricostruire, tramite la vita digitale, un’immagine, inizialmente solo sonora, ma successivamente anche fisica, della persona morta. Tuttavia la ricostruzione, quindi la creazione dell’immagine di soggetto assente, in un nuovo soggetto, è impossibile per sua stessa essenza, e il risultato è, ovviamente, differente.
Nella terza serie, formata, ad oggi, da un’unica puntata, abbiamo nuovamente lo stesso meccanismo applicato ad una terza possibilità della creazione dell’immagine: lì dove il dagherrotipo è stato un oggetto rappresentante, principio dell’archiviazione dell’immagine, qui abbiamo un uovo all’interno del quale, attraverso una piccola operazione al cervello, un uomo può avere la perfetta duplicazione di sé stesso; quest’uomo nuovo costruito via software all’interno dell’hardware porta con sé tutto il passato del proprietario, così grazie ad un sistema domotico riesce a facilitare la vita quotidiana del sé reale.
La duplicazione perfetta del soggetto crea un’immagine di sé stessi all’interno di un nulla spazio/temporale connesso al mondo reale. Per assurdo si potrebbe immaginare ancora un mondo successivo alla puntata nel quale queste riproduzioni degli uomini sopravvivano agli uomini stessi.
In tutte le puntante della serie televisiva, comunque, il tempo e l’archiviazione dell’immagine (prima come immagine mnemonica, poi come immagine fisica, sino ad esser quasi duplicazione dell’immagine e del reale) diventano aberrazioni logiche e postumane.
Ancora una volta e come spesso evidenziato, il titolo ci riporta alla nostra immagine riflessa nello schermo nero della televisione spenta (come nello stesso modo ci riporta al nostro volto su uno smartphone, su un tablet, su qualsiasi apparecchio retroilluminato).
L’idea d’eternità con la quale davanti alle prime immagini l’uomo è approdato, è radicalmente sottratta all’oggetto dalla riproducibilità tecnica e dallo storage. È avvenuto «un doppio livellamento ovvero un metodo di livellamento che inganna se stesso. Con il dagherrotipo ciascuno potrà farsi fare il ritratto, cosa che un tempo potevano soltanto gli eminenti; ma nello stesso tempo si fa di tutto per farci apparire tutti esattamente identici, e di conseguenza ci basterà avere un unico ritratto» (Sontag 2004, p. 179), diceva Kierkegaard nel 1854, molto molto lontano dall’idea di Cloud e Big Data.
Filmografia
Turner (Mr. Turner) (Mike Leigh 2014)
Serie TV
Black Mirror (Charlie Brooker 2011-in corso)
Bibliografia
Sontag S. (2004): Sulla fotografia: realtà e immagine della nostra societa, Einaudi, Torino.
Barthes R. (1980): La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino.