UZAK 33 | primavera 2019

Luigi Abiusi

Questi primi mesi del 2019, mentre si aspetta tanto Harmony Korine quanto Weerasethakul o Paul Verhoeven, sono stati il tempo del ritorno di due grandi americani, molto diversi tra loro in quanto a esperienza e a idee sul cinema.

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Roberta Novielli

Il cinema di Tsukamoto ha a lungo esplorato il corpo umano nelle sue dinamiche di incontro/scontro con la città, portando in scena la lotta tra materia organica e inorganica per definire quale confine vi fosse tra umano e inumano.

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Giulio Vicinelli

A partire da una ricognizione della nodatura fitta di coerenze interne e ritorni non casuali che lega ciascuna delle opere di Tsukamoto alle altre, ma limitando il campo d'analisi alla sola indagine tematica e valoriale, cerchiamo di capire meglio le ragioni di continuità con cui Zan (The Killing) ultima sua creatura che ha corso al Lido, si attesta come opera matura di quella "nuova onda" del suo cinema, in cui sono l'interrogazione etica di ampio respiro e l'attenzione agli universi interiori, psicologici e morali dell'uomo a muovere la ricerca della macchina da presa.

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Mariangela Sansone

«All’inizio i cambiamenti fisici erano lenti, poi hanno fatto balzi in avanti con sordi tonfi neri, ricadendo negli strati di tessuto molle, lavando via i tratti umani… Nel posto dove regna il buio assoluto la bocca e gli occhi sono un organo solo che balza in avanti per mordere con denti trasparenti.»

William S. Burroghs, Il pasto nudo

Qual è il confine ultimo del corpo? E soprattutto, esiste un confine ultimo del corpo? Tutto è limitato solo alla pelle, oltre la quale c’è tutto il resto? La mutazione, l’espansione, qualsiasi cosa per non costringere l’uomo alla condizione di mero involucro innervato e organico ma tentare, disperatamente, di uscire dalla gabbia, fino a raggiungere un oltre infinito. Il corpo è materia, viva, pulsante, e, in quanto tale, plasmabile e soggetta a trasformazione e adattamento, come in Tetsuo: The Iron Man, di Tsukamoto Shin'ya.

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Elvira Del Guercio

Con Tsukamoto sembra che tutto si stemperi in una specie di strana dimensione, senza direzione né riferimenti immediati, senza nord né sud, senza un filo che conduca da un prima a un dopo se non passando per l’intermittenza del corso del tempo.

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Giovanni Festa

La condizione del soggetto contemporaneo è quella di essere connesso ad una serie di dispositivi desideranti e manipolatori, interfacce di simulazione integrale che articolano e riformulano tutte quelle relazioni capaci di determinare il suo essere nel mondo(come scrivono Deleuze e Guattari all’inizio de L’Anti-Edipo, siamo circondati in ogni parte da macchine, e non metaforicamente: macchine di macchine con i loro accoppiamenti e connessioni).

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Eduardo A. Russo

Kafka può essere considerato come un episodio singolare, quasi un corpo estraneo all’interno della filmografia di Steven Soderbergh. Se il successo di Sex Lies & Videotape, con il formidabile debutto al Festival di Sundance e la definitiva consacrazione con la Palma d’Oro di Cannes, rivelò un nuovo auteur di cinema indipendente USA, il secondo lungometraggio del cineasta fu, per molti dei suoi fan, un’esperienza sconcertante. Un alone di incomprensione, che prese la forma di un distaccato apprezzamento dei suoi meriti parziali o, addirittura, di disdegno, circondò subito il film che, stando al botteghino e all’accoglienza della critica, si crederebbe quasi un passo falso. Se la sua opera prima venne celebrata come una pietra miliare di indipendenza cinematografica che decretò un successo cross-over, capace di avere la stessa risonanza nelle sale d’essai e nei multisala, Kafka si assestò subito come opera rarefatta, incline ad essere saltata a piè pari nelle valutazioni a posteriori della filmografia del regista.

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Daniele Dottorini

Il gioco, i giochi. Non occorre scomodare Roger Callois per riconoscere il potere del gioco come messa in forma del mondo, come possibilità di metterlo in gioco appunto, di inventarne le regole, di fronte ad un reale che per quanti sforzi si facciano si mostra sempre più evanescente, inafferrabile.

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Alessandro Cappabianca

«Solo studiando i morti, si
progredisce nella conoscenza dei vivi.»

Nella serialità, dunque, sembra concentrarsi l’ultima frontiera del racconto cinematografico – ma basta fare i nomi di Steven Soderbergh, Edgar Reitz, David Lynch, e di pochi altri, per capire che c’è dell’altro. A ognuno il suo altro.  
Tra le serie TV di successo, The Knick è la sola (che io sappia) per la quale, dopo due stagioni, alla fine si è dovuto rinunciare alla terza. Il personaggio protagonista infatti (parlo del dottor John Thackery, primario chirurgo all’ospedale Knickerbocker di New York ai primi del '900) muore nell’ultima puntata della seconda stagione, operando se stesso in anestesia locale, e sarebbe stato difficile resuscitarlo, o contentarsi di seguire i casi degli altri personaggi (medici, pazienti, infermiere, amministratori …). La serie diretta da Soderbergh insomma, benché termini con la minaccia o l’annuncio di un'epidemia, assume man mano l'andamento d'un profilo biografico (ispirato alla figura reale del dottor William Stewart Halsstead), racconta la sua storia o vi si ispira, e ogni biografia, come si sa, termina prima o poi (se sufficientemente protratta) con la morte del suo protagonista.

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Bruno Roberti

«Quando la visione tende a non distinguersi più dal visto o dal visibile, è come se l’occhio toccasse la cosa stessa.»

Jacques Derrida Toccare, Jean-Luc Nancy

Nel buio della moviola al Centro Sperimentale di Cinematografia, tanti anni fa, ricordo una montatrice mitica, Jolanda Benvenuti, le sue mani che passavano e ripassavano la pellicola erano coperte da guanti. Quelle mani avevano toccato i fotogrammi di Roma città aperta, di Paisà, di Europa 51. Quelle mani guantate paradossalmente trasmettevano un contagio, il contagio delle immagini. Contagio che fa assonanza con montaggio. Il montaggio trasmette e risale. Per contatto. E con-tagio deriva da tangere, toccare, con-tactus.

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Anton Giulio Mancino

«Mi spiegò che essere senza scarpe è una colpa molto grave. Quando c'è la guerra, a due cose bisogna pensare prima di tutto: in primo luogo alle scarpe, in secondo alla roba da mangiare: e non viceversa, come ritiene il volgo: perché chi ha le scarpe può andare in giro a trovar da mangiare, mentre non vale l'inverso. - Ma la guerra è finita, - obiettai: e la pensavo finita, come molti in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi. - Guerra è sempre, - rispose memorabilmente Mordo Nahum.»


Primo Levi, La tregua


Chiunque voglia affrontare in blocco o per singoli studi di caso l’opera di Mario Martone rischia di ripetersi. O di ripetere cose già scritte, già dette, già viste e sentite anche all’interno dei singoli film, dei singoli spettacoli. I film e gli spettacoli, o i libri di Martone, contengono al loro interno, fino a Capri-Revolution, discorsi, dibattiti, posizioni che si confrontano e si affrontano. Il problema è individuare un approccio diverso, magari con effetto genealogico.
Occorre dunque un approccio trasversale. Cercare Martone, dentro Martone, significa procedere lateralmente, individuare connessioni, all’apparenza marginali. Far emergere aspetti occasionali e contingenze che tali non sono e all’improvviso esplodono, si rivelano sostanziali.

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Marika Consoli

«[…] αὐτόματα δ᾽ αὐταῖς δεσμὰ διελύθη ποδῶν
κλῇδές τ᾽ ἀνῆκαν θύρετρ᾽ ἄνευ θνητῆς χερός […]»
(Euripide, Baccanti)
«[…] Le catene, da sole, si sono sciolte dai loro piedi
e le chiavi hanno dischiuso le porte senza una mano mortale […]».
(Trad. di L. Correale)

L’incedere del pensiero tragico, la spinta contraddittoria, multiforme, estrema verso la conoscenza in atto, che si compie a ridosso di quella montagna – stratificandosi come gli strati delle rocce calpestate, inquadrate in particolari vivissimi, dettagliati, minuti – poi sale in vetta e da lì precipita, è costitutivo di quest’ultima opera di Mario Martone, il cui sguardo si intreccia alle puntuali citazioni euripidee come a partire da lì, da quel «[…] ἴτε βάκχαι, ἴτε βάκχαι […] εἰς ὄρος εἰς ὄρος […]»(«andate Baccanti, andate Baccanti […] al monte, al monte […]», anaforicamente evidenziato anche in diversi momenti di Capri Revolution, in cui si dispiega la forza del mutamento come tragica, ineluttabile necessità: un andare che si manifesta già dal volto in primo piano della protagonista, dagli occhi sulle pietre ruvide, che è avvio alla danza conoscitiva che toglie il velo alle cose; e dal piede, che sale alle rocce, all’urlo dei gabbiani, poi al precipizio aperto dalle panoramiche mozzafiato, che spostano il movimento, mutano nella discesa dello sguardo questa tensione continua del salire, del guardare in alto ed avanti, precipitandola alla quiete del mare, ai corpi, nudi sulle pietre, pietre su pietre, confusi, fusi nella luce azzurra, estatica, dentro gli strapiombi, che non sappiamo se siano di Capri o degli occhi: vortici, neri, di Lucia.

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Martina Puliatti

Autorevole scrittore di realtà umane, nonché potente fotografo delle condizioni trasformative che coinvolgono in modo equivalente arte, natura, storia e forme di vita, Mario Martone tesse un’altra delle sue tele dipinte di luci e calore umano rivoluzionario, sospesa tra la terra e il mare. Un’ultima opera che reca già nel titolo – Capri-Revolution – il senso di una sollevazione e di un desiderio ardente di cambiamento, intrisa della fermezza di puro fatto politico amalgamato allo spessore poetico essenziale dell’immagine filmica.

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Luigi Abiusi

Articolo già pubblicato sul "Manifesto" del 16 aprile 2019.

Nell'immaginario di molti appassionati non solo di cinema, ma anche di fumetti, letteratura, musica, in quel coacervo di linguaggi comunicanti, ontologicamente comunicanti, a prescindere da ciò che sarebbe letteratura e paraletteratura, immagine cristallina e vignetta o icona a bassa risoluzione, nota minima e accordo screziato; il 2019 era, e forse resterà, l'anno di Glass (a maggio in home-video). Che poi “appassionati” è una tautologia, visto che non capisco come non si possa avere un interesse anche spasmodico verso cose che riguardano, interpretano, sublimano da sempre lo stare al mondo, l'identità del soggetto di generazione in generazione.

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Massimo Causo

L'idea di un cinema che rivela se stesso, liberando le energie dei segni, svincolando le tracce della narrazione in un persistente e dolce ribaltamento delle prospettive, è la linea che determina alla base l'opera di M. Night Shyamalan. Non è tanto questione di twist narrativi sedimentati nella formula The Sixth Sense, quanto della capacità di visualizzare un cinema che filma l'epifania di se stesso, la presa d'atto della propria reversibilità dallo stato solido alla purezza dell'immaginario.

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Domenico Saracino

Avvolto nel suo impermeabile scuro, Mr. Glass valica la strada con passo trafelato, sghembo, un braccio poggiato sul bastone, l’altro ciondolante, penzoloni. Questo corpo trascinato a forza attraversa centralmente il campo lungo dell’inquadratura, si avvicina alla macchina da presa, mostrando il volto teso, le labbra storte. All’ingresso della metropolitana la figura, stagliata contro il cielo luminoso, si arresta impaurita, mentre uno zoom out verso il basso svela impietoso la discesa oscura, di scale e corrimani tubolari, che lo attende. Vorrebbe soltanto chiedere qualcosa a qualcuno, ma quel qualcuno non è disposto ad ascoltarlo, a fermarsi. E nel tentativo disperato di raggiungerlo, Mr. Glass, l’uomo di vetro, si avventura giù per le scale, conscio, perfettamente, di ciò che rischia a causa della sua osteogenesi imperfetta.

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Raffaele Cavalluzzi

Giacomo Debenedetti è stato uno degli intellettuali più acuti del Novecento italiano, primeggiando soprattutto nell’ambito della critica e della saggistica letteraria: ha attraversato tutta la prima parte del secolo, approdando infine alla stagione degli anni ’60 con un valore di risultati che, di fronte alla scandalosa sottovalutazione dell’Accademia, ha saputo produrre una lettura tra le più puntuali e appropriate della vicenda complessa del suo tempo. Il codice interpretativo dei grandi scrittori e poeti contemporanei a lui dovuto risulta forte – con eleganza e passione che restano integralmente letterarie – degli input derivati da una cultura anche esplicitamente extraletteraria, dalla psicanalisi alla filosofia, dalla politica alla storia, dalla sociologia all’antropologia, e così via. Il bacino di formazione di questo atteggiamento cognitivo – che comunque non ruppe mai con i fondamenti dell’estetica di Croce – fu senz’altro determinato dalla spinta modernistica del pensiero gobettiano (e gramsciano) negli anni ’20, e da quella delle riviste giovanili che si seppero ispirare alle idee della “rivoluzione liberale”. La molteplicità d’interessi per il coraggioso arricchimento dell’orizzonte culturale italiano si aprì così, in quella fase, ad ambiti fino ad allora inesplorati da parte della migliore intelligenza nazionale.

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