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  • Era l'autunno del 2010 - un'ottobrata espansa, di quelle selvagge, che bruciava cumuli di foglie e ti faceva sentire sulla pelle l'ustione di fuochi fatui, il flutto sanguinoso di tutti quei tramonti - quando da un confabulare serrato nacque l'idea di Uzak, sotto l'egida della casa editrice «Caratterimobili». Il cinema era solo uno degli interessi di una redazione in embrione, già eterogenea e militante, così come la si era immaganata: vi entravano la letteratura, la filosofia, la musica, cioè la condizione pura, autentica delle cose, per quanto rivoluzionaria: la poesia, la natura cinematografica del mondo. Da qui la sezione al centro di questo numero 38.

  • L'editoriale di fine anno è facile da scrivere: a meno che non sia accaduto qualcosa di eclatante in ambito teorico - il che richiederebbe un'attenzione speciale, tutta una messa a fuoco sul visibile contemporaneo che però sarebbe evanescente se paragonato alla bieca flagranza della pubblicistica, dell'icasticità salviniane: ma soffermarmi su questo fenomeno sarebbe sadico da parte di un'indole malinconica, e soprattutto ripetitivo visto che lo ha fatto, latamente, Franco Berardi, "Bifo", con un libro molto bello, Futurabilitàedito da «Nero», come già Realismo capitalista di Fisher- si tratta di riassumere l'anno appena trascorso, attraverso immagini, pagine, suoni resistenti.

  • Questi primi mesi del 2019, mentre si aspetta tanto Harmony Korine quanto Weerasethakul o Paul Verhoeven, sono stati il tempo del ritorno di due grandi americani, molto diversi tra loro in quanto a esperienza e a idee sul cinema.

  • A dimostrazione che tutto è cinema, anche se quello che vorrei dire è che è Poesia (l'ho già detto altre volte, sulla strada che da Schelling porta a Nietzsche e ad Heidegger ecc.), un ambito più generale, una risacca di cose, ricordi, assenze, che si coinvolge, si sconvolge su di sè lasciando brandelli sanguinanti sul selciato e ricomponendosi come se nulla fosse, e in effetti è; tanto più generale da abbracciare un qualche universo sconnesso, basculante, con le sue dimensioni, punti di vista, in cui le cose hanno senso nel senso dello sguardo profondante, dilatante - se si fissa lo sguardo, solo se si fissa lungamente lo sguardo sulla materia, quella prende a vibrare, brulicare in sibilo, in visibilio, ché non è che la realtà sia, esista senza che la si debba immaginare: ecco tutto, ecco, tutto è questione di immaginazione, se no niente esiste - nel senso dei sensi che ne captano e ne traducono il dolore e l'estasi soffocanti.

  • Un breve, frammentario resoconto della Mostra di Venezia appena terminata, e del Festival di Locarno, almeno in relazione ad alcuni "piccoli" film italiani, piccoli nel senso dell'impalcatura produttiva, ma grandi a proposito del senso che apportano, dei discorsi, della forma come fuga dai discorsi.

  • Da un po' di tempo imbastiamo delle sezioni speciali su Uzak: è per lo più Giovanni Festa - professore in Argentina; tra un po' sarà in Brasile a scrivere un libro su Julio Bressane - a curarle, virando la rivista di esotismi, erudizioni borgesiane, rudi onirismi provenienti dal Sudamerica; o, da qui, Domenico Saracino, ma proiettandosi, proiettandoci su una Cancroregina, nel cosmo come quando, sul numero 41, ideò un dossier sul cinema-kraut, un ritmo segreto che scandisce le immagini oltre che i suoni.

  • Accordo atomico

    Nell'autunno del 2010 – l'aria già satura di un presagio serale, sciamare di bambini e adolescenti a maneggiare i libri usati sulle bancarelle, e il richiamo misterioso dei televisori accesi sull'Almanacco del giorno dopo, sulla sigla di Antonio Riccardo Luciani che infondeva, di flauto, il moto cadenzato, rotante, al prisma di icone tratto dal Mitelli; o sul Pinocchio di Comencini, animato, come se il legno si facesse carne per via delle musiche di Carpi, quando si erano già spenti gli echi dei "Cavalieri del re" – mi convinsi anch'io della possibilità di una rivista, un'altra, partendo dal cinema, ma, come ho continuato a ripetere in questi anni a mo' di giaculatoria, di mantra di tutta una potenzialità esistenziale, guardando necessariamente alla sua oltranza in quanto pratica del mondo dotato di senso, di segni: oltre il cinema, dentro il pragma del mondo vibrante di senso.

  • Nonostante i vaticini più catastrofici basati sull'idea che non si sarebbe tornati mai più alla normalità, che il virus avrebbe modificato radicalmente la nostra pratica di vita, il nostro quotidiano anche più banale, mi sembra che questa normalità alla fine, e nonostante il delirante, pecoreccio ostruzionismo dei cosiddetti no-vax, stia tornando. E forse l'indice più chiaro di ciò è rappresentato dal ritorno nei teatri, nei cinema, potendo contare sullo loro capienza massima e non su quella tragicamente dimidiata che ha reso la vita difficile agli accreditati della Mostra di Venezia conclusasi lo scorso 11 settembre.

  • Quando arriva il momento del numero autunnale - dopo le scorribande estive nei festival: bellissimo Locarno, tra l'altro senza l'assillo delle prenotazioni; affannosa Venezia da cui sono tornato spossato mentalmente e frustrato a furia di prenotare per proiezioni che spesso risultavano disertate (sic.): urge di ripensare a questo meccanismo (magari tornando al passato); ne va della sopravvivenza della Mostra - mi prende la solita malinconia, nel presagio delle immancabili retoriche foglie a crepitare e a ingiallire il tardo pomeriggio tra i tetti, e delle castagne la domenica a pranzo dai parenti. Ecco, dopo le scorribande, al primo soffio di vento, un istinto al ripiegamento, alla dimensione domestica: come la volontà di un appassimento mentre la congerie di cose continua «a essere la stessa, stupefacente e tetra» (Huysmans).

  • Non si tratta di ubbidire al governo, tronfia sillabazione e nemesi degli aggregamenti komitivali, aperitivali, lo sballo per lo sballo stupido quand'è sera, i balli triviali nella fiera delle vanità sgranata nelle ciarle del locale, nel bistrot che vive nell'automatico tinnire dei calici, nell'allentamento delle mascelle oramai lascive, l'allettamento del gioco delle parti, delle maschere, bistrate, occhiute, catastrofiche; ma di acconsentire alla scienza, il sinodo di sapienti, cerusici che sobilla Conte; a quella ricerca (delle ragioni d'essere, che siano biologiche o filosofiche) che s'è eletta contro i fascismi, maschilismi, razzismi, insomma in nome di un cosiddetto bene comune.

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