Un breve, frammentario resoconto della Mostra di Venezia appena terminata, e del Festival di Locarno, almeno in relazione ad alcuni "piccoli" film italiani, piccoli nel senso dell'impalcatura produttiva, ma grandi a proposito del senso che apportano, dei discorsi, della forma come fuga dai discorsi.

Qui, nei festival, si soppesa ancora lo stato delle cose, l'attualità del linguaggio, in ambito audiovisivo, l'attualità dello sguardo sulle cose, dell'interazione con le cose. Frammentario perchè molti film mi sono sfuggiti nella misura in cui, presi, persi nell'amnio dei festival, ci si sfugge, si sta come in trance, come in transito (pronti magari a ripartire), in balia delle visioni.

A Locarno soprattutto Luce di Silvia Luzi e Luca Bellino, che sembra dialogare, su un versante drammatico, con Taxi monamour di Ciro De Caro, visto a Venezia: una precisa poetica dell'approssimazione, casualità dello sguardo, oscillazione tra finzione e documentario, dimostrazione che c'è in Italia un cinema che si pone il problema della forma.

Poi l'altro film italiano in concorso, Sulla terra leggeri (titolo magnifico) di Sara Fgaier, che viene da Marcello, da Rohrwacher, da Malick. Tentativo ambizioso di cinema lirico, a tratti suggestivo, a tratti soffocato da un che di calligrafico e di troppo domestico: a una prima visione le immagini mancano di quell'abisso su cui si affacciavano le immagini malickiane, sequenze talmente libere da essere libere di perdersi nel nulla, nell'ignoto spazio profondo. Ecco, mi pare manchi questo senso di perdita del segno nel film, pure interessante di Fgaier: ma ho bisogno di rivederlo, d'altronde il cinema è sempre questione non di visione ma di revisione.

Di quell'ossessione di stare o tornare sempre sullo stesso onnicomprensivo film: un film-mondo, un film-universo che parli di tutto dando anche un senso al Niente, finalmente.

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