È passato un anno da quando Uzak, in un ruminato pomeriggio di fine dicembre, mentre guardavo fuori dalla finestra la nenia delle finestre tristemente addobbate, s'accese sfoggiando un viso lubrico che mostrava nel suo specchio, visioni diverse, screzi, sogni, nottetempo. Nel frattempo sono usciti 4 numeri, uno ogni stagione, e decine di recensioni settimanali, secondo la natura ibrida (o ambivalente) che avevamo scelto di darle. Per marcare questo segmento di esisteza (o di resistenza), il nostro grafico Nino Perrone ha deciso di cambiare un poco la grafica, qualche tinta, la font dello schermo-testata, entro cui continua a riprodursi senza sosta, e con ancora maggiore suggestione, l'illusione della proiezione.
Una parte non trascurabile dell'opera di Claude Chabrol è ancora poco conosciuta (o addirittura inedita) al di fuori della Francia: si tratta dei film che ha diretto per la televisione, ventiquattro titoli realizzati tra il 1974 e il 2010, l'anno della sua morte.
Nella sua produzione destinata alla TV, Chabrol si è misurato direttamente con i generi popolari, come il feuilleton (Fantômas, ma anche, in un certo senso, il personaggio dell'ispettore Lavardin, a cui aveva in precedenza dedicato due lungometraggi per il cinema) e gli adattamenti dei classici (Goethe, Poe, Henry James). Lavorando per la televisione, Chabrol ha sperimentato condizioni di maggiore leggerezza e rapidità realizzativa (i tempi più veloci delle riprese) e le costrizioni dettate dalla formula di trasmissioni cui i telefilm erano destinati. Costrizioni e rapidità che egli adotta come un disegnatore che cambia matita e sperimenta un tratto più essenziale e veloce, cogliendo in pochi tratti il clima, il respiro di un racconto, il carattere di personaggi che hanno poco tempo per vivere la propria storia.
Sono diverse le connotazioni della categoria “politico” nell’ultimo film di Peter Watkins La Commune (Paris 1871), realizzato nel 1999. D’altra parte, per Watkins stesso la politicità del cinema è definibile come tale in base non solo e non tanto all’oggetto rappresentato, ma anche e soprattutto alle modalità creativo-produttive dell’opera e alla riflessione teorica di critica totale al sistema dei media che l’opera stessa porta con sé.
«Qualcosa di marcio mi ha spinto…
Pensavo di distruggere tutto…
Non l’amore che provavo per te».
Una scala di metallo che porta ad un ballatoio chiuso a vetri. Sul palcoscenico: quattro sedie disposte in ordine sparso, una panca di legno, un armadietto, un bidone della spazzatura, un baule su cui sono appoggiate cartacce, avanzi di cibo, lattine e bicchieri di plastica. In un capannone industriale della periferia inglese «uguale a tutti gli altri» irrompe, all’improvviso, una giovane donna di 27 anni (di nome Una): chiede di voler parlare con Peter Rothschild, un ordinario impiegato sulla sessantina (o semplicemente il custode?), che dice di conoscere.
Shinoda Masahiro è stato uno dei più importanti esponenti della nouvelle vague giapponese, la cosiddetta nuberu bagu, nata a fine anni Cinquanta in seno alla casa di produzione Shochiku, a opera di un gruppo di cineasti che aveva fatto parte del «gruppo dei sette» (Shichinin no kai), che si proponeva di rinnovare il cinema nipponico.
Per tentare un contributo di analisi del Faust di A. Sokurov è utile forse cominciare dalla fine: dall'indicazione dei titoli di coda secondo cui l'ultimo film del regista russo è l'atto conclusivo di una tetralogia che lo colloca, quasi come conseguenza, dopo Totem, Il toro e Il sole, tre film su tre figure emblematiche (Hitler, Lenin, l'imperatore giapponese Hirohito) di suprema autorità umana nel corso del XX secolo (ancorché – in queste pellicole – osservata dalla discreta marginalità di situazioni della loro vita, in cui vi è tutt'altro che l'esercizio del potere). E' stato osservato che Faust, però, non sembra avere molto a che fare con le opere del ciclo. Non sembra. E tuttavia la sua sostanza ha a che fare, programmaticamente, con il tema della ricerca del potere, giacché Faust è il fondante mito moderno di essa.
Una questione privata
Questo studio è la conseguenza d’un appuntamento mancato. Quello tra UZAK e Aleksander Sokurov.
Una volta saputo della partecipazione del regista russo alla 68° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia con il Faust, e scoperto l’acquisto dei diritti di distribuzione in Italia da parte dell’Archibald Film, contattammo immediatamente la responsabile dell’ufficio stampa, Paola Papi, per cercare di fissare un incontro durante le giornate lidensi.
Non avemmo risposta.
Non è facile focalizzare lo showdown tra Freud e Jung e la contrapposizione delle loro rispettive metodologie scientifiche in una struttura drammatica che sia capace di tradurre anche le tensioni biografiche in un coinvolgente racconto filmico. Lo ha fatto invece, con un risultato eccellente, David Cronenberg in A Dangerous Method (i due protagonisti sono interpretati da Viggo Mortensen e Michael Fassbender) a partire dalla vicenda a suo modo cruciale di Sabina Spielrein (Kiera Knightley), prima paziente affetta da psicopatologia isterica di Jung, e poi, una volta guarita, giovane studiosa che si avvicinò a Freud – ateo e anch'esso, come lei, ebreo – con l'originalità di una ricerca sulla pulsione di morte che si accompagna all'istinto sessuale, mentre, a sua volta, anche Jung, di fede cristiana, l'aveva curata con un rigoroso metodo freudiano, ricavandone però conseguenze che lo avrebbero indotto a divergere pressoché radicalmente dal suo maestro, fino al misticismo e al sincretismo religioso.
Il microcosmo sociale che il cinema di Kaurismaki riesce a fecondare e a mettere in forma sembra spontaneamente plasmarsi sulla struttura dinamica di un quadro puntinista, dove accennati tratti di pennello accostati gli uni agli altri scoprono il loro specifico volume proprio nell’orchestrazione sinergica dell’insieme che li assorbe.
Questo principio sineddotico che anima più che mai la materia narrativa di Miracolo a Le Havre permette un’esposizione dei personaggi svincolata dai consolidati psicologismi inevitabilmente inscritti in una ferrea concatenazione di eventi fin troppo concentrata a (di)mostrare la propria coerenza finzionale all’interno della macchina diegetica.
"Having for his ordinary companion fear and sadness" (R. Burton).
Un pianeta sta avvicinandosi pericolosamente alla terra e rischia, impattando, di distruggerla: il suo nome è Melancholia (che dà il titolo al film più recente di Lars Von Trier). La parola “melancholia” deriva dal greco melankalia, composta significativamente da mélas «nero» e khalè «bile», e viene più spesso usata per indicare uno stato d'animo di vaga tristezza, insoddisfazione di sé e del mondo, propensione al pessimismo.
Si è conclusa nei primi giorni di un novembre inaspettatamente caldo (benché reduce da uno dei nubifragi più forti che Roma ricordi da anni) la sesta edizione del Festival del film di Roma. A dispetto di infausti pronostici che ogni anno gravano sulla discussa kermesse romana, la mostra diretta da Piera Detassis torna a risplendere, riportandoci ai fasti di certe edizioni passate.
Nonostante la grande disomogeneità e la sovrabbondanza della selezione, nonostante i molteplici aspetti politici che caratterizzano il festival, alcuni dei film presentati si stagliano, in un panorama internazionale, come prodotti di gran livello.
Indifferenti significanti
Dopo avere ospitato, tra gli altri, Zbig Rybczynski, in una delle edizioni scorse, e aver ri-scoperto figure topiche del sottobosco del cinema sperimentale soprattutto italiano, l'“Avvistamenti” di quest'anno s'è concentrato (quasi) tutto sull'opera di Carlo Michele Schirinzi, uno degli eponimi di un fare cinema ultraindipendente (nel chiuso masturbatorio della propria camera), quindi oltre l'oleografia (in questo caso salentina) che potrebbe derivare dalla promozione delle istituzioni, sempre pronte a sciorinare la bellezza delle vedute, la genuinità dei prodotti tipici, e, in seconda battuta, la portata di presunte opere d'arte, invece plasticoso frutto del più corrivo Mercato (interno).
Intro
A prescindere dalla pressante questione tematica (l'omossessualità in tutti i suoi gradi e gradimenti) che spesso inficia l'effetto, il portato estetico, di simili manifestazioni – concentrate, anche comprensibilmente, sull'assunto e un po' meno sulla materia-cinema –, alla fine, si può dire che al Bari Queer Festival si è visto del buon cinema. Come se l'alterità – che comunque è tale solo in confronto alla supposta, sociologica normalità dell'eterosessualità – fertilizzi il terreno cinematografico, facendo rigoglire immagini inedite, accostamenti narrativi e, nel migliore dei casi, formali; insomma, imbastendo una qualche teoria di questo cinema, deterritorializzazioni fiammeggianti e fondanti, ipoteticamente, una sempre nuova immanenza.