le_havreIl microcosmo sociale che il cinema di Kaurismaki riesce a fecondare e a mettere in forma sembra spontaneamente plasmarsi sulla struttura dinamica di un quadro puntinista, dove accennati tratti di pennello accostati gli uni agli altri scoprono il loro specifico volume proprio nell’orchestrazione sinergica dell’insieme che li assorbe.
Questo principio sineddotico che anima più che mai la materia narrativa di Miracolo a Le Havre permette un’esposizione dei personaggi svincolata dai consolidati psicologismi inevitabilmente inscritti in una ferrea concatenazione di eventi fin troppo concentrata a (di)mostrare la propria coerenza finzionale all’interno della macchina diegetica.


La trama viene asciugata e alleggerita da un’approfondita logico-consequenzialità dei fatti, proprio perché le forze chiamate ad agirvi non ne hanno bisogno: la formazione di senso si sposta da un classico rapporto di sintesi tra le parti per andare a instillarsi negli spazi liberi che il loro legame allentato produce.
È in questi spazi che l’unicità dei personaggi coinvolti nella storia ha l’occasione di spogliarsi dell’apparente ingenuità che sembra favolisticamente proteggerli dall’urto della vita.

Gli emarginati di Kaurismaki sono destinati ad essere stravagantemente dei “vincenti” perché non agiscono mai da vittime. Stanno dentro il mondo, accettano con inconsapevole disinvoltura la disgraziata parte che è stata data loro dal sistema e sono i primi a rispettarne le regole senza meravigliarsene (esemplare è la presentazione del protagonista lustrascarpe Marcel Marx, che riprende come da routine il giro della città raccogliendo, senza scomporsi, gli attrezzi presi ignorantemente a calci dal brusco proprietario del negozio di calzature, fino ad assistere all’omicidio del losco passante a cui ha appena finito di lucidare le scarpe, sincerandosi di aver fatto in tempo a riceverne la ricompensa). Sono creature fertili, rigogliose di opportunità, perché si lasciano contaminare dalla realtà in cui sono immersi; restano esposti facendosi attraversare dal caos, piuttosto che opporvi resistenza finendo schiacciati dalla sua incontrollabile pressione.

Nell’estetica di Kaurismaki si scopre rinnovata quella permeabilità rispetto all’ambiente che Jean Renoir professava con passione nella sua pratica autoriale. È palpabile la presenza di Renoir nell’ultimo film del regista finlandese, ancor più di quella dell’omaggiato Carné a cui la scelta di Le Havre rimanda.

Il loro sguardo è accomunato dallo stesso istinto di amore, di fiducia nell’inafferrabilità del reale, carpito in tutta la sua vivida e magmatica problematicità dalla cinepresa, grazie alla peculiare fisiologia che la contraddistingue dagli altri linguaggi espressivi.

In Marcel Marx rivive lo spirito bohémien di Boudu (in Boudu, salvato dalle acque), l’intima appartenenza allo scorrere delle acque, alla pantareica simbologia che richiama (non è un caso che il lustrascarpe consumi i suoi pasti – si nutra – sul molo e lì faccia la conoscenza del giovane clandestino , emerso dall’argine come da un grembo). 
E proprio come in Renoir, la concezione corale del cinema e dell’esistenza stessa eleva a vero indiscusso protagonista, scolpito e cesellato in un continuo presente – in un grande happening – il Quartiere, invitando a un’individualità che non può prescindere dal sentire l’Altro come parte di sé, della propria coscienza umana.

Ma se Renoir formalizzava questo senso di appartenenza al Tutto con la predilezione per la fluidità di carrelli e campi lunghi esaltanti in un rapporto fenomenologico con le cose, ciò che contraddistingue lo stile di Kaurismaki è l’uso (decisamente più scandinavo) che fa dei primi piani.
L’immagine del volto esposto sullo schermo nella sua oscena nudità esercita un’operazione di astrazione spazio-temporale che lo ascrive automaticamente in un diverso sistema di significazione. È la porta d’accesso per un’altra dimensione in cui la Qualità allo stato puro è resa manifesta. Un’estremizzazione dei significanti al punto da dissolversi in una cortocircuita condensazione di significato. I contorni, i tratti distinti di un viso in primo piano si annullano a favore dei micro-movimenti appena percepiti sulla “mappa epidermica”. In questo scambievole e incessante rapporto tra sfondo e micro-movimenti si aprono squarci di un senso altrimenti inintelligibile: è la materia umana che pulsa, finalmente liberata in superficie.

Davanti ai primi piani di Kaurismaki ci troviamo a guardare negli occhi ciò che il suo cinema vuole salvare e che chiede in primis allo spettatore di essere salvato, perpetrando felicemente la recente posizione antitestualista per cui un film non è altro che un dispositivo vòlto ad attivare un determinato dinamismo nella mente dello spettatore al fine di trasformarsi in esperienza.
Se il ragazzino del Gabon non fosse riuscito a imbarcarsi per raggiungere la madre a Londra, la sostanza del film non ne avrebbe risentito. Così come risulta essenzialmente ininfluente il fatto che la premurosa moglie di Marcel, lontano dal poetico sguardo interiore dell’uomo che la materializza alla finestra con indosso il vestito giallo ancora avvolto nel pacchetto chiuso stretto tra le mani, sia davvero morta di cancro.

Non è la salvezza contingente dell’uomo che si esprime con urgenza in Miracolo a Le Havre (che in assoluta coerenza nel titolo originale non ha appunto bisogno di questo “miracolo”, aggiunto invece nella traduzione italiana), quanto piuttosto la preservazione della sua Umanità. Salvata questa, non può che esserci un lieto fine.