«A proposito del sonno, avventura sinistra di tutte le sere, si può dire che gli uomini si addormentano quotidianamente con un'audacia che sarebbe inintelligibile se non sapessimo che è il risultato dell'ignoranza del pericolo». (C. Baudelaire)
«L’uomo non ha ancora ricevuto il privilegio dell’eclissi,
questo potere che possiede la notte
di illuminarsi di un giorno elettrico».
(A. Breton sul n. 7 della rivista «Minotaure»)
Cominciamo dal basso. Un flaneur di tipo particolare, Tom Shaw, poliziotto della sezione omicidi di New York ripete, ogni notte, la stessa azione: verso l’una, dopo aver terminato il servizio, compie una lenta passeggiata lungo il fiume.
«Pure, io mi rivolgo altrove: / verso la santa inesprimibile / misteriosa Notte.»
Perché Novalis preferiva la Notte, rispetto al luminoso Giorno? Perché la Notte schiude in noi infiniti occhi interiori, attraverso i quali possiamo metterci in sintonia con coloro che credevamo di aver perduto. Il contatto con i Morti non lo spaventava – anzi, la Notte ce li restituisce vivi, ci svela l’inganno della perdita, che è solo un’illusione, un brutto sogno dal quale ci si risveglia. Così il poeta poteva elaborare il lutto per Sophie, la fidanzata morta, e dialogare con lei come se fosse viva, o più che viva: addirittura trasfigurata. Allo stesso modo in cui Dante, uscito dalla selva oscura e risalito dagli inferi, dialogava con Beatrice.
(Traduzione a cura di Giovanni Festa)
Da un capo all'altro del suo itinerario, il cinema di Pedro Costa è attraversato dalla notte; ma vale anche il contrario: la notte attraversa il suo cinema. Questa condizione umbratile penetra a tal punto nel nucleo centrale della messa in scena che alcuni dei suoi primi film, sebbene non si svolgano interamente dentro tempi e spazi notturni, tendono a essere ricordati dallo spettatore come invasi interamente dalle ombre della notte. Sorprendentemente, quando si rivedono O Sangue (1989), Casa de Lava (1994) o anche Ossos (1997), si nota invece che non poche sequenze trascorrono all'aperto e in pieno giorno.
Questo fermo immagine ritrae la scena di un sacrificio. Un capretto vivo viene sgozzato sulla testa del personaggio principale del film, Andy Okeke, per esorcizzare gli spiriti che lo posseggono. E’ tratta dal grande classico della tradizione nollywoodiana Living in Bondage (Chris Obi Rapu, 1992), film che secondo la maggior parte della critica locale e internazionale ha inaugurato la nascita dell’industria video nigeriana, oggi conosciuta come Nollywood. La bassa risoluzione del fermo immagine, estratto da una vecchia videocassetta ancora miracolosamente intatta, porta le tracce materiali di un film prodotto in un’epoca in cui la Nigeria attraversava una delle sue epoche di crisi più profonda, il passaggio di consegne fra due delle dittature militari più feroci della sua storia (dal regime di Ibrahim Babangida a quello di Sani Abacha).
«Sui suoi divini ginocchi, sulla sua forma pallida come un sogno uscito dagli innumerevoli sogni dell’ombra, tra le innumerevoli luci fallaci, l’antica amica, l’eterna Chimera teneva fra le mani rosse il mio antico cuore».
(Dino Campana, La notte)
«[…] Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina della melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno […]».
(D. Campana, La Chimera)
C’è una notte che sale dalle profondità della parola, primitiva, barbarica, orfica dei Canti di Dino Campana, che trae origine dall’indistinto della memoria, ripetutamente spezzata, frammentata e (de)costruita su quello che sembra, che è lo sfondo dei paesaggi di Leonardo da Vinci, come appare osservando La Vergine delle rocce, Sant’ Anna la Madonna e il Bambino e La Gioconda. Quel carattere di infinitezza del quadro, che tende a non definire i confini ma anzi ad annullarli, risponde alla necessità di rendere uno sfumato che integri le figure in quegli elementi primi, l’acqua, le rocce, la terra e il cielo che saranno così amati dal poeta di Marradi: le posture di tre quarti, ricorrenti nelle opere di quest’ultimo come, del resto, nei dipinti dell’artista, permettono di imprimere allo sguardo una direzione immaginata, sognata, alle origini di «[…] un evento misterioso e remoto nel tempo come nello spazio.» (P.De Vecchi - E. Cerchiari, Arte nel Tempo. Dal Gotico internazionale alla Maniera Moderna)
Doppia (tripla, quadrupla) personalità.
Ogni attore che interpreti diversi ruoli (almeno due, ma possono essere anche di più) nello stesso film, in fondo non fa che allevare Caino, dar vita a questo doppio mostruoso dell’originariamente innocuo Carter e ai suo altri multipli, più o meno inquietanti (il dottor Nix, Margo).
Rod Serling, indimenticabile scrittore e sceneggiatore americano, autore e voce narrante di una delle serie televisive antologiche più amate e significative di sempre (The Twilight Zone), è stato per molti versi un esempio mirabile di abilità nel decostruire temi sociali (la paranoia nucleare, il razzismo, l’ipocrisia religiosa e politica, la solitudine, il conformismo e molto altro) attraverso le lenti della fantascienza e dell’horror. Una voce talmente popolare da risultare inconfondibile per il pubblico degli anni Sessanta prima (il periodo di messa in onda è 1959-1964) e Settanta poi.
Quello uscito nelle sale non è il film che Brian De Palma aveva immaginato: come ammesso dallo stesso regista, non ne ha scritto la sceneggiatura e non ha avuto controllo né sul montaggio, né sul metraggio finale. Il film, ostaggio della produzione danese, ha subito tagli per oltre mezz’ora sulle due ore che, in origine, erano state previste (nello stesso tempo, è bene dirlo, De Palma sceglie il direttore della fotografia del precedente Passion, Josè Luis Alcaine – lo stesso di Sur di Erice, ma anche di Pedro Costa, Almodovar, Aranda e chiama Pino Donaggio per le musiche, sodale in tutti i suoi thriller).
Ci sono tele davanti alle quali si resta ipnotizzati, che impediscono di distogliere lo sguardo e che fanno scivolare in una vertigine mistica, tra le pennellate impastate di colore ematico, i confini del reale slittano in un immaginario di incubi e sogni confusi, in un deragliamento mesmerico dei sensi.
Resta, dopo che i titoli di coda hanno danzato obliqui come le onde, apparsi nel cobalto che si dilegua frastagliato sullo sfondo, la memoria di alcuni versi di Baudelaire: «[…] Moi, je buvais, crispé comme un extravagant, / dans son oeil, ciel livide où germe l’ouragan, / la douceur qui fascine et le plaisir qui tue. / Un èclair…puis la nuit! […]», è lo shock, la sopravvivenza di quello sguardo che ha affascinato e ucciso, un’esperienza artistica che ha molto dello sconvolgimento erotico, soprattutto se volutamente, come credo, la sintagmatica di Drift si fosse sottratta all’ultimo, estremo gesto degli abissi.
Alle rive dello Scamandro
Durante il tragitto che li avrebbe condotti lontano dall'Ade, Orfeo si sarebbe voltato soltanto sulla soglia del mondo dei vivi, secondo il mito, convinto che anche Euridice fosse ormai del tutto fuori. Si sarebbe potuto fermare lì per un momento, ancora in piedi, timoroso, le viscere che gli si contorcevano per l'impazienza, la felicità per le prove d'amore superate, con lo sguardo e il pensiero rivolti al futuro così tanto atteso; avrebbe potuto attendere un cenno di lei, un tocco anche debole che l'avrebbe fatto rinsavire, dimostrandogli la realtà della presenza, o meglio, dell'esistenza di Euridice. E non soltanto l'illusione. Ma Orfeo ha "egoisticamenente" scelto per sé e per l'altro, assorbendone il destino e, come afferma Marianne in Ritratto della giovane in fiamme, volendo conservare il ricordo di un amore che non avrebbe mai più subito i rivolgimenti del tempo.
Napoli, la città del sole, non è mai stata così plumbea e piovosa, l’atmosfera sembra proprio quella dei noir hongkonghesi e il cielo è intriso dell’odore della polvere da sparo e del sangue. Sangue chiama sangue, dice Peppino Lo Cicero, in pensione dal crimine da qualche tempo, ma un delitto come quello subito dall’ex-criminale non può restare impunito. La pioggia scende sulla città regalandole le ombre di una tela impressionista, un paesaggio dai contorni nebulosi e indefiniti. Il tono seventies lo si avverte sin dai titoli di apertura, colori sgargianti, tra tutti un giallo saturo su cui spiccano figure nere stilizzate.
La prima immagine di Petrunya (l’attrice i-comica Zorica Nusheva in una sommessa ma solida interpretazione) è in una desolata piscina stagnante e abbandonata. È una persona sola al centro di uno spazio de-finito, arido, senza (un) Dio. Subito dopo si impone (con “note” dissacranti) l’enunciativo, messianico titolo: Dio è donna e si chiama Petrunya.
Il desiderio di «fare Uno con l’Altro» e di possederlo si configura come una forza pervasiva della vita umana, attraversandola come un primitivo alfabeto costruito su un duplice impulso: di unione e disgregazione. Nel momento stesso in cui si entra in relazione con qualcosa di estraneo da sé, aprendosi a uno specifico oggetto del desiderio, la forza apodittica iniziale si perde come si perde, nella conoscenza dell’altro, o meglio fondendosi nell’altro, anche la propria identità e Mademoiselle di Park Chan-wook parte proprio da questo punto.
Il gelido velo dell'oscurità
Ciò che si evidenzia sicuramente dalla matassa di Interviste sul cinema e sulla vita di Michael Haneke, curate da Michel Cieutat e Philippe Rouyer e ora pubblicate in Italia con il titolo in parte mutuato da un suo film Niente da nascondere, è la netta ispirazione nichilista del noto regista austriaco. Sebbene, non si tratti di un nichilismo ad ogni costo: rifiuta, infatti, di rappresentare la violenza, e gli spettatori sono portati ad aver paura di confrontarsi con la rappresentazione diretta delle atrocità commesse, per esempio, dagli aguzzini di Funny Games (l’originale, e il gemello poi girato in USA), senza, alla fine della catarsi spalmata su tutto il film, vedere nulla (è appena la percezione, e Haneke fra l’altro dichiara: “nemmeno per un secondo penso che tutte le persone siano come questi due ragazzi di Funny Games” – p. 194).