Il gelido velo dell'oscurità

Ciò che si evidenzia sicuramente dalla matassa di Interviste sul cinema e sulla vita di Michael Haneke, curate da Michel Cieutat e Philippe Rouyer e ora pubblicate in Italia con il titolo in parte mutuato da un suo film Niente da nascondere, è la netta ispirazione nichilista del noto regista austriaco. Sebbene, non si tratti di un nichilismo ad ogni costo: rifiuta, infatti, di rappresentare la violenza, e gli spettatori sono portati ad aver paura di confrontarsi con la rappresentazione diretta delle atrocità commesse, per esempio, dagli aguzzini di Funny Games (l’originale, e il gemello poi girato in USA), senza, alla fine della catarsi spalmata su tutto il film, vedere nulla (è appena la percezione, e Haneke fra l’altro dichiara: “nemmeno per un secondo penso che tutte le persone siano come questi due ragazzi di Funny Games” – p. 194).

Questo di Michael Haneke è perciò un nichilismo che possiamo chiamare postmoderno rispetto alla piena modernità, ad esempio, del nichilismo di Hitchcock (il regista, tra gli altri, di Nodo alla gola e Psyco, non a caso il più citato nelle interviste): infatti non c’è l’ironia in fondo razionalistica del maestro del brivido a dare senso paradossale al nulla. Qui invece il nulla, il caos che dilaga ordinatamente, resta – nonostante il titolo del libro –, nel suo senso, un segreto, qualcosa di costantemente nascosto. Anzi, lo stesso Haneke mostra di non sapere ciò che nasconde, e invece l’arte della ricomposizione di ciò che va infrangendo della glaciale quotidianità del reale che ci sta intorno è la cifra formale dell’incubo che intanto ci divora (salvo poi coincidere con l’ambigua falsificazione ad opera dello specifico del cinema: ne sono prova, la sbobinatura di quanto girato nel finale di Funny Games, l’inatteso sequel di Happy End dopo Amour, la conclusione dei due bambini che, all’uscita di scuola, si parlano enigmaticamente in coda a Niente da nascondere). Insomma, in qualche modo l’obiettivo del regista è, in realtà, con sottile costanza, di far star male.

Ma, allora, da dove arriva il nichilismo di Haneke? Esso è postmoderno perché derivato, giustificato e prodotto dal consumo senza limite delle forme date come standard sofisticate: quelle più consumate dalla incomprensibile quotidianità (caso eccezionale è il bianco e nero del Nastro bianco che inquadra, come spaventoso, silente precursore, il funesto, arcaico colore morale del nazismo). Del resto, sono importanti le più volte citate, nel libro, aporie della religione (in parte coltivata si suppone abbastanza intensamente negli anni più verdi, con ribadito affaccio, ancora ora però, sulla metafisica cristiano-pascaliana), e, in parallelo, l’insoddisfazione per l’esistenzialismo, ma anche per la scienza.

Al raggiungimento dello scopo espressivo del negativo, poi, collaborano attivamente, per Haneke, l’assai puntuale, conclamata attenzione al montaggio; le musiche mai originali, ma perfettamente denotative come nei poetici asincronismi pasoliniani, e più che struggenti (Bach, Mozart e, sopra tutti, Schubert); la gestione assai avveduta degli attori, come l’emblematica I. Huppert (La pianista – Il tempo dei lupi – Amour – Happy End) col suo sguardo di dura e inquietante sensualità (ma anche, sempre professionalmente al massimo del richiesto fine ispirativo: J. Binoche, D. Auteuil, J.-L. Trintignant, E. Riva); la ricostruzione delle atmosfere secondo un’affascinante, densa influenza kafkiana; la lineare spietatezza del riferimento a film come - per tutti - il Salò di Pasolini; l’intensità carica di pura passione derivata da Tarkovskij; il tranquillo sconvolgimento del quotidiano proveniente dal grande insieme di Bergman (di recente, confermato anche da uno stupendo, parallelo Elle, dell’olandese Paul Verhoeven), di Bresson, di Lynch (che gli è assai simile) e, naturalmente, ancora di Hitchcock (una curiosità: i film di Haneke sono firmati non a caso con la presenza fissa di un cameo della moglie, in analogia a quelle, celeberrime, della sua stessa presenza fisica, nelle sue opere, del grande, ironico, regista anglo-americano).

Il volume dei due critici francesi si legge come un avvincente racconto ricco di fatti e di colpi di scena, nei tanti passaggi di vita e di mestieri (radio, teatro, tv, attività cinematografiche varie da sceneggiatore a regista) lungo i quali si compone l’artificio delle opere più compiute, e nell’“occhio del ciclone” (come dice Haneke) appare, alla fine, la “rivelazione” che, per paradosso gratuito, dà forma alla nota falsificazione, nella pellicola, dell’arte cinematografica. Si manifesta così l’effetto di storie che inducono, con preciso cinismo, nello spettatore, una provvisoria psicosi devastante e depressiva, insieme al concetto inafferrabile della bellezza, corroborato, a sua volta, da situazioni e silenzi, suoni e immagini rigorosamente montate e sceneggiate.

I capolavori di Haneke portano dritto, in questo modo, alla trasformazione della mente, del cuore e dello spirito per l’effimera durata di qualche ora, con il retaggio, almeno nel tempo che segue subito dopo la visione, di una tristezza necessariamente opprimente. Pertanto a ragione Cieutat e Rouyer nella prefazione dell’edizione del 2012 parlano – per l’autore – di qualcosa di più della pur valida straordinarietà professionale: «l’essenziale è altrove, nella cura data alla composizione musicale degli intrighi, nella precisione della direzione degli attori o nella messa a punto di una regia che restituisce lo sguardo del suo autore sul mondo» (p. 16), giacché è così che, in definitiva, si ribadiscono «i punti cardine del suo cinema: l’impossibilità per i personaggi  di esprimere i propri sentimenti, l’insistenza su oggetti di uso quotidiano, il fascino delle immagini fisse o in movimento, le potenzialità dell’ellisse e del fuoricampo, l’attenzione inusuale alla colonna sonora» (p. 10).
 

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