La limousine bianca, che attraversa il corpo ribollente di New York, taglia un tragitto che è tutto mentale (la determinazione di un atto irrazionale – tagliarsi i capelli mentre tutto crolla), traccia un viaggio sino alla fine del mondo as we know it, ovvero alla fine del capitalismo, al termine del profitto e dell’ordine e all’inizio del conflitto e del disordine…
Dimmi ragazzo solo dove vai/Perché tanto dolore?... Vorrei cantarvela, la versione Mogol di Space Oddity cantata in italiano dallo stesso Bowie, ma poi vi dovrei anche spiegare uno degli abbracci più belli della storia del cinema e raccontare come Bertolucci si libera e fa un film sulla liberazione, sulla svolta che tocca una volta tutte le vite (qui un fratello e una sorella), mettendosi e mettendoci per un attimo alle spalle tutto l’armamentario fiaccante del cinema italiano (soprattutto di quello che crede basti saper girare mirabolanti piani sequenza e dolly vertiginosi per fare un film), recuperando luce, amore, intensità, chiarezza di pensiero, incendiaria ambiguità, politica-poesia (smarrite entrambe), semplicemente dicendo: io per rivoluzionare la vita sono disposto a scendere sottoterra. Io e te di Bernardo Bertolucci, magnifico, picco di tutto il festival.
«Tu non hai visto niente a Hiroshima. Niente.» Una delle frasi più famose della storia del cinema, l’incipit durasiano di Hiroshima mon amour. Dopo 53 anni Alain Resnais se ne esce con un’opera dal titolo Vous n'avez encore rien vu, “Voi non avete visto ancora niente”.
I cineasti veri dialogano sempre tra di loro. A Cannes quest'anno s'è prodotta la triangolazione Resnais-Carax-Bertolucci che dice moltissimo su ciò che resta di un'idea di cinema e di mondo e dunque di comunità. In Resnais un regista mette in scena la sua finta morte per richiamare alla vita gli interpreti che hanno lavorato un'intera vita per lui; in Carax un corpo palinsesto viaggia a bordo di una macchina-studio producendosi in un caleidoscopio di possibili miraggi di identità; in Bertolucci due ragazzi si separano dal mondo per crearne un altro.
Immaginiamo che un drammaturgo, prima di morire, decida di mettere in scena la sua ultima piéce utilizzando non solo gli attori, ma anche le parole, le situazioni, le storie raccontate in tutta la sua lunga carriera. Immaginiamo che il teatro dove verrà mostrata venga letteralmente trasfigurato in un luogo inclassificabile, inedito spazio della visione che è al contempo anche
rappresentazione. Il celebre scrittore Antoine d’Anthac, lascia agli attori che hanno nel tempo interpretato la sua “Eurydice” una lettera con le sue ultime volontà: riuniti in una casa dovranno vedere in video la messa in scena della stessa opera da parte di una compagnia di giovani attori. A loro il compito di giudicarne la nuova trasposizione, interamente ambientata in un vecchio capannone abbandonato.
È ancora giusto credere nella messa in quadro, diaframma espanso che non ti fa distinguere fra la fotografia e il cinema, fra l’angolo di un paesino francese e il deserto. Tutte le immagini diventano così un giornale intimo, dove il soggetto è a sua volta l’oggetto primario delle immagini. Una vita intera di cinema apolide, quella di Raymond Depardon, un altro Joris Ivens perduto nella luce dei suoi scatti, rivista attraverso out takes e scene smarrite o scartate: Journal de France.
Dopo Amir Naderi con Cut, anche Abbas Kiarostami trova in Giappone una nuova, sorprendente svolta e, come Naderi, lo fa lievemente, senza apparenti straordinarie trasformazioni. Like Someone in Love è di fatto un film giapponese per produzione e cast, ma anche per l’essenzialità di uno sguardo che si fa impalpabile, fluido non-racconto tutto riflesso sui vetri o semplicemente lasciato intravedere attraverso la trasparenza ingannevole dei finestrini di un’auto.
Una giovane donna pensa a un cortometraggio ispirato a una regista francese conosciuta durante un festival. E il film di Hong vola subito alto, perso olimpicamente in uno stato di leggerezza soave, fatto di nulla. Inquadrature precise, qualche zoom in avanti volutamente sporco e netti stacchi di montaggio. Rohmer è solo un ricordo, perché Hong ormai vive e filma in un ecosistema tutto suo, dove il mondo è fatto di sentieri interrotti che si sdoppiano senza mai offrire, però, una soluzione. Le soluzioni non esistono.
Che l’immagine sia un virus ce lo diceva di continuo William Burroughs (se poi del virus avviene il risveglio allora ci pensa Romero). La coltura, la diffusione e il sistema-virus in sé che resta dopo e oltre l’immagine. Difficile dire se per Brandon Cronenberg i film del padre abbiano lasciato l’immagine per farsi unicamente virus (forse il padre ha intuito qualcosa ed è di corsa tornato a Freud/Jung), ma certo in quel solco, come se fosse stato da sempre lì, si re-inietta, trovando una propria dimensione stupefacente, disincarnata, virusizzata appunto, mentre ancora fuori lecca il sangue che cola dal feticcio restante del corpo che fu. Si intitola Antiviral questo nuovo crime of the future.
Per quanto ci riguarda, la vera riflessione sulla società dell’immagine è Antiviral di Brandon Cronenberg. Piuttosto che veloce sociologia, il rampollo Cronenberg, che si mostra degnissimo di cotanto padre, compone un saggio filosofico sulla natura virale dell’immagine.
Ancora un film canicolare per Ulrich Seidl, un ritorno a quel caldo torrido e soffocante che intorbidava la vita e i comportamenti dei personaggi del film che ha fatto conoscere il regista austriaco nel 2001. Nel raccontare di quattro attempate “tardone” austriache e del loro viaggio in Kenya, il regista trasferisce così in Africa la sua poetica ed estetica. Già il prologo del film, in Austria prima della partenza, ripropone quella stessa luminosità estiva, afosa, che in quel paese si registra solo pochi giorni all’anno. E il clima torrido è palpabile per tutto il film, reso da tanti elementi visivi come i vestiti impregnati di sudore.
Non è un cineasta molto amato Xavier Dolan. Ma Laurence Anyways potrebbe agevolmente cambiare le cose. Cosa racconta il nuovo film del ragazzo prodigio canadese? Nient’altro che un abissale amore per il cinema. Il cinema che ti divora la vita. Il cinema che diventa la vita stessa. Dolan crede al miracolo del cinema. E non spreca una sola inquadratura, un solo taglio di montaggio, un solo attacco musicale. Per raccontare un amore folle, Dolan compone un film infinito e folle, colorato, pieno di musica, che assomiglia a un’invocazione a tutti gli Dei del cinema, della vita e della morte.
Curioso che sia la ragazza-Tahrir di Nasrallah (Baad el mawkeaa), sia il protagonista anti-Pinochet di No del cileno Pablo Larraín siano due pubblicitari. L’arte rivoluzionaria dello spot? Non perfetto Pablo Larraín, che pure prova a inseguire il Ruiz antichissimo di Nessuno disse niente, ma intelligente per questa scelta di messa in costume (siamo nel 1988, l’anno del plebiscito con cui i cileni dissero qualcosa: NO a Pinochet) attraverso il supporto usato per le riprese che ricrea il mondo televisivo degli anni ottanta: la rivoluzione vista in vhs.
Inaugurazione in grande stile per la “Quinzaine des Réalisateurs” che ha inaugurato il suo programma con il nuovo film di Michel Gondry, The We and the I, girato completamente a New York su un autobus di linea che riporta a casa gli studenti di un liceo del Bronx nel loro ultimo giorno di scuola prima delle vacanze estive. Riflessione in movimento sul mondo adolescenziale che, però, si rivela essere un caleidoscopio di sguardi sovrapposti e in sequenza ad analizzare non solo le relazioni che esistono, seppur anch’esse in movimento, dei protagonisti, ma anche il loro stesso gesto di osservazione della realtà.
C’è un hotel su un fiume dove una ragazza scopre che sua madre è un fantasma e a lungo si parla di confini e di acque pronte a inabissare un nuovo tsunami. Mekong Hotel, il nuovo Apitchapong Weerasethakul, lento disincanto, blandamente etereo, in attesa della fine.